Sul fine vita le regioni si devono arrangiare
La mancanza di una legge nazionale le sta costringendo a prendere iniziative per regolare l'accesso al suicidio assistito, con molti problemi
La proposta di legge su cui si è discusso oggi in Veneto sul suicidio assistito, la pratica con cui a certe condizioni ci si può auto-somministrare un farmaco letale, è nata da un’iniziativa popolare: è stata cioè depositata dopo una raccolta firme, che è durata mesi prima di raggiungere la soglia delle 7mila firme necessarie. Il Veneto è stata la seconda regione italiana a depositare la proposta di legge (dopo l’Abruzzo), ma la prima effettivamente discussa in Consiglio regionale.
Attualmente sono in tutto 10 le regioni italiane (Veneto e Abruzzo comprese) in cui è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la morte assistita (l’altro nome con cui viene chiamato il suicidio assistito). In un’altra, la Puglia, la giunta regionale ha adottato una delibera in cui ha elencato le linee guida da seguire per valutare le richieste di suicidio assistito, ma ancora non c’è una legge. In altre quattro (Valle d’Aosta, Lombardia, Toscana, Umbria) sono ancora in corso le raccolte firme o sta per venire depositata la proposta di legge. In cinque regioni – Liguria, Campania, Molise, Sicilia e Trentino-Alto Adige – i volontari dell’associazione Luca Coscioni, che ha scritto la proposta di legge discussa in Veneto (chiamata “Liberi Subito”), stanno in vari modi cercando di avviare raccolte firme o di trovare membri dei vari Consigli regionali disponibili a depositare la proposta di legge.
In tutti questi casi le regioni hanno cercato o stanno cercando di colmare in maniera autonoma il vuoto normativo che esiste in Italia sul cosiddetto “fine vita”, come viene spesso chiamato l’insieme delle questioni che riguardano la morte e il periodo che la precede, compresa la possibilità per le persone di decidere come debba avvenire. Questa situazione in cui ogni regione si arrangia come riesce, però, comporta varie incognite e problemi.
In Italia questa pratica è legale grazie a una sentenza della Corte Costituzionale del 2019, che dopo anni di iniziative e disobbedienze civili in cui si chiedeva maggiore libertà di scelta sul fine vita ha depenalizzato, ad alcune condizioni, il suicidio assistito. Ma una legge che definisca in modo chiaro tempi e modalità di attuazione non è mai stata approvata, né a livello nazionale né a livello locale, nonostante ripetuti inviti da parte della stessa Corte. Nel frattempo ogni caso è stato affidato volta per volta alla gestione delle singole aziende sanitarie locali, non senza problemi.
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Nelle regioni che si sono dotate o stanno cercando di dotarsi di una legge o di maggiori regole sulla morte assistita i metodi sono stati diversi, anche a seconda degli statuti delle singole regioni.
La Puglia come detto si è data delle regole adottando una delibera, uno strumento legale meno incisivo di una legge (con alcuni problemi: ci arriviamo), mentre la Basilicata è l’unica regione in cui il deposito di una proposta di legge è avvenuto per iniziativa dei Comuni, con nove consigli comunali che hanno concordato un deposito congiunto della proposta di legge “Liberi Subito”. Nelle regioni in cui al deposito della proposta di legge si è arrivati con le raccolte firme, le soglie necessarie erano di volta in volta diverse a seconda degli statuti regionali. La mobilitazione per la proposta di legge “Liberi Subito” ha coinvolto 1.700 volontari tra organizzazione dei tavoli e raccolta e autenticazione delle firme, ha detto Matteo Mainardi, coordinatore della campagna.
Nelle Marche la proposta di legge è stata depositata da un consigliere regionale del Partito Democratico, Maurizio Mangialardi. È l’ex sindaco di Senigallia, la città di Federico Carboni, che fino alla sua morte era noto come Mario: fu la prima persona a ricorrere legalmente al suicidio assistito in Italia, nel 2022, ma ci riuscì solo dopo una vicenda legale durata quasi due anni, per via del rifiuto dell’azienda sanitaria locale a valutare il suo caso. Carboni dovette fare ricorsi, presentò diffide e denunciò l’azienda sanitaria regionale accusandola di tortura e omissione di atti di ufficio.
Carboni, un uomo che era tetraplegico da oltre 10 anni, si fece infine carico privatamente del farmaco necessario al suicidio e del macchinario per assumerlo, sempre a causa del rifiuto dell’azienda sanitaria locale di procedere. L’azienda aveva motivato il rifiuto proprio con la mancanza di una legge, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 dicesse chiaramente che la morte assistita era depenalizzata ad alcune condizioni, e che queste condizioni dovevano essere verificate e gestite da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, proprio come l’azienda sanitaria locale. La sentenza della Corte diceva anche che i tempi e le modalità con cui le strutture si sarebbero dovute occupare di valutare le richieste sarebbero stati da definire con una legge più specifica.
I tempi sull’inizio delle prossime discussioni della proposta di legge nelle varie regioni sono incerti. In Friuli Venezia Giulia si sono concluse lo scorso 22 novembre le audizioni in commissione, la fase dell’iter legislativo in cui vengono ascoltati pareri informati sul tema, e non ci sono ancora indicazioni su quando inizierà la discussione. In Piemonte è iniziato l’esame del testo in commissione e a breve inizieranno le audizioni, tra molte difficoltà e opposizioni interne: martedì 16 gennaio il presidente del consiglio regionale, il leghista Stefano Allasia, contrario all’iniziativa, si è presentato nell’aula in cui era riunita la commissione per tentare di bloccare l’iter della proposta di legge. In molti altri casi, a proposta di legge depositata, non è ancora stato calendarizzato l’inizio della discussione in aula e non ci sono notizie su quando avverrà.
L’andamento delle varie iniziative nelle singole regioni dipende in parte anche dal risultato del voto in Veneto. Un po’ perché l’eventuale approvazione della legge avrebbe potuto funzionare come precedente per altre regioni, ma ci sono anche altri motivi. Secondo Mainardi se per esempio fosse stata approvata una legge così rilevante in tema diritti civili da parte di una regione governata dalla Lega – un partito apertamente di destra e con un approccio generalmente molto conservatore su questi temi – potrebbe spingere regioni come l’Emilia-Romagna, tradizionalmente progressista, a voler procedere in modo più solerte.
Dal momento che le discussioni sul suicidio assistito stanno assumendo una dimensione sempre più locale, un’altra grossa incognita sul tema riguarda le prossime elezioni regionali. Nel 2024 si voterà in Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Sardegna e Umbria: nelle prime quattro di queste cinque regioni la proposta di legge è stata depositata ma non ancora discussa, e con un eventuale cambio di giunta la proposta di legge potrebbe anche essere accantonata.
Un caso ancora più emblematico è la Puglia, dove lo strumento legale della delibera regionale rischia di essere molto fragile: «Al primo cambio di giunta si potrà facilmente ritirare o modificare, senza dover passare nemmeno per una discussione in consiglio regionale», ha detto Mainardi. La delibera di giunta in Puglia ha inoltre il grosso problema che non prevede regole chiare sui tempi entro cui va gestita la richiesta di morte assistita: un tema che finora, in mancanza di una legge, ha portato alcune persone ad attendere anche anni per ricorrere alla pratica, pur avendo tutti i requisiti per farlo.
L’avvocatura dello Stato ha inoltre espresso alcune riserve sul fatto che siano le regioni, e non il parlamento nazionale, a dover intervenire per regolamentare il diritto alla morte assistita. Un’ipotesi che potrebbe verificarsi è che la proposta di legge regionale, una volta approvata, venga impugnata dal governo e si debba quindi passare per un’ulteriore pronuncia della Corte Costituzionale per stabilire se la competenza sia della Regione o dello Stato. È l’ipotesi citata dai membri leghisti della giunta del Piemonte (che è di destra e sostiene il presidente Alberto Cirio, di Forza Italia), contrari alla proposta di legge, come motivo valido per ritardare l’approvazione della legge regionale.
Le regioni hanno inoltre dovuto affrontare problemi legati alla mancata digitalizzazione delle amministrazioni regionali. Un caso emblematico è stato quello della Lombardia, dove la proposta di legge “Liberi Subito” verrà depositata giovedì 18 gennaio.
La procedura, che fa riferimento a una legge del 1970, prevede che per depositare la proposta di legge di iniziativa popolare si debbano raccogliere su un modulo cartaceo fornito dalla Regione almeno 5mila firme, e che queste ultime siano contestualmente autenticate da persone idonee a farlo, come avvocati o notai. Le firme vanno poi certificate, con una procedura che è sempre a carico dei promotori e che prevede che si richiedano i certificati elettorali dei firmatari e delle firmatarie ai rispettivi comuni di residenza. I certificati possono essere richiesti direttamente ai diversi uffici elettorali (con emissione in formato cartaceo) oppure via PEC, con successiva trasmissione degli stessi in formato digitale.
Nel caso della Lombardia, una volta approvato il protocollo di deposito proposto dal comitato promotore della proposta di legge (che prevede tra l’altro il deposito dei certificati digitali tramite chiavetta usb), la Regione ha chiesto al comitato promotore di stampare singolarmente tutti i certificati arrivati via PEC per facilitare il processo di verifica da parte dell’ufficio competente. È stata una complicazione che ha allungato notevolmente i tempi, «richiedendo un ulteriore consistente impegno ai volontari sia in termini di tempo che economici (si parla di diverse migliaia di fogli inutilmente stampati)», ha detto Cristiana Zerosi, coordinatrice della cellula milanese dell’associazione Luca Coscioni.
La Regione ha fatto riferimento alla legge del 1970, che per ovvi motivi si riferiva a procedure cartacee, quando avrebbe potuto accettare i certificati digitali e procedere in modo più rapido al deposito.
Mentre a livello nazionale sono previsti mezzi (anche se molto carenti) per gestire iniziative di questo tipo in modo digitale, non è lo stesso per le regioni. «La Lombardia e altre regioni, come l’Abruzzo, non vedevano da tempo proposte di legge d’iniziativa popolare a livello regionale, e si sono trovate del tutto impreparate a gestirle coi mezzi richiesti nel 2023 o nel 2024», ha detto Mainardi.