• di Vincenzo Latronico
  • Storie/Idee
  • Giovedì 11 gennaio 2024

Nostalgia canaglia

«Trovo qualcosa di scorretto, in generale, nell’abitudine a derubricare ogni critica al nuovo come nostalgia dei vecchi tempi. I capannoni diroccati sulle cui macerie sono sorti grattacieli di lusso potevano diventare parchi, scuole, case popolari; gli oneri di urbanizzazione potevano essere investiti in biblioteche e asili; le pedonalizzazioni potevano essere accompagnate da restrizioni al dilagare dei dehors. L’alternativa non è fra gli iPhone 15 e le tavolette d’argilla. I futuri possibili già l’altro ieri erano moltissimi»

Il quartiere Isola di Milano visto attraverso le torri del Bosco verticale. (AP Photo/Luca Bruno)
Il quartiere Isola di Milano visto attraverso le torri del Bosco verticale. (AP Photo/Luca Bruno)
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Sono tornato da poco a vivere a Milano, e spesso lamento i modi in cui è cambiata. Immancabilmente i milanesi mi zittiscono, dandomi del nostalgico e del passatista. Forse hanno ragione. È una cosa che capita invecchiando. Vado per i quaranta.

Il quartiere Isola, per esempio, dove ho vissuto da studente quasi vent’anni fa. Mentre ero via vi sono apparsi una nuova linea della metropolitana e vari grattacieli, fra cui quelli famosi con i terrazzini alberati; alcune vie sono diventate pedonali; i valori immobiliari sono quasi raddoppiati. Mi capita di deprecare queste trasformazioni (si potrebbe dire: di brontolare) dicendo che le nuove costruzioni sono solo appartamenti di lusso; che la compensazione degli oneri di urbanizzazione non ha portato servizi di prossimità; che la riduzione del traffico ha appiattito l’offerta commerciale in un ininterrotto aperitivificio; che l’impennata dei prezzi ha schiacciato la diversità del quartiere su un misto di professionisti e Airbnb.

Tutto questo, in senso stretto, è vero; il quartiere prima era più coeso e variegato, meno votato all’estrazione di profitto, accogliente con migranti e studenti. Ma è anche vero che era più sporco, più spesso scena di piccola criminalità, pieno di sterrati e fabbriche abbandonate: spazi sottratti alla cittadinanza, relitti di una metropoli novecentesca che non esiste più. Lamentando il lusso dei boschetti pensili sembro dire che i lati positivi di come era prima ne compensavano i lati negativi; che un capannone diroccato chiuso da lamiere ondulate è meglio di una torre di cristallo chiusa da un servizio di sorveglianza armata; e questo è da nostalgici.

Capita lo stesso quando parlo di Internet. Ho avuto il mio primo modem nel 1996; scaricavo cheat list per videogiochi dalle BBS; imparavo rudimenti di HTML per aprire la mia pagina GeoCities; scambiavo canzoni in peer-to-peer ai ritmi lentissimi del dial-up (la prima è stata la sigla di È quasi magia, Johnny). A paragone con quell’anarchia, è deprimente constatare quanta parte della rete di oggi sia stata imbrigliata all’estrazione di profitto, alla sorveglianza, allo spaccio di contenuti irrilevanti calibrati sulle nostre vulnerabilità. Vero, è deprimente: ma voglio forse sostenere che è meglio fare code di ore in banca anziché accedervi via app? Che preferisco le carissime interurbane della SIP alle videochiamate gratis? Che non apprezzo Wikipedia o Spotify? Dai, su, ammettilo: sei un nostalgico.

C’è un senso in cui lo sono, nella misura in cui lo sono tutti: a quindici anni si vive con entusiasmo la scoperta di qualcosa che invecchiando diventa un “tutto qui”; l’ingrigimento di chi guarda viene proiettato su come cambia ciò che guardiamo. Eppure trovo qualcosa di scorretto, in generale, nell’abitudine a derubricare ogni critica al nuovo come nostalgia dei vecchi tempi, e in particolar modo quanto riguarda me: sono tenuto in salute da una medicina di sviluppo recente. I vecchi tempi non mi mancano perché ai vecchi tempi sarei morto.

Certo, le scoperte farmaceutiche non hanno rapporti logici con la finanziarizzazione delle città. Le due cose sono arrivate insieme – e con esse la sorveglianza digitale, il matrimonio omosessuale, i droni da guerra, Taylor Swift, TikTok – nel pacco sorpresa che chiamiamo “progresso”. Ma il fatto che la metropolitana lilla, il The Eras Tour e gli inibitori dell’integrasi siano indubbiamente novità positive, significa che lo sono per forza anche le altre? O che deprecarne alcune significa un rifiuto del pacchetto completo?
Questa è una questione che salta fuori spesso nel diritto dell’antitrust, che definisce come “bundling” la pratica commerciale in cui un prodotto viene venduto solo in pacchetto con altri. A volte è una pratica abusiva. Nel caso del progresso lo è?

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Prendiamo la storia di Internet. C’è un rapporto di concausalità fra l’home banking e gli algoritmi calibrati per incoraggiare la dipendenza dai like? Fra l’esistenza di Wikipedia e l’esistenza di TikTok? No: basta pensare che l’intero settore dei social media si è sviluppato in larga misura grazie a una singola legge statunitense, che deresponsabilizzò le piattaforme rispetto ai contenuti generati dagli utenti. La profilazione è possibile solo perché non è stata vietata, o non in tempo, o i divieti sono applicati poco e male. L’Internet del 2024 – con le videochiamate gratuite e Wikipedia, da una parte, e dall’altra poche corporation invulnerabili che si contendono i nostri dati e la nostra attenzione – non è l’unica evoluzione possibile dell’Internet del 1996. È quella che ci è capitata, o ci è stata imposta, o che abbiamo scelto; più ragionevolmente è un misto delle tre. Ricordare ciò che aveva di migliore venti anni fa è un modo per capire quali scelte sono state sbagliate, quali imposizioni dannose.

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Vista in questo modo, anche la critica alle trasformazioni urbane appare in un’altra luce. I capannoni diroccati sulle cui macerie sono sorti grattacieli di lusso potevano diventare parchi, scuole, case popolari; gli oneri di urbanizzazione potevano essere investiti in biblioteche e asili; le pedonalizzazioni potevano essere accompagnate da restrizioni al dilagare dei dehors. L’alternativa non è fra gli iPhone 15 e le tavolette d’argilla; o fra una smartcity sviluppata dal fondo sovrano del Qatar e una landa di auto in fiamme e bottiglie scartocciate dai fumatori di crack. E ricordarlo non significa dire che il passato è meglio del presente, ma che un futuro alternativo poteva esserlo.

I futuri possibili già l’altro ieri erano moltissimi, e bisogna poterci ragionare per prepararsi alle scelte di oggi: ad esempio la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, per quanto riguarda la rete; lo sviluppo degli scali ferroviari, per quanto riguarda Milano. L’accusa automatica di nostalgia non è solo un modo di giustificare retrospettivamente il presente, ma di impedirci di pensare al passato nel decidere del nostro futuro.

Ed eccomi qua, dico “pensare al passato”. Dico “la storia è maestra di vita”. È una cosa che capita invecchiando. Vado per i quaranta.

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Vincenzo Latronico
Vincenzo Latronico

Traduce e scrive romanzi. Ne ha pubblicati quattro con Bompiani, l’ultimo a marzo 2022: Le perfezioni.

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