Perché ridiamo tutti allo stesso modo?
Anche se non per le stesse cose: è un comportamento istintivo che riguarda tutti gli esseri umani e ha fondamentali funzioni sociali
Ridere è un comportamento umano universale profondamente radicato nella specie e presente anche in altri primati. Ciò che riconosciamo come una risata – l’insieme di espressioni facciali, suoni e movimenti – comincia infatti a manifestarsi fin dal primo anno di vita in tutte le società conosciute e non presenta l’arbitrarietà e l’ambiguità proprie dei segni linguistici: non capiamo cosa dicono persone che parlano una lingua a noi sconosciuta, ma capiamo immediatamente se stanno ridendo.
Così come il pianto e altre vocalizzazioni umane non verbali, ridere è un comportamento associato all’espressione di emozioni che definiamo «di base» proprio perché sono riconosciute da tutti i gruppi umani e riflettono un dato biologico. Ma allo stesso tempo è un comportamento condizionato da influenze culturali e fattori individuali, che emergono all’interno dei gruppi e fanno sì che non tutte le persone ridano delle stesse cose, anche se tutte ridono. Questa natura “ibrida” – nel senso che è sia biologica che culturale – ha fatto della risata l’oggetto di numerosissimi studi e ricerche trasversali nel campo della biologia, delle neuroscienze, della psicologia e dell’antropologia.
Ridere ha fondamentalmente una funzione sociale. Sebbene sia un comportamento comunemente associato all’umorismo, infatti, diverse ricerche suggeriscono che ridiamo più frequentemente quando siamo con altre persone che quando ascoltiamo o leggiamo battute e barzellette. Come misurato in alcuni esperimenti degli anni Novanta dallo psicologo clinico canadese Rod A. Martin, uno dei più citati studiosi dell’umorismo, le persone ridono di meno quando sono sole. Lo fanno se leggono un libro divertente, o seguono un programma o un film comico, o ricordano qualcosa che le fa ridere, per esempio.
Anche in questi casi però la risata può essere considerata di natura «pseudo-sociale», secondo Martin, perché è una reazione a qualcosa che altre persone hanno fatto, presenti o assenti che siano. O perché attiva il ricordo o l’immaginazione di situazioni in cui sono presenti altre persone. Può succedere di ridere, praticamente, in qualsiasi contesto sociale, familiare o meno, formale o informale: tra persone che convivono da decenni e tra sconosciuti, tra amici seduti in un pub e tra politici impegnati in una votazione in parlamento.
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Ridiamo allo stesso modo perché il tipo di interazione in cui emerge questo comportamento è il gioco sociale, che è comune non soltanto a tutti gli esseri umani ma anche ad altri primati, come gli scimpanzé e i bonobo. La capacità di divertirci a vicenda e suscitare risate, secondo alcune ipotesi, si sarebbe evoluta come un mezzo per fornire gli uni agli altri opportunità di gioco, che svolgono importanti funzioni sociali, emotive e cognitive. E a differenza della maggior parte dei mammiferi, che dedicano al gioco molto tempo da giovani, gli esseri umani continuano a giocare per tutta la vita, in particolare attraverso il linguaggio, che permette di coinvolgere l’umorismo verbale nei processi di socializzazione tipici delle interazioni giocose.
Sul piano evolutivo, secondo Martin, la risata indica la condivisione di un atteggiamento giocoso nei confronti delle cose, tipico di attività fatte per il gusto di farle: non hanno un obiettivo preciso, ma sono fondamentali per creare e mantenere legami sociali.
Secondo una teoria nota in psicologia come reversal theory, sviluppata alla fine degli anni Ottanta dallo psicologo inglese Michael Apter, lo stato d’animo giocoso associato all’umorismo e alla risata costituisce l’essenza della modalità umana «para-telica», cioè un modo di vedere il mondo completamente diverso da quello della modalità «telica», più seria e finalizzata (dal greco τέλος, “obiettivo”). L’idea di Apter è che nel corso della giornata le persone passino continuamente da una modalità all’altra.
Proprio perché segnala l’opportunità di uno spazio adatto alla modalità giocosa, la risata tende anche a essere contagiosa. È infatti un’espressione emotiva non verbale percepita come un segnale sociale così potente che a volte, persino in contesti in cui non capiamo perché le persone stiano ridendo, non riusciamo a fare a meno di ridere a nostra volta. O succede, per esempio, quando guardiamo il video di una persona che non riesce a smettere di ridere.
La risata è, prima di tutto, un insieme di suoni strani che produciamo, diversi da persona a persona, che riflettono il modo in cui i muscoli del torace comprimono l’aria nella gabbia toracica. Come spiegato dalla neuroscienziata inglese Sophie Scott, nota per le sue ricerche sulla produzione e sulla percezione del linguaggio e delle vocalizzazioni umane, ridere è un modo molto primitivo di produrre suoni.
Le immagini delle risonanze magnetiche mostrano che quando le persone ridono non muovono più di tanto lingua, mascella, labbra o altre parti della bocca. Il suono deriva in larghissima parte dalla gabbia toracica: un suono molto semplice, non articolato, più simile ai richiami degli animali che al linguaggio. E anche l’area del cervello che lo controlla, legata alle emozioni, è una parte evolutivamente più antica rispetto a quella coinvolta nel linguaggio: fatto che spiega perché alcune persone colpite da ictus possono in seguito non essere in grado di parlare ma possono ridere e piangere.
Scott condusse uno studio molto citato sull’universalità delle emozioni di base e della risata, pubblicato nel 2010 sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences). Insieme ad altri ricercatori e ricercatrici cercò di capire se i suoni associati a emozioni come gioia, rabbia, paura, tristezza, disgusto e sorpresa fossero condivisi tra culture diverse. Lo studio confrontò le reazioni ad alcuni brevi racconti in due gruppi umani distinti: uno proveniente dal Regno Unito e l’altro composto da Himba, una popolazione di oltre 20mila persone che vive in piccoli insediamenti nel nord della Namibia, senza elettricità, acqua corrente, istruzione formale o contatti con persone di altri gruppi etnici.
I racconti, ascoltati tramite cuffie da ciascun individuo dei due gruppi, erano basati su un’emozione particolare: in uno di questi, per esempio, una persona era molto triste per la morte recente di un parente. Alla fine di ognuno i partecipanti ascoltavano due suoni, un pianto e una risata, e dovevano dire quale dei due riflettesse l’emozione espressa nel racconto. I suoni sottoposti al gruppo del Regno Unito erano stati prodotti dagli Himba, e viceversa. Le emozioni di base furono le più facilmente riconosciute da entrambi i gruppi: fatto che avvalorò l’ipotesi che quelle emozioni costituiscano un insieme di funzioni evolute basilari comuni a tutti gli esseri umani.
La risata, in particolare, fu il suono più facilmente riconosciuto in assoluto da entrambi i gruppi, che concordavano sul fatto che esprimesse l’emozione associata alla sensazione di essere solleticati. I risultati dello studio furono considerati compatibili con quelli di ricerche condotte su altri ominidi, secondo le quali la risata avrebbe profonde radici evolutive, probabilmente associate in origine alla comunicazione giocosa con i neonati.
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I risultati di una serie di esperimenti condotti da un gruppo di ricercatori e ricercatrici di diverse università e istituti nel mondo, guidato dal professore di comunicazione della University of California (UCLA) Greg Bryant, suggeriscono che le persone di diverse culture siano in grado di distinguere anche se una risata è spontanea o no, indipendentemente dalla cultura di appartenenza della persona che la produce. Per uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista Psychological Science il gruppo sottopose i suoni registrati di 36 risate prodotte da una coppia di parlanti di lingua inglese a 884 partecipanti provenienti da 21 società in sei diverse regioni del mondo.
I partecipanti di tutte le società riuscirono a distinguere con una percentuale di successo significativa – dal 56 per cento nel caso degli ascoltatori samoani al 69 per cento nel caso di quelli giapponesi – le registrazioni in cui alla coppia era stato chiesto di ridere “a comando”. L’analisi acustica delle registrazioni mostrò che particolari caratteristiche del suono associate all’eccitazione e all’espressione autentica della gioia nella vocalizzazione non verbale venivano riconosciute dagli ascoltatori in modo abbastanza uniforme in tutte le società e indipendentemente dalla lingua e dalla cultura native di ciascun ascoltatore.
Il suono di una delle risate spontanee (1) e quello di una delle risate forzate (2) utilizzati nello studio del 2018 “The Perception of Spontaneous and Volitional Laughter Across 21 Societies”
1.
2.
In linea generale i partecipanti provenienti da società e gruppi più piccoli e meno industrializzati erano più accurati nel riconoscere le risate non spontanee. A partire da questi risultati Bryant concluse che nei luoghi in cui relazioni sociali profonde e complesse erano fondamentali per la sopravvivenza, le persone erano più in sintonia con l’esperienza emotiva delle altre persone e più inclini a utilizzare le espressioni delle emozioni come segnali utili per prevedere il comportamento degli altri. In uno studio molto simile, pubblicato dallo stesso gruppo su PNAS nel 2016, gli ascoltatori erano riusciti a distinguere se le risate erano prodotte da una coppia di amici o da una coppia di sconosciuti.