I teatri lirici italiani si sono ripresi
Dopo anni di crisi, commissariamenti e tagli, quasi tutte le fondazioni lirico-sinfoniche sono tornate in attivo
Tranne per alcune eccezioni, i teatri lirici italiani sono spesso stati raccontati come organizzazioni disfunzionali, con grossi buchi di bilancio. Effettivamente è stato così per anni: la maggior parte delle fondazioni lirico-sinfoniche, come vengono chiamati gli enti che gestiscono questi teatri, hanno attraversato fasi di grave dissesto finanziario dipendendo totalmente dai contributi pubblici.
Negli ultimi due anni però le cose sono cambiate: i bilanci di queste fondazioni non solo hanno recuperato in parte le perdite della pandemia, ma sembrano anche arrivati a una situazione di equilibrio economico. Non è stato comunque un percorso facile, veloce, e soprattutto privo di conseguenze sui lavoratori coinvolti. Il risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche, infatti, iniziò nel 2013 come conseguenza del cosiddetto decreto-legge “Valore Cultura”.
È una norma voluta dall’allora ministro dei Beni e delle Attività culturali Massimo Bray, del Partito Democratico, che stabilì l’obbligo per le fondazioni lirico-sinfoniche di avere i bilanci in attivo. Per quelle in stato di crisi istituì un fondo da 75 milioni di euro, a cui potevano accedere a certe condizioni: dovevano presentare un piano industriale di risanamento, ridurre fino al 50 per cento il personale tecnico amministrativo, e interrompere i contratti integrativi, ossia tutte le condizioni contrattuali migliorative rispetto ai minimi di legge per il settore (per esempio maggiori retribuzioni).
Negli anni seguenti dieci fondazioni furono commissariate e sottoposte a severi piani di risanamento, con grandi tagli alle spese e al personale.
All’Opera di Roma, che era in pesante deficit, il Consiglio di amministrazione nel 2014 decise di smantellare l’orchestra, il coro e il corpo di ballo, votando una procedura di licenziamento collettiva per 182 persone. All’epoca il sovrintendente era Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai fino a maggio del 2023. Ci furono molte proteste e alla fine i licenziamenti furono quasi tutti revocati. Vennero rivisti solo i benefit previsti dal contratto integrativo, col risultato che i dipendenti si trovarono a guadagnare molto meno.
Per alleggerire i bilanci, quasi tutte le fondazioni hanno poi fatto a meno dei corpi di ballo. Gli unici teatri rimasti con un corpo di ballo stabile sono il Massimo di Palermo, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli e la Scala di Milano. Anche in questi la gran parte dei danzatori lavora comunque con contratti precari: «L’85 per cento a Palermo, il 67 per cento a Roma, il 63 per cento a Napoli» ha detto il ballerino Roberto Bolle durante un’audizione davanti alla commissione Cultura della Camera che, su proposta di Michele Nitti del Partito Democratico, aveva avviato un’indagine sullo stato delle fondazioni lirico-sinfoniche.
Nel 2020 fu commissariato anche il Regio di Torino, che aveva chiuso il bilancio con un passivo di 2,3 milioni di euro. Nessuno dei soci della fondazione, né pubblici né privati, volle ripianarlo. Il Consiglio d’indirizzo del teatro, su proposta della presidente che era la sindaca di Torino Chiara Appendino (Movimento 5 Stelle), sostituì il sovrintendente William Graziosi, che era indagato con l’accusa di concussione, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Al suo posto fu nominata Rosanna Purchia, ex sovrintendente del San Carlo di Napoli che rimase in carica tredici mesi, durante i quali tagliò molte spese e non rinnovò i contratti ai precari che da anni lavoravano con diverse mansioni nel teatro.
Ora le casse sono di nuovo in attivo: il 2022 si è chiuso con un guadagno di tre milioni e mezzo di euro, «a conferma del corretto cammino intrapreso verso l’equilibrio economico-finanziario e patrimoniale iniziato nel 2020», si legge nella relazione al bilancio. Anche l’Opera di Roma, dopo le difficoltà dell’inizio degli anni Dieci, nel 2022 ha chiuso il bilancio in attivo per l’ottavo anno consecutivo.
In generale, la situazione è positiva anche per gli altri teatri, come si nota dai rapporti del ministero della Cultura sullo stato del risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche. Quello relativo al 2022 mostra come i teatri abbiano aumentato gli spettacoli e gli incassi da biglietteria rispetto al 2021, quando erano ancora in vigore alcune restrizioni per la pandemia da coronavirus e le produzioni non avevano ripreso a pieno ritmo: tra biglietti e abbonamenti i teatri lirici hanno più che raddoppiato le loro entrate.
Le 14 fondazioni lirico-sinfoniche hanno incassato tra biglietti e abbonamenti circa 80 milioni di euro. Di questi però 38 sono del solo Teatro alla Scala di Milano, che è quello più celebre e prestigioso, e con una gestione più virtuosa. Lo stesso anno le 14 fondazioni hanno ricevuto 278 milioni di euro tra contributi pubblici e privati, quasi 3 volte e mezzo i ricavi del loro business principale: anche in questo caso la Scala da sola ha ricevuto quasi 80 milioni. Nel 2022 13 fondazioni su 14 hanno chiuso l’anno in utile, con l’eccezione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, in grosso dissesto da anni e in cui è in corso un rigido piano di risanamento.
Nel 2023 le cose sono andate ancora meglio: al 30 giugno le entrate da biglietteria risultavano complessivamente in aumento di un quarto rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I bilanci dell’anno intero non sono ancora disponibili.
Il decreto-legge “Valore Cultura” insomma ha avuto l’effetto positivo di risanare i bilanci delle fondazioni lirico-sinfoniche, sebbene con un alto costo sociale, dato che ha provocato anche licenziamenti e abbassato gli stipendi dei lavoratori del settore. Fino a pochissimo tempo fa i dipendenti dei teatri avevano lavorato per anni con un contratto fermo al 2001, col risultato che le loro retribuzioni non si erano mai davvero adeguate al costo della vita. Per questo lo scorso autunno c’è stato un grosso sciopero con cui i lavoratori dei teatri lirici si sono astenuti dal lavoro quando era in programma la prima di ogni spettacolo.
Allo sciopero hanno aderito 3.800 coristi e orchestrali, tecnici e personale amministrativo di 12 delle 14 fondazioni lirico-sinfoniche italiane. I lavoratori dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma e della Scala di Milano non hanno partecipato perché hanno un contratto autonomo con condizioni migliori e stipendi più alti.
Lo sciopero si è poi concluso ed è stato trovato un accordo tra i sindacati e l’Associazione nazionale delle fondazioni lirico-sinfoniche (ANFOLS) che prevede una serie di aumenti: si inizia con uno del 4 per cento per recuperare il potere d’acquisto del triennio 2019-2021, anni per cui saranno anche corrisposti gli arretrati; per il triennio successivo, quello 2022-2024, sindacati e ANFOLS si sono impegnati a proseguire nei negoziati. È stato il primo rinnovo dopo oltre vent’anni.
Prima del rinnovo lo stipendio minimo andava da 1.300 euro netti al mese a poco più di 2.200 euro, a seconda dell’inquadramento e dell’anzianità di servizio. A questi vanno aggiunti alcuni benefit e indennità previste dal contratto integrativo, firmato con la fondazione che gestisce il teatro: se la fondazione è sotto un piano di risanamento però queste migliorie non possono essere applicate. I dipendenti dell’amministrazione avevano stipendi minimi ancora più bassi, tra i mille e i duemila euro al mese.
La norma serviva a garantire la sostenibilità economica di un settore ad alto valore culturale e sociale, ma un altro dei motivi per cui venne fatta è perché i teatri lirici erano (e sono) destinatari di ingenti contributi pubblici.
E questo nonostante siano stati privatizzati nel 1996, con un decreto legislativo che stabilì che i maggiori teatri d’opera italiani e le istituzioni concertistiche assimilate avrebbero dovuto assumere il titolo giuridico di fondazioni di diritto privato. Per semplificare molto, queste fondazioni lirico-sinfoniche sono oggi soggetti privati con un proprio regolamento e ampie forme di autonomia, ma vengono nei fatti equiparati a enti pubblici per il loro alto valore culturale nella società. Secondo lo Stato il loro obiettivo principale dovrebbe essere «favorire la formazione musicale, culturale e sociale della collettività nazionale».
In Italia attualmente ce ne sono 14: la Fondazione Teatro alla Scala di Milano, la Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, la Fondazione Teatro Comunale di Bologna, la Fondazione Teatro Lirico di Cagliari, la Fondazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino, la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova, la Fondazione Teatro di San Carlo in Napoli, la Fondazione Teatro Massimo di Palermo, la Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, la Fondazione Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma, la Fondazione Teatro Regio di Torino, la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, la Fondazione Teatro La Fenice di Venezia, la Fondazione Arena di Verona.
Come tutto il settore teatrale anche le fondazioni lirico-sinfoniche hanno diritto ai contributi del FUS, cioè il fondo unico per lo spettacolo che ogni anno eroga contributi a fronte dell’attività di promozione culturale svolta. Lo fa tramite il ministero della Cultura, che ripartisce i fondi sulla base di certi criteri alle varie attività legate a musica, teatro, danza, circo e «spettacolo viaggiante» (quest’ultima è una definizione un po’ desueta del ministero in cui rientrano per esempio giostre, spettacoli di marionette, luna park e attrazioni itineranti).
Sono contributi essenziali per tutte queste forme di spettacolo, ma soprattutto per il teatro lirico, che ha costi altissimi per le elaborate scenografie, i costumi, le ampie orchestre e il personale altamente qualificato. Le fondazioni lirico-sinfoniche non riuscirebbero mai a coprire i costi con solo gli incassi della biglietteria e le sponsorizzazioni. Senza il FUS i teatri lirici sarebbero costretti ad aumentare il costo di biglietti e abbonamenti, col risultato che diventerebbero ancora più appannaggio delle persone più ricche.
Non è possibile generalizzare perché ogni teatro fa storia a sé, ma a seconda della struttura e di cosa mette in scena il contributo del FUS ha un peso diverso sui bilanci. Nel 2022 il settore del teatro nel suo complesso ha ricevuto 423 milioni di euro tramite il FUS, di cui quasi la metà è andata alle fondazioni lirico-sinfoniche: hanno ricevuto il 45 per cento del fondo, 192 milioni. Sono oltre il doppio di quanto i teatri lirici guadagnano con biglietti e abbonamenti, il loro business principale. Questi teatri però possono contare anche su altre forme di ricavi, come i contributi dei privati nelle forme di donazioni o sponsorizzazioni. Inoltre la legge di bilancio del 2022 ha istituito un fondo per il risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche che si aggiunge al Fondo unico per lo spettacolo (FUS), stanziando 100 milioni di euro per il 2022 e 50 milioni per il 2023.
I contributi pubblici ebbero un ruolo essenziale negli anni della pandemia, complicatissimi per tutto il settore dello spettacolo. Le rappresentazioni non potevano andare in scena, quindi i teatri si trovarono senza incassi da biglietteria ma con tutti i costi fissi da sostenere, come quello per gli affitti e il personale dipendente. Al contrario non dovevano sostenere i grandi costi variabili delle rappresentazioni, come le scenografie e il pagamento del personale esterno, e allo stesso tempo comunque continuavano a ricevere i contributi pubblici: questo ha permesso di migliorare i bilanci in un contesto di forte crisi del settore.
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