Non c’è un «macroscopico vuoto di verità» sul caso Moro
La trasmissione Report è tornata a fare ipotesi alternative sul sequestro e sull'omicidio del leader democristiano nel 1978
Domenica sera la trasmissione di Rai 3 Report ha dedicato buona parte della sua puntata a una ricostruzione del caso Moro, ovvero il rapimento e l’assassinio del leader democristiano Aldo Moro. Due volte presidente del Consiglio, quattro volte ministro, Moro è stata una delle figure più influenti della politica italiana tra gli anni Cinquanta e Settanta, e uno dei dirigenti più importanti della Democrazia Cristiana, di cui era presidente quando venne rapito il 16 marzo del 1978 da un commando delle Brigate Rosse (BR), un’organizzazione terroristica di estrema sinistra. Dopo 55 giorni di prigionia, Moro fu ucciso dalle stesse BR, e il suo corpo fu fatto trovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in Via Caetani, in una via del centro di Roma che conduce al ghetto ebraico.
Gli elementi essenziali della vicenda sono assodati da tempo. Si conosce piuttosto bene come avvennero il sequestro di Moro, in via Fani, e il contestuale omicidio dei cinque uomini della scorta; si sa con una certa sicurezza quali furono i luoghi dove fu tenuto prigioniero da parte degli stessi brigatisti; sono noti i contorni generali delle trattative politiche che il governo, i leader dei partiti italiani di allora e il Vaticano tennero con le BR e con gli ambienti di estrema sinistra a loro vicini; e si sa come la “linea della fermezza” sostenuta pubblicamente dal governo, che si rifiutò di trattare e quindi riconoscere le BR come interlocutore politico, abbia contribuito a causare l’omicidio di Moro.
Poi ci sono anche alcuni aspetti poco chiari, lacune e contraddizioni nelle ricostruzioni dei fatti, reticenze e ambiguità nelle testimonianze dei molti protagonisti di quella storia, che siano terroristi o figure istituzionali. Attorno a questi dubbi, a queste incertezze, negli anni si sono alimentate tesi alternative, teorie del complotto di diversa natura mai davvero confermate da prove e fatti. Sulla base di queste teorie il caso Moro è entrato nella lunga lista dei cosiddetti “misteri italiani”, e anzi forse di quel fortunato filone giornalistico e narrativo è diventato il capitolo più noto e raccontato.
Ciclicamente, sul rapimento e l’assassinio di Moro emergono «nuovi particolari», «rivelazioni eclatanti», «documenti inediti» che rendono la storia, già di per sé intricata e complessa, più opaca e indecifrabile di quanto non sia in realtà. E ciclicamente vengono rinnovate le denunce, spesso indignate e spesso scandalizzate, su una presunta mancanza di volontà da parte delle istituzioni e degli apparati statali di «far sapere la verità agli italiani».
La puntata di Report di domenica è un esempio di queste tendenze e insiste su un aspetto in particolare, peraltro molto ripreso da agenzie di stampa e giornali nonostante non sia una novità. Report ha dato grande rilievo a una testimonianza di Claudio Signorile, vicesegretario del Partito socialista italiano (PSI) nel 1978, secondo cui i vertici dello Stato italiano avrebbero saputo della morte di Moro già ore prima della rivelazione ufficiale della notizia. Signorile ha un ruolo non del tutto marginale nella storia. Nell’aprile del ’78 infatti ebbe alcuni incontri con esponenti di gruppi di estrema sinistra (Franco Piperno e Lanfranco Pace) vicini alle BR, e tramite loro avviò una trattativa per aprire un dialogo tra i brigatisti e il PSI, di cui allora era segretario Bettino Craxi.
Nella sua intervista a Report, Signorile ha raccontato che la mattina del 9 maggio, il giorno in cui fu trovato il corpo di Moro, venne invitato dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga – che di Moro era collega di partito e amico personale, per certi versi quasi un allievo – nel suo ufficio al palazzo del Viminale per un caffè. Durante quell’incontro Signorile ascoltò insieme a Cossiga due annunci del centralino del ministero che dettero conto del ritrovamento della Renault 4 rossa in via Caetani e del riconoscimento del cadavere di Moro. Tutto avvenne, secondo la versione di Signorile, tra le 9.30 e le 10, cioè oltre due ore in anticipo rispetto alla telefonata con cui le BR comunicarono ufficialmente di aver ucciso Moro. Sulla base di questa testimonianza, il giornalista di Report Paolo Mondani, autore del servizio, si riferisce alla ricostruzione tradizionale dei fatti con queste parole: «Una macabra sceneggiatura che testimonia il macroscopico vuoto di verità che ancora pesa come un macigno su questa tragedia».
La testimonianza di Signorile non è affatto inedita. Signorile negli anni Ottanta fu poi per due volte ministro, e ha raccontato lo stesso episodio diverse volte, sempre pubblicamente. La prima nel 1980, nel corso dei lavori di indagine della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. Poi nel 2016, durante la sua audizione nella seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. Infine nel 2020, in un’intervista data a Walter Veltroni sul Corriere della Sera. Sul piano giudiziario, però, non risultano denunce o testimonianze di Signorile su questo, né si sa di inchieste o sentenze della magistratura che abbiano accolto questa ipotesi.
Anzi, la tesi di Signorile è più o meno coincidente con quella sostenuta da Vitantonio Raso, un artificiere che la mattina del 9 maggio andò a via Caetani per verificare che la Renault 4 rossa ferma lungo la strada non fosse un’autobomba. Raso fu dunque il primo ad aprire la macchina e scoprire il corpo di Moro. Dopo anni di silenzio, nel 2013 Raso rivelò che intorno alle 11 di quella mattina Cossiga si presentò sul posto per constatare la morte di Moro, per poi andare via e tornare solo un paio d’ore più tardi, dopo l’annuncio ufficiale dell’assassinio e l’arrivo in via Caetani di fotografi e giornalisti. Le rivelazioni di Raso non portarono a nessuna nuova indagine, se non quella della procura di Roma che lo vide indagato per calunnia. In un’intervista a Repubblica lunedì Luigi Zanda, ex senatore del Partito Democratico e storico collaboratore di Cossiga, ha definito inverosimile la versione fornita da Signorile.
Dicevamo che Signorile ha poi ripetuto il suo racconto a deputati e senatori della Commissione parlamentare d’inchiesta su Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, ex ministro della Pubblica istruzione ed esponente del centrosinistra. La Commissione lavorò tra il maggio del 2014 e il febbraio del 2018: ha svolto quasi cento sedute, ha acquisito e pubblicato oltre 990 testi, ha compilato tre diverse relazioni approvate poi dall’assemblea di Camera e Senato. Nel complesso ha avuto il merito di approfondire molti aspetti della vicenda, ma è difficile sostenere che abbia fornito “verità alternative”.
Innanzitutto la Commissione ha messo fortemente in discussione la fondatezza del cosiddetto “memoriale Morucci-Faranda”, ovvero un testo in cui due importanti terroristi delle BR romane, Valerio Morucci e Adriana Faranda, alla metà degli anni Ottanta dettero la loro versione dei fatti sul rapimento e l’assassinio di Moro, a cui loro stessi parteciparono. Il memoriale fu poi trasmesso a Cossiga, divenuto nel frattempo presidente della Repubblica, nel marzo del 1990, e da lui inviato al ministero dell’Interno.
Nelle conclusioni della Commissione parlamentare si sostiene che il contenuto del memoriale fu in buona parte concordato da Morucci e Faranda, in carcere dal 1979, con alcuni dirigenti dei servizi segreti in virtù di una sorta di collaborazione tra i brigatisti che cercavano un trattamento di favore e agenti dell’intelligence che cercavano una versione dei fatti che non mettesse in imbarazzo gli apparati dello Stato.
La Commissione ha anche confutato la tesi tradizionale su come avvenne l’agguato in via Fani, evidenziando per esempio con una certa attendibilità la presenza di almeno due terroristi ed esperti tiratori della RAF (l’equivalente tedesco delle BR) e di un importante esponente della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, oltre ovviamente ai brigatisti stessi. Inoltre sono stati indicati tre possibili covi delle BR aggiuntivi o alternativi a quello storicamente riconosciuto come «la prigione del popolo», dove Moro fu tenuto in ostaggio e interrogato dai brigatisti. Ed è stata mostrata l’importanza che il gruppo genovese delle BR, la cosiddetta «colonna ligure», aveva nel determinare le scelte dell’organizzazione terroristica (le sezioni locali delle BR venivano chiamate “colonne”).
Infine la Commissione ha fatto emergere nuovi riscontri sugli interessi e sulle intromissioni a vari livelli dei servizi di intelligence di molti paesi, sia occidentali sia legati all’Unione Sovietica.
Nel complesso, però, le relazioni finali della Commissione non forniscono verità definitive alternative sul caso Moro: raccontano alcune più o meno significative incongruenze nella versione ufficiale, invitano a mettere in dubbio alcuni elementi acquisiti e offrono spunti e testimonianze utili a comprendere meglio il contesto politico e diplomatico italiano e internazionale in cui maturarono il rapimento e l’assassinio di Moro. È proprio dai risultati di questa Commissione che Report ha tratto ispirazione per la sua puntata, pur decidendo di dare particolare risalto ad alcuni aspetti e di ridimensionarne altri, dando per esempio molto spazio al coinvolgimento dei servizi segreti americani, e molto meno ai legami delle BR con apparati dell’Europa dell’Est o palestinesi.
A suo modo però proprio il lavoro di Report mostra la complessità del caso Moro, ed è un segno delle difficoltà a cui va incontro qualunque racconto che pretenda di fornire una “verità alternativa” per una storia così intricata. Per capire meglio questo aspetto bisogna aprire una parentesi sul contesto storico di quegli anni.
L’Italia era un paese particolare in quel periodo. C’era la Guerra fredda che vedeva contrapposti due blocchi, quello occidentale e capitalista che faceva riferimento agli Stati Uniti, a ovest, e quello comunista e sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, a est. L’Italia era politicamente e culturalmente parte del primo blocco, ma allo stesso tempo nel paese c’era un Partito comunista assai radicato e popolare, uno dei più forti d’Europa. Si trovava geograficamente al confine tra i due blocchi, pur facendo parte della NATO, cioè del patto militare tra Stati Uniti ed Europa. Era formalmente alleata di Israele, ma era il paese europeo meno ostile alla causa palestinese. E ospitava il Vaticano che ha sempre svolto, come ancora oggi, un ruolo diplomatico piuttosto autonomo.
Tutti questi elementi rendevano l’Italia un osservato un po’ speciale soprattutto dagli Stati Uniti, che dalla Seconda guerra mondiale in poi hanno sempre avuto una grossa influenza sulla politica italiana, che hanno usato per sostenere più o meno direttamente la Democrazia Cristiana, evitando così che il Partito comunista arrivasse al governo. L’attività politica di Moro, negli anni Settanta, si concentrò proprio sulla ricerca di un modo per superare questa esclusione dei comunisti, che per molti motivi bloccava il sistema politico e generava estesi risentimenti nella società. Moro fu tra i principali ispiratori della collaborazione della DC coi socialisti prima e coi comunisti poi, nel nome di un accordo che passò alla storia come “compromesso storico”.
La mattina in cui venne rapito, Moro stava andando alla Camera dove si stava per votare la fiducia in parlamento al primo governo che nasceva sulla base di questo compromesso: un governo composto da soli esponenti della DC e guidato da Giulio Andreotti, ma che avrebbe avuto per la prima volta il sostegno esterno del Partito comunista, che lo avrebbe cioè sostenuto in parlamento pur senza esprimere alcun ministro.
Secondo alcuni, questa era la premessa di un successivo governo in cui sarebbero finalmente entrati anche membri comunisti e dell’elezione di Moro come presidente della Repubblica nel 1979, in qualità di garante di questo accordo. Ma non era uno sviluppo scontato, e comunque c’era l’ostacolo degli americani che avevano il dogma di escludere i comunisti dai posti di governo di tutti i paesi occidentali. Moro era fiducioso che gli Stati Uniti si sarebbero ammorbiditi e avrebbero accettato prima o poi l’ingresso del PCI al governo, Andreotti lo era meno.
Negli anni, questo particolare aspetto ha dato consistenza alla teoria per cui l’azione delle BR non fosse tanto un atto di terrorismo per colpire uno dei più influenti uomini delle istituzioni in quanto simbolo del sistema di potere della DC, ma più un tentativo di scongiurare il compromesso storico. Di qui le varie teorie, tutte più o meno esplicitamente tese a ridimensionare il ruolo delle BR come organizzazione terroristica autonoma e a descriverle come strumento manovrato dai servizi segreti stranieri.
Sono teorie che trovano un labile sostegno nel fatto che di certo molti paesi si interessarono a quel che stava succedendo in quelle settimane in Italia, sempre per via del contesto della Guerra fredda e della delicata posizione italiana in quel contesto. Ma quasi sempre, quando si parte dall’ambiguo e intricato contesto internazionale e si prende spunto da alcuni riscontri o da alcune testimonianze per definire una “verità alternativa”, si finisce poi con l’alimentare tesi inverosimili o fallaci.
In questo senso, solo per fare uno dei tanti esempi possibili, proprio l’audizione di Signorile alla Commissione parlamentare d’inchiesta è emblematica di quanto complicata e precaria possa essere l’operazione di tentare di ricostruire pezzi di storie vecchie di decenni.
A un certo punto dell’audizione, che si svolse la sera del 12 luglio del 2016 e durò quasi tre ore, venne chiesto a Signorile dei suoi incontri con i militanti di estrema sinistra Pace e Piperno per tentare di avviare una trattativa con le BR. Miguel Gotor, senatore del Partito Democratico, gli ricordò che secondo Pace quegli incontri «furono una dozzina» e che Signorile stesso «nel 1982 di fronte al magistrato ha dichiarato che furono tre». Signorile a quel punto ipotizzò che potessero essere stati tre o quattro, e poi precisò: «Vale quello che ho dichiarato con la memoria più fresca». Quando gli dissero delle date che lui aveva dato alla magistratura, quasi si meravigliò: «Ho fornito anche queste date?», chiese.
Poi Gotor fece notare a Signorile come in un’intervista successiva al 1982 avesse dato una versione diversa sul numero di incontri avuti con Pace e Piperno: da tre, «sono diventati quattro o cinque». A quel punto Signorile si arrese: «Saranno stati tre o quattro. Vorrei fare questo sforzo, ma non ce la faccio perché non riesco a ricordare bene».
Un’ulteriore difficoltà è rendere compatibili tra loro i vari pezzi che legittimerebbero tesi alternative e teorie del complotto. Nonostante questa difficoltà, nel racconto impressionistico di chi vuole dare ricostruzioni “nuove”, di solito vengono citati tutti questi pezzi, in una sorta di ansia da accumulo in cui tutto si tiene (o dovrebbe tenersi), senza che si spieghi la coerenza tra le varie ipotetiche piste d’indagine. Anche in questo l’audizione di Signorile è utile a capire.
Report, che ritiene attendibili la memoria e la testimonianza di Signorile, dà molto risalto anche a due altri elementi: il coinvolgimento della ‘ndrangheta (che avrebbe anche fatto in modo di modificare la composizione della squadra della scorta di Moro di quella mattina, così da evitare la morte di un agente calabrese) e quello della CIA, cioè dei servizi segreti esteri statunitensi. Eppure, quando a Signorile fu domandato dai parlamentari della Commissione d’inchiesta cosa ne pensasse del coinvolgimento della criminalità organizzata nel rapimento Moro, disse così: «La mia risposta, semplice, è che non lo so. La mia considerazione è che mi sembrano cose da fiction televisiva. Che la criminalità organizzata interviene… Non è roba per loro».
Quanto alla CIA, per anni la tesi di chi riteneva cruciale l’ingerenza americana nel determinare le scelte finali delle BR ha fatto soprattutto riferimento alla presenza a Roma, nella settimane del sequestro, di Steve Pieczenik. Pieczenik era un consulente di politica estera del dipartimento di Stato americano, coinvolto da Cossiga nel comitato di crisi del ministero dell’Interno per coordinare le indagini sul caso Moro.
Nonostante negli anni il suo ruolo sia stato ridimensionato da diverse indagini giudiziarie e giornalistiche, Report dà credito alla tesi che lo stesso Pieczenik ha voluto diffondere in tempi recenti, conquistandosi proprio per questo una visibilità e una notorietà altrimenti non giustificabili. Tra l’altro, Report riporta un passaggio di un’intervista di Pieczenik del 2007 a un giornale francese, in cui lui dice: «Ho messo in atto la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Moro».
Allo stesso tempo, la trasmissione dà anche credito alla versione di Signorile. Ma cosa pensi Signorile del ruolo di Pieczenik è noto proprio grazie al resoconto della sua audizione del 2016. Quando i parlamentari della Commissione d’inchiesta gli chiesero un parere su questo, Signorile disse di Pieczenik che era un «sopravvalutato assoluto, un poveraccio». E più avanti nell’audizione aggiunse: «È una figura di una modestia assoluta».
C’è un passaggio dell’audizione di Signorile, peraltro, in cui lui stesso esprime con franchezza la sua difficoltà a raccontare con fondatezza un caso complesso come quello di Moro. A un certo punto disse ai parlamentari: «Uno dei motivi per i quali (scusatemi l’autoriferimento) non ho scritto niente su quel periodo che ho vissuto è la consapevolezza che le sensazioni, le convinzioni e anche le ricostruzioni che uno può fare deve farle sapendo che non avrà mai le prove e i riscontri per dare verità storica alle cose che dice».