Tre mesi di guerra a Gaza
L'esercito israeliano sta concentrando le operazioni militari nel sud della Striscia e ignorando le pressioni per ridurre le violenze: i morti palestinesi sono quasi 23 mila
Trascorsi tre mesi dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, l’esercito di Israele sta concentrando le sue operazioni militari nel centro e nel sud della Striscia, dopo aver annunciato, nel corso del fine settimana, di aver smantellato il grosso delle capacità militari di Hamas nella parte nord del territorio. Al tempo stesso sono aumentati gli scontri e i bombardamenti reciproci al confine tra Israele e il gruppo libanese Hezbollah, cosa che sta facendo temere un’estensione ulteriore della guerra.
La possibilità che la guerra si estenda anche tra Israele e Hezbollah è per ora piuttosto remota, ma è abbastanza concreta da aver spinto il segretario di Stato americano, Antony Blinken, a organizzare un viaggio di quasi una settimana in Medio Oriente: secondo il Washington Post, l’obiettivo esplicito di Blinken è di «impedire l’inizio di una guerra» tra Israele e Hezbollah. Anche Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, si trova in Medio Oriente in questi giorni, con obiettivi simili.
Dal punto di vista dell’andamento delle operazioni militari, la guerra di Israele nella Striscia di Gaza sta entrando in quella che negli scorsi giorni alcune fonti hanno descritto ai giornali come la «terza fase» del conflitto, dopo gli intensi bombardamenti in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre (prima fase) e l’invasione di terra della Striscia cominciata il 27 ottobre (seconda fase).
Nel corso del fine settimana Daniel Hagari, uno dei portavoce dell’esercito, ha annunciato che nel nord della Striscia l’esercito ha «completamente smantellato le strutture militari di Hamas», e che per questo le operazioni militari si concentreranno nel centro e nel sud, dove il gruppo è ancora presente. Tra le altre cose, nei giorni scorsi l’esercito aveva detto che avrebbe ritirato dal nord cinque brigate, composte da migliaia di soldati.
Questo non significa che l’area nord della Striscia possa considerarsi “pacificata”: il portavoce Hagari ha detto che, benché le strutture militari di Hamas siano state smantellate, nell’area e nei tunnel sottoterra rimangono ancora centinaia se non migliaia di miliziani, che «adesso operano senza comandi», ma sono ancora capaci di combattere e di lanciare razzi contro l’esercito israeliano.
Non significa nemmeno che la guerra si stia avviando verso una fase di maggiore tranquillità: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto: «La guerra non deve essere fermata finché non raggiungiamo tutti i nostri obiettivi: eliminare Hamas, recuperare tutti i nostri ostaggi e assicurarci che Gaza non costituirà mai più una minaccia per Israele».
Ora che l’esercito israeliano concentrerà la propria attenzione sul centro e sul sud della Striscia (cosa che in realtà stava già avvenendo ormai da qualche settimana) la situazione potrebbe diventare ancora più complicata e critica per la popolazione civile. Il sud della Striscia di Gaza, e in particolare la città di Khan Yunis, è eccezionalmente popolato, tra le altre cose perché, nelle prime fasi della guerra, proprio Israele aveva costretto circa un milione di persone che viveva nel nord della Striscia a rifugiarsi al sud.
Da settimane Israele sta bombardando con estrema violenza questo pezzo di territorio, spesso mostrando di non rispettare le indicazioni di sicurezza fornite dallo stesso esercito per minimizzare l’uccisione di civili.
Attualmente, secondo il ministero della Sanità di Gaza (cioè Hamas), le persone uccise nella guerra sono circa 23 mila, la maggior parte dei quali civili. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’85 per cento degli abitanti della Striscia è stato costretto a lasciare la propria casa, e buona parte degli edifici è stata danneggiata o distrutta dai bombardamenti. «Gaza è diventata un luogo di morte e di disperazione», ha detto di recente Martin Griffiths, sottosegretario dell’ONU per gli Affari umanitari.
Anche per questo, ormai da settimane Israele sta subendo una fortissima pressione da parte dei suoi alleati, a partire dagli Stati Uniti, per limitare le operazioni di guerra e i bombardamenti ad ampio raggio e cercare di aumentare la considerazione per le morti e le sofferenze dei civili. Per ora Israele ha ignorato queste pressioni, e anzi Netanyahu, nel discorso in cui diceva che la guerra sarebbe proseguita tutto il tempo necessario, ha aggiunto anche che il suo messaggio era destinato «tanto ai nemici quanto agli amici», come a dire che le pressioni degli alleati per fermare la guerra non saranno ascoltate.
In questo contesto, anzi, negli ultimi giorni stanno aumentando i rischi di un’estensione del conflitto, dopo un forte aumento delle tensioni tra Israele, Hezbollah e l’Iran.
Sabato Hezbollah ha bombardato in maniera piuttosto intensa alcune postazioni a nord di Israele con 40 razzi in risposta all’omicidio di Saleh al Arouri, uno dei capi politici più importanti di Hamas che era stato ucciso la settimana scorsa a Beirut, la capitale del Libano. Uno dei razzi di Hezbollah ha colpito la base aerea israeliana di Meron, provocando parecchi danni.
Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno intensificato le operazioni diplomatiche per cercare di scongiurare un’estensione della guerra anche a Hezbollah. Sarà questo l’obiettivo della visita del segretario di Stato Blinken. Tra le altre cose, l’intelligence americana ha realizzato uno studio (che in teoria sarebbe segreto ma che è arrivato prontamente al Washington Post) secondo cui Israele, con il grosso delle sue forze impegnate a Gaza, si troverebbe in seria difficoltà ad aprire un secondo fronte in Libano contro Hezbollah.