Storia dei tre omicidi di via Acca Larenzia

Nel 1978, in una strada di Roma diventata simbolo dell'estrema destra, tre militanti neofascisti vennero uccisi in circostanze mai chiarite

La sede dell'MSI in via Acca Larenzia dopo l'agguato, Roma, 1978 
(ANSA/ WIKIPEDIA)
La sede dell'MSI in via Acca Larenzia dopo l'agguato, Roma, 1978 (ANSA/ WIKIPEDIA)
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Ogni anno la destra neofascista romana commemora le vicende avvenute in via Acca Larenzia il 7 gennaio del 1978, quando tre militanti vennero uccisi: due di loro mentre stavano andando a fare volantinaggio per il concerto di un gruppo neofascista, il terzo alcune ore dopo durante alcuni scontri con le forze dell’ordine. L’episodio contribuì a far degenerare la violenza politica nei cosiddetti anni di piombo, il periodo di stragi, violenze e lotta armata che va grosso modo dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta, portando i Nuclei armati rivoluzionari, formazione neofascista fondata tra gli altri da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, a intraprendere la via del terrorismo.

Via Acca Larenzia è tra l’Appia Nuova e la Tuscolana, nella zona sudest di Roma. Lì si trovava la sede del Movimento Sociale Italiano, il partito che nel Secondo dopoguerra raccolse i nostalgici del regime fascista. Nel tardo pomeriggio del 7 gennaio 1978 cinque militanti missini stavano partendo dalla sede per un volantinaggio e furono raggiunti dai colpi di diverse armi automatiche sparati da un gruppo appostato poco lontano. Uno dei militanti, Franco Bigonzetti, studente al primo anno di Medicina, venne colpito e morì immediatamente. Altri tre militanti, di cui uno ferito al braccio, riuscirono a rientrare e a chiudere la porta. Il quinto militante, Francesco Ciavatta, ferito, cercò di scappare lungo la scalinata accanto all’ingresso della sezione, ma venne inseguito dagli aggressori e colpito nuovamente alla schiena: morì in ambulanza durante il trasporto in ospedale.

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Nelle ore seguenti in via Acca Larenzia cominciarono ad arrivare altri militanti neofascisti e ci furono scontri con le forze dell’ordine durante le quali un lacrimogeno colpì anche Gianfranco Fini, l’allora segretario nazionale del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI. Secondo alcuni testimoni gli scontri iniziarono quando un giornalista o un fotografo lasciò cadere un mozzicone di sigaretta sul sangue di uno dei neofascisti uccisi, interpretato come un gesto di disprezzo. A quel punto, al grido di “boia chi molla”, i missini partirono in corteo, incontrando dopo pochi metri un gruppo di Carabinieri.

Negli scontri rimase gravemente ferito un altro giovane militante neofascista, Stefano Recchioni, che morì dopo due giorni. Cosa successe quel giorno è ancora poco chiaro. Inizialmente alcuni testimoni dissero che i Carabinieri avevano sparato alcuni colpi in aria mentre il capitano Eduardo Sivori aveva sparato mirando ad altezza d’uomo. La sua arma si sarebbe inceppata e Sivori si sarebbe fatto consegnare la pistola dal suo attendente, sparando di nuovo e colpendo Recchioni. Sivori venne indagato in seguito a una denuncia presentata individualmente in questura da Francesca Mambro, mentre i dirigenti dell’MSI si rifiutarono di seguire questa strada per non pregiudicare i buoni rapporti che avevano con le forze dell’ordine.

Persone radunate in via Acca Larenzia dopo l’agguato; nella foto è presente anche Giorgio Almirante, ex dirigente del regime fascista e collaborazionista dei nazisti, divenuto nel dopoguerra fondatore del Movimento Sociale Italiano (Ansa)

L’attacco di via Acca Larenzia fu rivendicato alcuni giorni dopo dai Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale, tramite una cassetta audio fatta trovare accanto a un distributore di benzina. La sigla era conosciuta per alcune azioni nel Nord Italia, ma non a Roma, tanto che si ipotizzò che fosse stata utilizzata per depistare le indagini da un gruppo più strutturato. Il comunicato diceva comunque che «un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia» aveva colpito «i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica».

Le responsabilità dell’omicidio dei tre militanti neofascisti non sono mai state accertate: il capitano dei Carabinieri Sivori, inizialmente indagato, fu prosciolto definitivamente a seguito di una perizia balistica il 21 febbraio del 1983 per non aver commesso il fatto. Nel 1987, in seguito alle testimonianze di Livia Todini, che all’epoca dell’attacco di Acca Laurenzia aveva quindici anni e che avrà poi un ruolo marginale nelle Brigate Rosse negli anni Ottanta, si arrivò a individuare cinque responsabili: Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari, Francesco de Martiis e Daniela Dolce, militanti della formazione di sinistra extraparlamentare Lotta Continua. I primi quattro vennero arrestati mentre Daniela Dolce evitò l’arresto fuggendo in Nicaragua.

Scrocca, il primo maggio del 1987, il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici, si uccise nel carcere di Regina Coeli, a Roma, in circostanze che la famiglia giudicò poco chiare. Gli altri accusati furono assolti in primo grado per insufficienza di prove. Nel 1988 una delle armi utilizzate nell’agguato fu trovata in un locale usato dalle Brigate Rosse, ma non si è mai saputo chi l’avesse portata lì né se le Brigate Rosse c’entrassero davvero qualcosa.