Come funziona il reato di apologia di fascismo

È previsto dalla legge Scelba approvata nel 1952 e in realtà punisce i tentativi di ricostruzione del partito fascista, non la semplice apologia

Militanti di estrema destra fanno il saluto fascista durante la commemorazione della strage di Acca larentia, a Roma
Militanti di estrema destra fanno il saluto fascista durante la commemorazione della strage di Acca Larenzia, a Roma (ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Il reato di apologia di fascismo non è previsto dal codice penale italiano, ma è in vigore grazie a una legge dal nome piuttosto noto: la legge Scelba. La legge numero 645 fu approvata nel 1952 per rispondere alla XII disposizione finale della Costituzione italiana, che proibisce la ricostruzione del partito fascista.

La legge Scelba, firmata dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, deve il nome a Mario Scelba, politico democristiano che all’epoca era ministro dell’Interno. È composta da dieci articoli, il primo dei quali spiega che si verifica una “ricostruzione” del partito fascista quando:

«[…] una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista»

È una definizione già ampia, ma negli articoli successivi della legge venne ulteriormente allargata e spiegata. Nell’articolo 4, per esempio, fu introdotto il reato che ha finito per diventare sinonimo della legge, cioè l’apologia del fascismo (cioè letteralmente la difesa, a parole o scritta, del regime fascista). È perseguibile di apologia di fascismo chiunque «esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche». In caso di condanna si rischiano da sei mesi a due anni di reclusione. Chi viene condannato per apologia di fascismo, inoltre, è privato sia del diritto di votare che di essere eletto.

In teoria la legge Scelba considera quindi reato anche soltanto parlare bene del fascismo: in base alla semplice lettura del testo dell’articolo 4 sembrerebbe insomma che gridare «Viva il fascismo!» possa di per sé essere considerato un reato. Diverse sentenze della Cassazione hanno però ridotto di molto gli ambiti in cui applicare le disposizioni della legge Scelba.

Negli anni immediatamente successivi alla sua approvazione, infatti, la legge fu utilizzata contro diversi esponenti del Movimento Sociale Italiano, il partito politico fondato nel 1946 da un gruppo di reduci del regime fascista. Nessuno di loro era accusato di cercare di ricostruire il partito fascista, in base all’articolo 1 della legge. Erano invece accusati di apologia del fascismo in base all’articolo 4. Gli imputati dissero che l’articolo 4 della legge era in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di espressione. Il tribunale di Torino, uno dei tre che si stavano occupando dei processi, chiese l’intervento della Corte Costituzionale.

La sentenza della Corte Costituzionale arrivò nel gennaio del 1957 e stabilì che la legge Scelba non violava la Costituzione. Ma contemporaneamente precisò il significato dell’articolo 4: per esserci una vera e propria apologia di fascismo non è sufficiente che ci sia «una difesa elogiativa» del vecchio regime, ma è necessaria «una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista». Non è reato difendere il fascismo a parole, ma solo se viene fatto «in rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata dalla XII disposizione».

Due anni dopo, nel dicembre del 1958, una seconda sentenza della Corte Costituzionale fornì una simile precisazione anche per l’articolo 5 della legge Scelba, quello che proibisce manifestazioni fasciste e che, secondo alcuni, era in contrasto con la libertà garantita dalla Costituzione di riunirsi e manifestare. Anche qui la Corte stabilì che le manifestazioni erano vietate, ma solo nel caso in cui fossero propedeutiche alla ricostruzione del partito fascista.

Le interpretazioni della legge Scelba stabiliscono quindi che, fino a che un giudice non decide che è in corso un tentativo di fondare un nuovo partito fascista, è legittimo difendere Mussolini e il fascismo, fare il saluto fascista, vendere memorabilia del regime e manifestare con divise e bandiere fasciste. Un partito politico può anche definirsi neofascista, a patto di poter dimostrare di non stare ricostruendo l’antico partito fascista e di non avere i suoi obiettivi antidemocratici.

Per questa ragione movimenti esplicitamente neofascisti possono continuare a svolgere normalmente attività politica. Secondo i giudici, la legge Scelba non impone necessariamente lo scioglimento di un partito che dovesse usare il termine “fascismo” nel suo nome.

Nel 1993 il governo tecnico di Giuliano Amato approvò un decreto-legge che tentava di restringere le possibilità di fare propaganda ed esporre simboli fascisti. Il decreto è stato ribattezzato “legge Mancino”, dal nome dell’allora ministro dell’Interno, e da allora è diventata la principale norma italiana contro l’incitamento all’odio e alla discriminazione.

La legge stabilisce le aggravanti per i reati commessi con finalità razziste o discriminatorie, e punisce «chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», proibisce di creare organizzazioni ispirate a questi valori e impone il loro scioglimento.

La legge stabilisce anche il divieto di esibire bandiere, slogan o altri simboli di organizzazioni violente o discriminatorie durante gli eventi sportivi, e modifica l’originale legge Scelba per rendere più esplicito il divieto di fare propaganda al fascismo e ai suoi esponenti.

La legge Mancino è da sempre contestata dai movimenti di estrema destra e nel 2014 la Lega propose un referendum per abolirla. Come la legge Scelba, però, anche la legge Mancino può essere considerata in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che sancisce la libertà di espressione: per questo in realtà in Italia continua a rimanere possibile esibire simboli fascisti e nazisti. In caso di denuncia, sono i giudici a decidere caso per caso se applicare la legge Scelba, la legge Mancino o se stabilire che l’episodio sia tutelato dall’articolo 21.