Genova per loro
«Accade qui quello che succede in molti altri centri storici, a cominciare da Roma, Torino e Milano: chiudono i negozi di prossimità, aprono bed&breakfast e dehors. Lo spazio pubblico è privatizzato. Crescono gli affitti; gentrificazione e disagio si sovrappongono. Molti dei residenti abbandonano il centro storico per aree più periferiche: mentre certe aree diventano più costose, con ovvi vantaggi per chi ha case da vendere, altre vengono lasciate al degrado»
Ogni sabato mio padre – era uno spedizioniere – mi portava a fare una passeggiata in porto, vicino alla Stazione Marittima. Ero affascinata da quel mondo scuro, vietato ai miei compagni di scuola, pieno di pozzanghere, attraversato da binari, con le gru alte fino al cielo, e ne respiravo l’odore di pesce, sale e ferro: era l’odore della mia città.
Da tempo Genova ha perso quell’aroma. Una profumeria del centro storico ne ha perfino sintetizzato la fragranza: sa vagamente di basilico e i turisti possono portarsela a casa in boccette. Oggi la città è dipinta di colori pastello che scacciano il grigio dei miei ricordi: la luce è ancora d’argento, ma ha perso quel livore che aleggiava sulle strade. Ci sono mostre, musei, teatri e le strade sono vivaci. Il sabato e la domenica comitive di turisti affollano il centro storico, dove alcune panetterie sono diventate bakery e sono spuntate dappertutto antiche osterie, focaccerie con i tavolini di plastica e rivendite di pesto in barattoli.
La zona che è cambiata di più è proprio quella della Stazione Marittima che, sparite gru e pozzanghere, oggi è sede della facoltà di Economia e commercio dell’università e attrae imprenditori e costruttori, vicina com’è all’imbarco e allo sbarco delle migliaia di passeggeri delle navi da crociera. Il passato industriale e portuale lascia spazio a un presente sempre più votato al tempo libero che, ovunque, sparge simboli di questo passaggio: il Ponte Parodi, dopo anni di abbandono, ha accolto il Winter Park delle feste natalizie, mentre il silos granario Hennebique, ora trasformato in cantiere, ospiterà un polo multifunzionale che, fra le altre cose, offrirà servizi a chi viene e chi va.
Dando le spalle alla Stazione Marittima, lassù, in cima a una collina, i turisti appena sbarcati intravedono Forte Begato, una delle sedici fortificazioni di un sistema militare costruito fra XVIII e XIX secolo, ora riunito nel Parco delle Mura. Sul sito-vetrina Genovameravigliosa il Comune, che è proprietario di sette forti, li propone in concessione temporanea ai privati che vogliano sfruttarne le potenzialità turistiche perché tra qualche anno saranno raggiungibili anche dai crocieristi, grazie alla nuova funivia che collegherà la Stazione Marittima al Forte Begato, sorvolando il quartiere del Lagaccio.
L’impianto, realizzato da Doppelmayr Italia-Collini, sarà finanziato con fondi complementari al Piano nazionale di ripresa e resilienza del ministero della Cultura e costerà 40,5 milioni di euro, più della metà dei 70 milioni stanziati per il recupero di tutto il sistema dei forti. Avrà tre stazioni, compresa una intermedia che dovrebbe servire alla viabilità cittadina, e si sosterrà su quattro piloni, uno dei quali da progetto è alto 72 metri e crescerà in mezzo alle case. Gli abitanti del Lagaccio e molti altri genovesi dicono che il quartiere, famoso per i biscotti e costruito negli anni Sessanta per operai e portuali, avrebbe bisogno di altro: in un’area di un chilometro quadrato abitano circa 11 mila persone che, negli anni, hanno perso punti di riferimento: il consultorio, l’ufficio postale, i laboratori di artigiani, molti negozi di alimentari.
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Il comitato “No funivia – Con i piedi per terra” attende l’esito di due ricorsi al Tar. Nell’ambito della conferenza dei servizi che ha approvato l’opera (il 7 dicembre 2023), la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Genova ha fatto mettere per iscritto, oltre a varie modifiche a stazioni e piloni, anche una nota sull’impatto della presenza dei turisti sul “sistema dei Rolli”, ovvero degli antichi palazzi nobiliari del centro storico che sono patrimonio Unesco. La nota afferma implicitamente un principio: il turismo inquina perché è un’industria che ha effetti sul territorio. E tutti ne facciamo parte appena ci muoviamo da casa; ingranaggi di un sistema che periodicamente, nel bene e nel male, pretende da noi tributi in selfie.
La tensione di interessi tra chi in un posto ci abita e chi ci passa è più visibile nelle città in fase di passaggio: non ancora soffocate dai visitatori – come Venezia o Firenze – ma vicine alla soglia che il sociologo Marco D’Eramo nel libro Il selfie del mondo spiega con la fisica: «Come per i corpi c’è una temperatura precisa in cui passano dallo stato solido a quello liquido (…), ed è la temperatura in cui avviene la transizione di fase, così si può definire una soglia precisa che separa una città turistica in senso stretto da una città che vive anche di turismo». Questa soglia è data, per esempio, dai ristoranti: al di sotto della soglia «i turisti mangiano in ristoranti che cucinano per i locali»; oltre, «i residenti dovranno mangiare in trattorie mirate al mercato turistico». Secondo D’Eramo va benissimo vivere «anche di turismo» mentre vivere «solo di turismo» porta nel medio-lungo periodo a stravolgere le città nella loro dimensione estetica e umana.
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Consideriamo Genova una città-laboratorio: per capire quanto sia vicina alla soglia, diamo un’occhiata ai numeri. Se è vero, come scrive D’Eramo, che «le città sono turistiche quando il numero di visitatori stranieri annui supera di gran lunga quello degli abitanti», Genova è ancora lontana dall’ebollizione: secondo l’Osservatorio turistico della Regione Liguria da gennaio a settembre 2023 si sono registrati 440.703 arrivi stranieri a fronte di 560.217 residenti (dai Istat ottobre 2023). Gli arrivi sono stati 80.045 in più rispetto allo stesso periodo del 2022 (+22,19%); le presenze (cioè le notti) 922.474, 150.120 più che nel 2022 (+19,44%).
Poi però ci sono coloro che a Genova passano durante una crociera: l’unico dato fornito dal Comune per il 2023 è di 959.775 passeggeri, in aumento rispetto ai 919.381 dello stesso periodo del 2022 (anno per il quale erano stati forniti dati più puntuali). La media è di 3.157 persone al giorno con punto massimo, come nell’ottobre del 2022, di 5.742 persone. Ho mandato ad Alessandra Bianchi, assessora al Turismo del Comune di Genova, una serie di domande su queste cifre e su come l’amministrazione intende governare, ma non ho avuto risposta. Mi sarebbe piaciuto sapere anche se, secondo lei, esiste una correlazione fra il boom del turismo, le venti posizioni perse nella classifica del Sole 24 Ore per la qualità della vita e l’inflazione più alta d’Italia registrata nel mese di settembre 2023.
Alcune risposte alla domanda «come siamo arrivati qui?» arrivano invece da Luca Borzani, già direttore della Fondazione Palazzo Ducale e direttore del mensile La Città. Gli chiedo, in particolare, se la storia del capoluogo ligure sia simile a quella degli altri due poli del vecchio triangolo industriale: Torino e Milano. «Genova non è mai stata una città-fabbrica», racconta Borzani, «era una città industriale, portuale e commerciale. Perfino gli operai genovesi erano diversi dai milanesi e torinesi». Di turismo qui non si parlò finché le fabbriche non iniziarono a licenziare, ovvero con la de-industrializzazione. Ma il turismo non fu visto come l’unica via di sviluppo, bensì associato ad altre due, «il porto e l’high tech».
Benché si mugugnasse «non saremo mai una città di camerieri», a Genova l’idea del turismo trovò terreno fertile e si sviluppò con i grandi eventi: le celebrazioni colombiane del 1992 e la Capitale Europea della Cultura nel 2004 (pur con la funesta parentesi del G8). La cultura diventò l’astro di una nuova identità, interna ed esterna, di una città che viveva un declino da cui non sembrava possibile sfuggire. Da qui una convinzione: «La riqualificazione del patrimonio storico-artistico doveva essere correlata a quella urbana» poi avvenuta a cominciare dal waterfront di Renzo Piano, nel sistema dei musei e in molte aree del centro storico. Fu un passaggio difficile e con tante facce, in un territorio consumato dall’industrializzazione, il cui punto d’arrivo fu, nel 2006, il riconoscimento di Genova e dei Rolli come Patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Da quel momento in poi, per Borzani, prende il sopravvento un turismo «omologante e soprattutto predatorio» e, come in altre città, «l’attrattività diventa consumo dello spazio pubblico e perdita di qualità della vita dei cittadini». Scendo per via San Lorenzo, dove a lungo ho abitato, e per me è difficile riconoscere il mio stesso passato: negli anni i ristoranti, i box 24 ore e i negozi di servizi per turisti hanno sostituito quelli di abbigliamento e modellismo. La grazia dei marmi della cattedrale si perde negli spazi occupati dai dehors e nella loro famelica vitalità.
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Accade a Genova, insomma, quello che succede in molti altri centri storici, a cominciare da Roma, Torino e Milano: chiudono i negozi di prossimità, aprono bed&breakfast e dehors. Lo spazio pubblico è privatizzato. Crescono gli affitti; gentrificazione e disagio si sovrappongono. Molti dei residenti abbandonano il centro storico per aree più periferiche: mentre certe aree diventano più costose, con ovvi vantaggi per chi ha case da vendere, altre vengono lasciate al degrado. A Genova i confini tra le due zone si spostano continuamente, creando un profilo mutevole in cui i palazzi di via Garibaldi, presi d’assalto dai turisti e zeppi di appartamenti delle famiglie patrizie, sono a pochi passi dalle vie – per usare le parole di Fabrizio De André – frequentate anche di giorno dalle graziose. A proposito di De André, di cui in questi giorni si ricordano i venticinque anni dalla morte, anche lui è oramai un protagonista del marketing urbano. Neanche Genova si salva dalla messa in scena che tutte le città, nel tentativo di rendersi originali, offrono di sé, avvitate a miti e retorica, con il grottesco effetto, come dice Borzani, «di rendersi invece sempre più uguali le une alle altre».
Chiedo a Marco D’Eramo al telefono se gentrificazione e turismo siano collegati. Intuisco un sorriso: «Non diamo al turismo anche le botte destinate al fratello più grosso, cioè il capitalismo. I centri storici si svuotano: dipende dalla rendita fondiaria, che è maggiore in centro». Le prime ad andarsene sono le famiglie con figli, come succede «a Cleveland, dove ormai restano solo le banche; a Parigi, dove non si trova più un solo quartiere dentro le porte in cui gli appartamenti costino meno di 20 mila euro al metro quadro; a Londra, dove la presenza di una buona scuola elementare pubblica condiziona il mercato immobiliare».
Con il fratello minore del capitalismo, secondo D’Eramo, il problema è politico e culturale. Spesso si trascura che «il turismo è un’industria estremamente inquinante, come quella chimica, ma è centrale non solo per la nostra economia, ma per la nostra concezione della libertà: ce ne siamo accorti con la pandemia, di quanto non poterci muovere ci facesse sentire prigionieri. Il problema è che la nostra è una libertà che consuma il mondo. Non ci sono soluzioni allegre: è una contraddizione del moderno. Nessuno dice di fare a meno del turismo, ma di governarlo». Cosa che in Italia, secondo D’Eramo, non si fa adeguatamente.
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L’Italia ha molti meno visitatori, per esempio, della Spagna, ma «gli enti che dovrebbero governare il turismo agiscono come pro-loco», invece di gestire i flussi. Guardiamo le crociere: «Questo tipo di visita non porta nulla ai centri urbani; ma una media di poco più di 3.000 persone al giorno in una città di circa 561 mila abitanti potrebbe non essere un problema. La questione, ancora una volta, è di concentrazione e di governo dei flussi». A livello decisionale, i margini di intervento ci sarebbero: evitare la «monocultura turistica» e promuovere la riqualificazione urbana a beneficio dei residenti, altrimenti il rischio è che le nostre città si trasformino in costosi resort per chi ha più soldi di noi.
D’Eramo prevede che questo processo, oggi apparentemente inarrestabile, finirà quando scompariranno le cause che hanno originato il turismo: lavoro salariato e sistema pensionistico, ovvero tempo libero retribuito. Oppure imploderà con la noia: «Ci abitueremo ai viaggi e non ci daranno più emozioni». Tra cinquanta o cento anni i bed&breakfast shabby-chic scompariranno da soli e forse ricresceranno anche i boschi squarciati dalle piste per biciclette, ma il problema per i nostri posteri sarà: cosa fare delle funivie, dei mega-alberghi e dei mega parcheggi, delle navi da duemila cabine?
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