Un altro suicidio in carcere di una persona che non doveva essere in carcere

Matteo Concetti per i suoi disturbi psichiatrici avrebbe dovuto essere ospitato in una struttura sanitaria, e non ad Ancona Montacuto

Il carcere di Ancona visto da fuori
Il carcere di Ancona visto da fuori (Google Streetview)
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Il 5 gennaio nel carcere di Ancona Montacuto, nelle Marche, è morto il 23enne Matteo Concetti: secondo le informazioni fornite dal carcere si sarebbe suicidato con un lenzuolo mentre era in cella di isolamento. È un caso particolarmente problematico perché Concetti aveva una patologia psichiatrica, ha fatto sapere la famiglia, e nonostante questo un giudice aveva deciso che dovesse scontare la sua pena in carcere. Normalmente per le persone con alcuni particolari disturbi psichiatrici dovrebbe essere prevista la detenzione in strutture diverse dalle carceri ordinarie, o a seconda dei casi almeno in uno che abbia un reparto specifico per detenuti con un’infermità psichica: quello di Ancona non ce l’ha. La famiglia di Concetti sostiene che anche lui rientrasse in uno di questi casi.

Non è la prima volta che nelle carceri italiane si suicida una persona con disturbi psichiatrici che non avrebbe dovuto essere detenuta in un carcere: era successo per esempio anche a giugno del 2022 nel carcere di San Vittore di Milano. Il problema è noto e ha a che fare con la carenza di strutture adeguate a ospitare chi soffre di disturbi psichiatrici, ma in questi anni non è stato fatto molto per risolverlo e non sono state costruite nuove strutture di questo tipo.

La famiglia di Concetti ha denunciato il carcere per istigazione al suicidio, sostenendo che la sua morte si sarebbe potuta evitare. La madre, Roberta Faraglia, ha detto in un’intervista a Repubblica di aver avvertito in vari modi il carcere che il figlio aveva manifestato l’intenzione di suicidarsi, ma non è stato fatto abbastanza per tutelarlo: anzi, era stato messo in cella di isolamento nonostante la sua patologia. La sua storia ha avuto ampia diffusione dopo che l’ha raccontata Ilaria Cucchi, che è una senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra, si occupa da tempo di diritti dei detenuti ed è in contatto con la famiglia di Concetti. Cucchi è anche sorella di Stefano Cucchi, il ragazzo romano trovato morto il 22 ottobre del 2009 in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma.

Concetti stava scontando una pena per alcuni reati minori che finora non sono stati descritti nel dettaglio, ma solo definiti genericamente “reati contro il patrimonio” (quelli che comprendono per esempio furti e rapine). Aveva scontato gran parte della sua pena con misure alternative alla carcerazione: prima per due anni in una comunità terapeutica (una struttura per il recupero di persone che hanno dipendenze), poi agli arresti domiciliari ma con la possibilità di uscire per andare a lavoro. Un giudice aveva stabilito che dovesse andare in carcere dopo che un giorno era tornato a casa dal lavoro con un’ora di ritardo rispetto all’orario di rientro stabilito. Era quindi stato per due mesi nel carcere di Fermo, sempre nelle Marche, per poi essere trasferito ad Ancona circa due mesi fa. Avrebbe dovuto scontare ancora 8 mesi di carcere per finire la sua pena.

La madre ha raccontato che soffriva da tempo di un disturbo bipolare che stava curando, e per questo ritiene ingiusta la scelta della carcerazione: «Lo hanno sbattuto in carcere per giunta dicendo che non era un soggetto a rischio», ha detto a Repubblica, spiegando che la sua condizione patologica era facilmente dimostrabile con le cartelle cliniche ed era stata più volte ribadita dal suo avvocato al carcere. A Concetti inoltre era stato assegnato un amministratore di sostegno, una figura pensata per assistere e tutelare le persone non in grado di provvedere ai propri interessi, come anziani, persone con disturbi psichiatrici, disabilità e malattie degenerative o terminali.

La legge italiana prevede che le persone con disturbi psichiatrici incapaci di intendere e di volere che commettono reati non possano essere messe in carcere, ma debbano invece essere assegnate a una REMS, Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cioè una delle strutture che dal 2014 sono progressivamente subentrate agli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG, che a loro volta sostituirono negli anni Settanta i vecchi manicomi criminali). Naturalmente non tutte le diagnosi di patologie psichiatriche implicano l’incapacità di intendere e di volere, che dev’essere di volta in volta accertata da una visita psichiatrica e poi approvata da un giudice.

Le REMS hanno l’obiettivo di evitare che alcune persone con disturbi psichiatrici possano essere socialmente pericolose, ma allo stesso tempo sono concepiti come istituti esclusivamente riabilitativi, gestiti solo da personale sanitario e volti al reinserimento delle persone che ospitano. La nascita delle REMS fu vista come un grosso cambiamento culturale rispetto ai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, che erano invece istituti di reclusione all’interno dei quali negli anni furono più volte denunciate condizioni inumane e degradanti.

Il problema è che le REMS sono troppo poche: in tutta Italia ce ne sono una trentina, con poco meno di 600 posti disponibili, assai meno di quelli che servirebbero. Per renderle più efficienti infatti si decise di mantenere le REMS rigidamente a numero chiuso, in modo che le persone ospitate (20 al massimo, solitamente) potessero essere seguite con maggiore attenzione. Il risultato però è che le lista d’attesa per accedere sono molto lunghe, e ormai succede spesso che anche persone che dovrebbero legittimamente andare nelle REMS vengano mandate in carcere in mancanza di alternative.

Per Matteo Concetti invece era stata decisa direttamente la detenzione in carcere, secondo la sua famiglia ingiustamente. Il garante dei detenuti delle Marche, l’avvocato Giancarlo Giulianelli, dice di non avere ancora avuto accesso alla cartella di Concetti e quindi di non poter confermare che avesse diritto ad andare in una REMS, ma aggiunge che «se aveva problemi psichiatrici accertati non ci sono dubbi: doveva essere mandato in una REMS».

Nell’antico e ancora in uso gergo carcerario le persone affette da patologie psichiatriche si dividono in due gruppi: i “folli rei” e i “rei folli”. I primi sono le persone incapaci di intendere e di volere ma socialmente pericolose e destinate da subito alle REMS. I secondi sono quelli il cui disturbo si aggrava o compare dopo l’ingresso in carcere. Per loro gli strumenti di cura devono essere garantiti all’interno del sistema penitenziario, ma è una cosa che avviene con difficoltà. Per questo all’interno di alcune decine di carceri italiane sono state introdotte le Articolazioni per la tutela della salute mentale (ATSM), sezioni che almeno in teoria dovrebbero essere a gestione prevalentemente sanitaria. Non si trovano in tutte le carceri, ma deve esserne garantita almeno una per regione.

Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, che si occupa da tempo di monitorare il sistema carcerario italiano, in Italia ci sono 32 ATSM e ospitano meno di 250 persone, anche in questo caso meno di quelle che ne avrebbero bisogno. Non sono considerate particolarmente efficaci e negli anni i garanti dei detenuti di diverse regioni hanno denunciato violazioni dei diritti in questi spazi, e problemi nella loro gestione. Nel carcere di Ancona dove era detenuto Concetti, in ogni caso, non c’è un’ATSM.

Il carcere di Ancona ha anzi molti problemi, a partire da quello del sovraffollamento, che condivide con molti altri istituti penitenziari italiani: il garante Giulianelli dice che l’ultimo dato disponibile, aggiornato al 7 gennaio 2024, era di 335 detenuti per una capienza di 256. Ci sarebbe inoltre una grossa carenza di personale: secondo Giulianelli mancherebbero «una sessantina» di agenti di polizia penitenziaria. «In una situazione del genere è evidente che si faccia fatica a controllare tutti i detenuti», dice.

Per Concetti non erano stati previsti controlli straordinari perché la polizia non lo aveva giudicato tra i detenuti a rischio di suicidio. Alla madre era stato detto che era stato messo in isolamento per punizione, dopo che aveva aggredito un agente del carcere. La mattina del 5 gennaio i genitori erano andati a trovarlo e lui aveva raccontato loro di essere stato picchiato da un agente mentre altri due lo tenevano fermo. Aveva detto di non voler tornare in cella di isolamento, dove era stato nei giorni precedenti, e che se fosse tornato lì si sarebbe ucciso.

«Ho chiesto rassicurazioni alle guardie, le ho implorate che non lo lasciassero solo», ha detto la madre. Aveva anche chiesto di parlare con il medico dell’ospedale affinché gli venissero date le sue medicine, ma le era stato detto che non c’era e che se ne sarebbe riparlato dopo il fine settimana. La sera dello stesso giorno l’avevano chiamata dal carcere per comunicarle che il figlio si era suicidato.

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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.