Il sassofono per eccellenza
Il Mark VI della Selmer fu prodotto tra il 1954 e il 1974, lo usarono tutti i più grandi jazzisti, e ora è il sogno di molti
Nel marzo del 1954 la Henri Selmer, un’azienda francese specializzata nella produzione di strumenti musicali, inviò nella sua filiale statunitense di Elkhart (Indiana) un nuovo sassofono a cui stava lavorando da un paio di anni: era un contralto, la tipologia più diffusa, con numero di serie 53727 e dei motivi floreali incisi sulla campana, l’estremità con il buco. Si chiamava Mark VI, e negli anni successivi sarebbe diventato il sassofono più conosciuto e apprezzato al mondo, attorno al quale nel tempo si è sviluppato una specie di culto, alimentato dai modi in cui lo suonarono jazzisti come John Coltrane, Sonny Rollins e Wayne Shorter.
La Selmer produsse il Mark VI per un periodo di tempo limitato: vent’anni, dal 1954 al 1974, includendo nella linea anche le altre tipologie di sax più diffuse, come il tenore, il soprano e il baritono. Quando interruppe la produzione ne erano stati fabbricati più o meno centottantamila esemplari. Come ha scritto Chris Almeida sul New Yorker, oggi trovare un Mark VI prodotto in quel ventennio è relativamente semplice: la maggior parte dei negozi di musica delle principali città statunitensi ne ha in vendita uno. Il vero ostacolo è il prezzo, che in tutti i casi è «simile a quello di una macchina usata».
Il costo è variabile e dipende dalla presenza di alcune caratteristiche che rientrano in quella che cultori del Mark VI come John Leadbetter, titolare di un negozio di sassofoni a Manhattan, definiscono “checklist” (la lista di cose da controllare). Ci sono diversi elementi che consentono di stimare il valore effettivo di un Mark VI, su tutti la laccatura: quella originale era realizzata in cellulosa scura e presentava l’incisione dello stabilimento di Selmer di Elkhart, dove veniva completata la fabbricazione dei modelli destinati al mercato statunitense. Un’altra cosa a cui i fanatici del Mark VI prestano un’attenzione particolare è il numero di serie: più il numero è vicino al 53727, più il prezzo aumenta. Per rendere l’idea, un Mark VI con laccatura originale e numero di serie basso può superare senza problemi i 10mila dollari.
Peraltro, per via di alcuni cambiamenti che Selmer introdusse nel processo di lavorazione dei metalli, i Mark VI prodotti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta sono considerati di qualità inferiore rispetto ai primissimi modelli: per questo motivo, di solito i puristi ricercano i modelli con un numero di serie a cinque cifre, precedente a quando la progressione raggiunse le 100000 unità.
Il Mark VI arrivò nel mercato statunitense in un periodo in cui i produttori di strumenti musicali erano in grossa difficoltà. Negli anni Venti e Trenta aziende locali come la King avevano prodotto sassofoni di ottima fattura, che furono ampiamente utilizzati dai musicisti che suonavano nelle orchestre che animavano la scena dello swing. In quel periodo si affermarono alcuni modelli iconici, come il King Silversonic, il sassofono utilizzato da Charlie Parker, il musicista che aprì la strada al bebop, la più radicale rivoluzione attraversata dal jazz nella sua lunga storia.
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Ma agli inizi degli anni Quaranta, per via delle necessità dell’industria bellica, il governo statunitense impose dei limiti alla quantità di materiali che potevano essere utilizzati per realizzare gli strumenti, come rame, ferro, zinco, acciaio e soprattutto ottone, la lega più impiegata nella fabbricazione dei sassofoni. Inoltre diverse aziende riconvertirono la loro produzione, abbandonando le loro attività tradizionali per dedicarsi interamente alla fabbricazione di armi e materiale da utilizzare nella Seconda guerra mondiale. Tra queste c’erano anche alcuni famosi produttori di sassofoni, come Conn e Buescher, che si focalizzarono sulla produzione di altimetri (gli strumenti che misurano la distanza di aerei ed elicotteri dal suolo) e per l’appunto King, che si specializzò nella costruzione di radar e antenne.
In quegli anni, a causa dell’occupazione nazista, i produttori di strumenti dovettero interrompere la loro attività anche in Francia. Tra queste c’era anche la Selmer, fondata nel 1885 da Henri Selmer, un musicista d’orchestra che proveniva da una famiglia contadina. All’inizio realizzava soprattutto ance e bocchini per clarinetti, ma negli anni Trenta cominciò a estendere la sua attività ad altri strumenti, e in particolare a quelli utilizzati nel jazz, un genere che, seppure in forme diverse, riscuoteva ormai un gran successo negli Stati Uniti e anche in Europa.
Nel 1931 Selmer coinvolse nelle sue attività Mario Maccaferri, un famoso liutaio italiano, creando una linea di chitarre molto apprezzate dai jazzisti dell’epoca, utilizzate tra gli altri da Django Reinhardt. Parallelamente Selmer si specializzò nella realizzazione di una serie di sassofoni: nel 1928 aveva rilevato i laboratori di Adolphe Sax, l’inventore del sassofono, diventando una delle principali aziende mondiali nella produzione di questo strumento. Negli anni Trenta il più popolare in assoluto fu il sassofono “Balanced Action”, apprezzato dai jazzisti più virtuosi e utilizzato tra gli altri dal leader di big band Jimmy Dorsey, cui fu anche dedicato un modello. I sassofoni di Selmer divennero molto popolari soprattutto negli Stati Uniti, anche perché il jazz che si suonava in Europa si basava soprattutto sugli strumenti a corda (chitarre, bassi e violini), mentre nelle big band statunitensi gli strumenti a fiato trovavano la loro massima espressione.
Durante l’occupazione nazista Selmer ridusse la sua produzione del 40% e perse alcuni dei suoi principali progettisti, ma riuscì a portare avanti la ricerca e a mantenere intatti i suoi due principali stabilimenti a Mantes-la-Ville e in Normandia. Di conseguenza, alla fine della guerra fu in grado di riprendere la regolare produzione senza grossi problemi. Negli Stati Uniti le cose andarono diversamente. I costruttori faticarono a ripartire, e si dedicarono principalmente alla realizzazione di sassofoni dedicati agli studenti delle scuole di musica, adatti per studiare ma poco utili per le esibizioni dal vivo. Matt Stohrer, un riparatore di sassofoni statunitense, ha detto in un’intervista a Pitchfork che nel 1954 «c’erano solo due produttori locali che realizzavano sassofoni di livello professionale e di elevata qualità rispetto al periodo prebellico: King e Martin».
Il Mark VI Selmer riuscì ad affermarsi proprio perché arrivò sul mercato quando gli strumenti professionali in circolazione erano pochi ma molto richiesti. Non solo: in quel periodo il jazz stava faticosamente uscendo da una crisi di popolarità in cui era finito quando si era conclusa l’era dello swing e delle big band, quando aveva un grande pubblico e raccoglieva molti soldi, ed era cominciata quella del bebop, che era troppo cervellotico e clandestino per avere successo. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, grazie a musicisti come Miles Davis, John Coltrane, Charles Mingus e Ornette Coleman, il jazz ritrovò però ispirazione e mercato dopo un decennio in cui si erano registrati pochi dischi e in cui moltissimi locali di musica dal vivo avevano chiuso.
Questa nuova spinta creativa aveva bisogno di strumenti da suonare, e in particolare di sassofoni. E il Mark VI si prestava alle nuove esigenze perché era un sassofono che permetteva non solo di eseguire frasi tecniche e veloci, che facevano parte del repertorio dei sassofonisti già dal bebop, ma anche e soprattutto di lavorare sul timbro e sull’intensità. E di suonare molto forte, o anche molto piano, esprimendo una personalità nettamente diversa da quella più convenzionale e uniformata della maggior parte dei musicisti di swing. Era insomma un sassofono che consentiva ai musicisti di sviluppare un proprio suono distintivo, in un periodo peraltro in cui lo sviluppo delle tecnologie di registrazione permetteva per la prima volta di trasporlo fedelmente su disco.
Adottarono il Mark VI, nelle sue versioni soprano, contralto o tenore i più grandi sassofonisti dell’epoca, come Coltrane, Coleman, Shorter, Joe Henderson, Sonny Rollins, Dexter Gordon, Eric Dolphy, Cannonball Adderley, Stan Getz e molti altri. Quando potevano permettersene uno – spesso per difficoltà economiche anche i jazzisti più grandi usavano strumenti di fortuna, addirittura talvolta sax di plastica – lo suonavano un po’ tutti i musicisti dell’epoca, attratti dalla sua larga disponibilità e dalla sua qualità eccellente. Il Mark VI caratterizzò la stagione del jazz modale, il sottogenere in cui rientra Kind of Blue di Miles Davis, e soprattutto il free jazz, il movimento d’avanguardia che si affermò negli anni Sessanta.
Il successivo modello prodotto da Selmer, il Mark VII, non ebbe lo stesso successo del predecessore: uscì nel 1975, con l’ambizione di creare un sassofono ancora più versatile del Mark VI. Non fu così. La maggior parte dei musicisti lo considerò un sassofono poco riuscito e scomodo da utilizzare. Questo perché Michel Nouaux, il consulente acustico che seguì la progettazione del Mark VII, lo modellò sulla base delle sue caratteristiche fisiche: era un uomo dalla corporatura molto robusta, e di conseguenza realizzò un sassofono molto pesante e con una tastiera dagli spazi molto ampi, che in molti trovarono difficile da suonare.
Il consulente acustico che Selmer aveva ingaggiato per il Mark VI era invece Marcel Mule, un sassofonista classico francese. Mule non era un estimatore del jazz, e di conseguenza creò un assetto che potesse risultare comodo a chiunque, e non soltanto ai musicisti di una big band statunitense. A questo proposito Florent Milhaud, che supervisionò la produzione dei sassofoni nella sede francese di Selmer, ha detto al New Yorker che il vero segreto del Mark VI è proprio la sua estrema versatilità. «Molti ne parlano come di uno strumento dalla forte personalità. La verità è che non ha alcuna personalità», ha spiegato.
Il Mark VI è molto apprezzato anche da diversi musicisti contemporanei. Il sassofonista Kamasi Washington, tra i più famosi jazzisti di questi anni, lo ha suonato in To Pimp a Butterfly, l’album più famoso di Kendrick Lamar, e considera il Mark VI insuperabile per la sua «combinazione di meccanica e suono». Il suo è un modello del 1969 che ereditò dal padre e che iniziò a utilizzare nell’orchestra della scuola, quando il suo professore di musica gli chiese di iniziare a suonare il sassofono tenore. Anche Joshua Redman, uno dei più apprezzati sassofonisti contemporanei, figlio del jazzista statunitense Dewey Redman, iniziò a suonare con un Mark VI che apparteneva a suo padre. Lo utilizzò durante gli anni della sua formazione, ma poi lo sostituì con il Super Balanced Action, un altro famoso modello prodotto da Selmer. Sonny Rollins, oggi 93enne, ha utilizzato lo stesso Mark VI per oltre cinquant’anni, e finché si è esibito dal vivo lo ha considerato «il suo strumento numero uno».
Anche in Italia il Mark VI è molto desiderato dai sassofonisti, e i prezzi si aggirano tra i 5mila e i 10mila euro. Sui forum di discussione dedicati al jazz e ai sassofoni, il Mark VI è uno degli argomenti più dibattuti: gli appassionati si scambiano consigli sui prezzi, sui negozi in cui trovarlo e sui metodi migliori per preservare la laccatura.