Sulla guerra a Gaza c’è sempre più distanza tra Israele e resto del mondo
L'opinione pubblica israeliana sostiene pienamente l'azione dell'esercito, mentre aumentano le proteste di molti paesi, anche alleati, per le enormi sofferenze inflitte ai palestinesi
La guerra a Gaza tra Israele e Hamas sta portando a una divisione sempre più forte tra Israele e buona parte degli altri paesi del mondo, che si vede nei sondaggi, nell’atteggiamento dei media e dell’opinione pubblica, e anche nel comportamento dei governi. Non riguarda soltanto i paesi arabi, che sono storicamente prevenuti o perfino ostili nei confronti delle azioni del governo israeliano, ma anche molti alleati occidentali: anzitutto i paesi europei e, con molta più cautela, gli Stati Uniti.
Questa divisione riguarda il fatto che, mentre in Israele il sostegno alla guerra nella Striscia di Gaza continua a essere molto solido e praticamente unanime, nelle opinioni pubbliche e in molti governi del mondo alla commozione e alla vicinanza a Israele dopo il feroce attacco di Hamas contro i civili israeliani del 7 ottobre si sono aggiunti uno scetticismo e un’insofferenza sempre più forti verso il modo in cui Israele sta conducendo la guerra, che sta provocando enormi sofferenze ai civili della Striscia di Gaza.
Questa distanza è per molti versi naturale e comprensibile, ed è sempre stata presente anche nelle precedenti operazioni militari di Israele: nel 2014, l’ultima volta che l’esercito israeliano invase la Striscia di Gaza, la stragrande maggioranza della popolazione del paese era favorevole all’invasione, mentre nel resto del mondo c’era grande scetticismo.
Rispetto al passato, però, ci sono almeno tre elementi che distinguono l’attuale guerra nella Striscia di Gaza, e che determinano l’atteggiamento di Israele e della sua opinione pubblica. Anzitutto l’enorme trauma nazionale subìto con l’attacco di Hamas, che non può essere sottovalutato. Poi il fatto che questa guerra ha una durata molto superiore delle precedenti operazioni nella Striscia: nel 2014 l’invasione di terra durò due settimane, mentre questa volta abbiamo superato i due mesi. In terzo luogo, l’eccezionale livello di violenza usato nelle operazioni militari di Israele, che sta colpendo in maniera sproporzionata la popolazione civile.
Da oltre tre mesi, l’esercito israeliano sta conducendo sulla Striscia di Gaza una campagna di bombardamenti che secondo gli esperti è una delle più distruttive della storia recente. I morti accertati sono più di 23 mila, la maggior parte dei quali civili, e si ritiene che circa il 33 per cento di tutti gli edifici nella Striscia sia stato distrutto. La percentuale degli edifici danneggiati e resi inabitabili o insicuri è molto maggiore.
Nelle prime settimane della guerra, inoltre, Israele ha impedito del tutto l’ingresso di cibo, medicine e generi di prima necessità nella Striscia, provocando una crisi umanitaria enorme. In seguito ha consentito l’ingresso di aiuti umanitari, ancora però in quantità insufficienti.
Israele sostiene che queste misure drastiche siano necessarie per raggiungere l’obiettivo di distruggere Hamas, e che almeno parte dei morti sia da imputare al fatto che Hamas usa i civili come «scudi umani», pratica che effettivamente è stata testimoniata e verificata in più di un’occasione da ong e organi indipendenti. Al tempo stesso, tuttavia, anche un utilizzo esteso di «scudi umani» da parte di Hamas non giustifica le enormi perdite e devastazioni che stanno avvenendo dentro alla Striscia di Gaza.
Anche per questo l’opinione pubblica di molti paesi del mondo sta mostrando un’insofferenza crescente nei confronti della guerra a Gaza. Dopo i primi giorni di commozione per l’attacco del 7 ottobre, nell’opinione pubblica europea il sostegno nei confronti di Israele è calato ovunque, riducendosi man mano che la guerra andava avanti. Un sondaggio notevole viene dall’Italia, dove il 4 novembre del 2023 (quando l’invasione di terra di Israele era appena agli inizi) il 45,8 per cento degli intervistati riteneva che la reazione di Israele fosse «eccessiva». Pochi giorni dopo, l’11 novembre, il dato era salito al 55,1 per cento.
Anche l’opinione pubblica statunitense, che è di gran lunga la più filoisraeliana tra i paesi occidentali, sta mostrando segni di insofferenza. La popolazione continua a sostenere per oltre il 50 per cento Israele, ma la percentuale di chi ritiene che le operazioni militari sulla Striscia siano eccessive è in continuo aumento. Questo riguarda soprattutto i giovani americani e i simpatizzanti del Partito Democratico.
Una situazione simile si sta vedendo con i governi occidentali, dove il sostegno quasi incondizionato nei confronti di Israele di ottobre ha lasciato posto a un atteggiamento sempre più critico e a invocazioni sempre più insistenti per un cessate il fuoco. Perfino Antony Blinken, il segretario di Stato americano che rappresenta il paese più strettamente alleato di Israele, questa settimana ha detto che «il numero giornaliero dei morti a Gaza, e in particolare quello dei bambini, è decisamente troppo alto».
Questi trend, al contrario, sono quasi del tutto inesistenti in Israele, dove il sostegno nei confronti nella guerra è sempre rimasto altissimo e praticamente non ha subìto flessioni: a dicembre l’87 per cento della popolazione sosteneva la guerra, con pochissime differenze tra intervistati di destra o di sinistra.
Anzi, un sondaggio condotto a fine ottobre dall’Università di Tel Aviv ha mostrato che tra i cittadini israeliani ebrei il 57,5 per cento riteneva che l’esercito israeliano stesse usando troppa poca potenza di fuoco contro la Striscia di Gaza. Questo sondaggio era stato fatto proprio nei giorni in cui l’esercito israeliano cominciava l’invasione di terra della Striscia, dopo venti giorni di intensi bombardamenti, e poi non è stato più aggiornato.
Gideon Levy, un commentatore politico israeliano, sul quotidiano di centrosinistra Haaretz ha definito il conflitto attuale come la prima «guerra unanime» di Israele: «Non abbiamo mai avuto una guerra così, una guerra dal consenso completo, una guerra dal silenzio totale, una guerra di sostegno cieco; una guerra senza domande, senza proteste, senza obiezioni di coscienza, senza opposizione, né all’inizio né a metà. Una guerra unanime, con un’approvazione completa – escludendo i cittadini arabi dello stato, a cui è stato proibito fare obiezioni – senza punti di domanda e senza nemmeno un dubbio».
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Ci sono ragioni molto evidenti di questa «unanimità» della società israeliana: l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha provocato un trauma che è difficile comprendere fuori da Israele, e che in gran parte della popolazione ebraica ha fatto rivivere le persecuzioni e i massacri che gli ebrei hanno subìto per secoli. Il trauma negli ultimi mesi è stato reso continuamente attuale dalla situazione delle centinaia di ostaggi che i miliziani di Hamas hanno portato nella Striscia di Gaza. Questa sensazione di attacco e accerchiamento è poi rafforzata dai media israeliani, che dedicano enorme spazio agli orrori commessi da Hamas e alle operazioni militari israeliane, ma spazio trascurabile alle sofferenze della popolazione palestinese, con poche eccezioni tra cui appunto Haaretz.
Questa unanimità dell’opinione pubblica israeliana contrasta particolarmente con l’insofferenza crescente del resto del mondo. «Oggi per tutto il mondo – con l’eccezione degli Stati Uniti – la priorità maggiore è di porre fine alla strage messa in atto dall’esercito israeliano a Gaza. Per Israele, lo slogan “Distruggere Hamas” copre tutto», ha scritto di recente il quotidiano francese Le Monde.
Questa distanza si sta facendo sempre più ampia – e sta coinvolgendo non soltanto le opinioni pubbliche, ma anche i governi – man mano che la guerra nella Striscia di Gaza va avanti. Il governo israeliano negli scorsi giorni ha detto che la guerra sta entrando in una «nuova fase» in cui, soprattutto nel nord della Striscia, le operazioni militari dovrebbero essere più mirate e circoscritte. Ma, come ha notato il New York Times, nelle comunicazioni ai suoi cittadini il governo continua a dire che la guerra andrà avanti con la durezza necessaria per tutto il tempo che sarà necessario.