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  • Domenica 14 gennaio 2024

La prigione cilena piena di gatti

Sono più di 300 e la loro presenza ha effetti positivi sulle persone detenute che vivono nel carcere più sovraffollato dello stato

Un gatto che cammina nel corridoio di una prigione in brasile
Un gatto nella prigione di Porto Alegre, in Brasile (AP Photo/Felipe Dana)
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La presenza di animali nelle carceri, specialmente nell’ambito di programmi di riabilitazione dei detenuti, è una cosa abbastanza comune. Più rara è invece la loro presenza nelle celle, che quando si verifica è limitata a pochi animali di proprietà di specifici detenuti. Per questo motivo il caso del principale penitenziario di Santiago, la capitale del Cile, è piuttosto unico: dentro alla prigione vivono più di 300 gatti a stretto contatto con le persone detenute e la loro presenza ha migliorato la vita all’interno del carcere, che è il più affollato del paese. La loro convivenza è stata raccontata recentemente da Jack Nicas in un articolo per il New York Times.

Conosciuta semplicemente come “Peni” e costruita nel 1843, nella Penitenciaría di Santiago vivono circa 5.600 detenuti: nelle aree più affollate vivono anche dieci persone nella stessa cella e le condizioni igieniche sono molto scarse, ma la presenza di centinaia di gatti viene considerato un aspetto molto positivo.

Quando siano arrivati i gatti e per quale motivo non è chiaro. Alcuni dicono che si è trattato da subito di gatti randagi arrivati spontaneamente, mentre altri pensano che i primi furono portati per risolvere il problema dei topi. Per diversi decenni hanno vissuto separati dalle persone e si sono riprodotti fino a diventare diverse centinaia. Poi quasi naturalmente hanno iniziato a entrare in contatto con i detenuti che hanno iniziato ad accudirli, adottandoli informalmente e dando loro dei nomi, condividendo il loro cibo e i loro letti e, in alcuni casi, costruendo loro delle cucce.

Tuttavia, fino a circa dieci anni anni fa la popolazione felina si stava espandendo in modo incontrollato e i gatti si ammalavano spesso, sviluppando anche un’infezione contagiosa che rendeva alcuni animali ciechi. Secondo l’assistente sociale Carla Contreras Sandoval la situazione «stressava persino i detenuti». Così nel 2016 il penitenziario fece un accordo con l’associazione di volontari Fundación Felinnos, che si è occupata di raccogliere sistematicamente tutti i gatti per curarli, sterilizzarli e castrarli.

Il successo del programma è stato in parte merito dei detenuti, che si occupano di portare ai volontari i gatti che stanno male e chiedono loro informazioni su come accudire i cuccioli. Denys Carmona Rojas, 57 anni, che sta scontando otto anni per possesso di armi, ha raccontato al New York Times di aver accudito molti gattini nella sua cella, somministrando in un caso del latte speciale a una cucciolata dopo che la madre era morta durante il parto.

La presenza dei gatti ha avuto effetti positivi sul clima della prigione. La direttrice Helen Leal González ha detto al New York Times che la loro presenza «ha cambiato l’umore dei detenuti, ha migliorato il loro comportamento e ha rafforzatoil loro senso di responsabilità, in particolare nella cura degli animali». La prigione è un luogo ostile dove le condizioni di vita sono pessime, cosa che contribuisce a creare dissidi fra i detenuti. Invece, «quando si vede un animale che dà affetto e genera sentimenti positivi, logicamente si verifica un cambiamento di comportamento e di mentalità» di chi li accudisce.

Fra i molti detenuti intervistati, Carlos Nuñez, che sta scontando una condanna di 14 anni per furto, ha sostenuto che per molti di loro è la prima volta che si prendono cura di qualcosa o qualcuno: «un gatto ti costringe a preoccuparti per lui, a dargli da mangiare, a dargli attenzioni speciali. Quando eravamo fuori e liberi, non lo facevamo mai. L’abbiamo scoperto qui». Alcuni gatti vengono “adottati” da tutti i detenuti di una cella e questo stimola la collaborazione. In diversi citano anche il modo in cui gli animali danno loro conforto nei momenti più duri.

Secondo i volontari, quando il programma è stato creato nel 2016 i gatti erano più di 400, una cifra in cui non erano inclusi i cuccioli, mentre ora sono circa 300 e sono in costante diminuzione dato che quando un detenuto finisce di scontare la sua pena ed esce spesso si porta con sé il gatto che aveva accudito durante la reclusione.

La presenza di animali nelle carceri, specialmente di cani, non è una novità. In passato la loro convivenza esisteva ma era poco strutturata, mentre dagli anni Settanta hanno iniziato a diffondersi, a partire dagli Stati Uniti, diversi programmi di riabilitazione dei detenuti attraverso l’addestramento o l’accudimento di animali. Diversi studi hanno provato che questa relazione porta a risultati positivi. La ricercatrice spagnola Beatriz Villafaina-Domínguez spiega per esempio che programmi svolti nelle prigioni di diversi stati hanno provato che il rapporto fra detenuti e cani portava a «una diminuzione della recidiva, un miglioramento dell’empatia, un miglioramento delle abilità sociali e un rapporto più sicuro e positivo tra i detenuti e gli agenti penitenziari».

Oggi sono molto usati negli Stati Uniti: in Arizona, i detenuti addestrano cavalli selvaggi per pattugliare il confine con il Messico, mentre in Minnesota e Michigan addestrano cani per non vedenti e non udenti. In Massachusetts, i detenuti aiutano invece a curare animali selvatici feriti o malati, come falchi, coyote e procioni. Questi programmi esistono anche in Italia: al carcere di Bollate, a Milano, alcuni detenuti imparano a gestire una scuderia e prendersi cura dei cavalli, mentre altri fanno la stessa cosa con i cani randagi.