Non è la stessa cosa possedere film e musica o fruirne in streaming
La smaterializzazione di massa dei prodotti culturali li ha resi più accessibili ma anche più precari, con conseguenze difficili da calcolare
Nel 2024 la grande catena statunitense di negozi di elettronica Best Buy eliminerà gradualmente la vendita di Blu-ray e DVD di film e serie tv, come da piani aziendali emersi già a ottobre scorso. La popolarità dello streaming e dei download digitali, causa del progressivo declino delle vendite dei supporti fisici, ha prodotto ormai da anni un cambiamento radicale delle modalità di fruizione di massa dei prodotti culturali: cambiamento spesso dibattuto e raccontato, ma le cui conseguenze su larga scala e a lungo termine sono difficili da cogliere e valutare nell’insieme.
Il fatto che l’ascolto di una canzone o la visione di un film o una serie siano oggi esperienze nella maggior parte dei casi mediate da una piattaforma di streaming è assodato e ovvio, ma definisce una differenza significativa sotto molti aspetti rispetto a un passato relativamente recente. Fino a qualche anno fa quelle stesse esperienze richiedevano infatti, oltre che un dispositivo di lettura dei dati, un supporto materiale su cui i dati erano incisi: supporto peraltro necessario anche in caso di noleggio, e ora non più.
In un certo senso, qualsiasi modalità di ascolto o visione è di fatto assimilabile a una forma di noleggio immateriale, la cui durata è stabilita da un accordo tra l’utente e la piattaforma (una licenza) che definisce tempi, costi e modalità di fruizione dei contenuti, in mancanza di un oggetto fisico associato a quei contenuti e posseduto dall’utente.
La convergenza dei formati e la progressiva digitalizzazione di massa dei prodotti culturali sono state rese possibili da sviluppi epocali: non solo tecnologici e di infrastrutture, ma anche politici, come scritto nel libro The Politics of Mass Digitization dalla studiosa di dati e cultura digitale Nanna Bonde Thylstrup, docente dell’università di Copenhagen. Uno degli effetti di quegli sviluppi è stata la crescita di una competizione per l’attenzione ormai da anni diventata molto trasversale, in cui precedenti distinzioni tra prodotti culturali e di intrattenimento sono diventate via via più deboli e sfumate. La scomparsa del supporto fisico accomuna musica, film e anche videogiochi, sempre più spesso scaricati in versione digitale o giocabili in streaming.
Tra il 2019 e il 2020 il New York Times pubblicò una serie di articoli di autori di fantascienza, filosofi e scienziati a cui aveva chiesto di fare finta di scrivere in un futuro imprecisato. La scrittrice statunitense Veronica Walsingham provò a immaginare le ripercussioni future della concorrenza tra piattaforme di streaming e i possibili svantaggi per gli utenti. E ipotizzò che l’acquisto di cofanetti in DVD fosse l’unico modo certo di «possederli a titolo definitivo» e mantenere nel tempo la possibilità di vedere determinate serie a cui era affezionata, senza dover pagare «l’ennesima fattura mensile del servizio di streaming solo per guardare una serie», in un’epoca contraddistinta da una generale tendenza al noleggio.
«Mentre mi siedo nel mio appartamento in affitto e penso a noleggiare i contenuti che guardo, non posso fare a meno di notare che tutto nella nostra società si è spostato verso il noleggio. Noleggiamo musica, spazi di lavoro, mobili, gioielli e abiti da sposa. Ho un amico che affitta una macchina per caffè espresso. C’è stato un cambiamento socioeconomico, che ci ha spinto verso il noleggio e ad allontanarci dal possesso. Non so se possederò mai una casa, ma posso possedere le mie serie preferite nella loro interezza, ed è una bella sensazione».
La discussione sulla scomparsa dei supporti fisici riprende in parte argomenti emersi da tempo anche nel dibattito sui vantaggi e gli svantaggi degli ebook rispetto ai libri. Da un lato la digitalizzazione ha reso i prodotti culturali più facilmente accessibili e ridotto l’utilizzo di risorse materiali, e di conseguenza gli sprechi. Dall’altro ha avuto rilevanti implicazioni sul piano giuridico ed economico, favorendo il progressivo passaggio da un’economia dei prodotti a un’economia dei servizi.
Come osservato dai docenti di diritto Aaron Perzanowski e Chris Hoofnagle in un articolo del 2017 intitolato “What we buy when we buy now”, l’esperienza di acquisto di beni digitali contraddice alcuni assunti fondamentali sulla natura dei diritti di proprietà personale. «Quando compriamo un libro, lo possediamo; è di nostra proprietà. E uno dei diritti tradizionalmente associati alla proprietà personale è la possibilità di conservare ciò che possiedi per tutto il tempo che desideri». Questo diritto venne evidentemente meno, per esempio, quando a seguito di controversie con gli editori Amazon nel 2009 cancellò da remoto le copie di ebook archiviati in locale sui dispositivi di consumatori che avevano acquistato quegli ebook.
Il passaggio alle piattaforme digitali, scrissero Perzanowski e Hoofnagle, rende l’accesso ai beni da parte dei consumatori più comodo ma anche contingente, dal momento che anche dopo il pagamento le società che gestiscono quelle piattaforme possono privare i consumatori dell’accesso ai media digitali. «A differenza di un acquisto in una libreria, una transazione digitale è continua, collega acquirente e venditore, e successivamente alla transazione conferisce al venditore un potere impossibile nei mercati fisici». La legittimità di questa dinamica è generalmente sancita dai termini di utilizzo – testi spesso incomprensibili e oggettivamente «più lunghi del Macbeth di Shakespeare» – associati ai media digitali e accettati dall’utente finale, che limitano in vari modi la possibilità di prestito e vietano la rivendita.
Secondo le società che tramite le piattaforme regolano l’accesso ai beni, i media digitali sono diversi dai beni materiali tradizionali come libri, dischi e film, la cui vendita garantiva all’acquirente il diritto di trasferirli come ritenesse opportuno. Sono diversi prima di tutto perché il trasferimento di un file digitale richiede generalmente la creazione di una nuova copia, osservarono Perzanowski e Hoofnagle. E poi perché i beni digitali «non vengono venduti agli acquirenti, ma semplicemente concessi in licenza»: differenza probabilmente chiara ad avvocati e addetti ai lavori, ma non così facile da comprendere per il consumatore medio.
L’impossibilità di rivendere i media digitali è peraltro una delle ragioni per cui il supporto fisico continua a esistere e ad avere una certa centralità nel settore dei videogiochi, al momento non interessato dall’interruzione delle vendite dei Blu-ray. La circolazione dei dischi che contengono i giochi è infatti una condizione alla base del mercato dell’usato, da sempre molto fiorente nel settore dei videogiochi e per lungo tempo fondamentale per specifiche attività commerciali (la catena di negozi GameStop, per esempio).
In questo caso, diversamente da quello della musica, la sopravvivenza del supporto non sembra quindi legata a fenomeni di nostalgia o repulsione per lo streaming, né a questioni di qualità e disponibilità di particolari generi come la musica classica. È associata piuttosto al desiderio dell’acquirente di tenere per sé un valore di mercato residuo del bene materiale in un contesto in cui la circolazione di beni immateriali tende invece ad annullarlo.
La digitalizzazione sempre più estesa di media eterogenei ha favorito il progressivo passaggio da un’economia dei prodotti a una dei servizi, e cioè a un contesto in cui i beni materiali diventano beni immateriali il cui valore viene continuamente stabilito dalle società che gestiscono le piattaforme regolando diffusione e modalità di fruizione di quei beni. Il «cambiamento socioeconomico» immaginato da Walsingham nell’articolo sul New York Times riassume per molti aspetti un’evoluzione descritta da tempo da diversi economisti, tra cui l’inglese Guy Standing e lo statunitense Michael Hudson: il passaggio da un modello di capitalismo industriale a un capitalismo finanziario, favorito negli ultimi decenni dal successo delle politiche neoliberiste del mercato globale sia sul piano culturale che su quello economico.
L’espansione sregolata del settore finanziario, assicurativo e immobiliare, in alcuni casi favorita dalle politiche di privatizzazione sostenute dai governi, secondo Hudson, ha generato economie dominate da «neo-redditieri», cioè investitori privi di funzioni operative concrete, le cui rendite si basano sull’accumulazione passata e la scarsità del capitale. «Lo scopo di questo capitalismo finanziario postindustriale è l’opposto del capitalismo industriale noto agli economisti del diciannovesimo secolo: ricerca la ricchezza principalmente attraverso l’estrazione di rendita economica, non attraverso la formazione di capitale industriale», scrive Hudson.
In questo modello economico, definito appunto capitalismo del redditiere, i beneficiari della rendita costituiscono una classe più o meno ampia che monopolizza l’accesso alle attività e alle tecnologie, espandendo la privatizzazione e la finanziarizzazione (la trasformazione di imprese industriali in attività puramente finanziarie) anche a livello sovranazionale e in settori che in precedenza erano mantenuti di dominio pubblico o regolamentati in modo più rigido. Questa trasformazione ha attraversato anche il settore culturale, in cui la digitalizzazione ha reso possibile il passaggio dall’acquisto di beni materiali tradizionali alla cessione in licenza di beni immateriali (una forma di acquisto più simile al noleggio, appunto) descritta da Perzanowski e Hoofnagle.
Il successo del modello che si basa sul noleggio dei media digitali gestito dalle grandi piattaforme anziché sul possesso dei supporti fisici da parte degli acquirenti ha anche altre implicazioni. Il fatto che il rapporto tra venditori e acquirenti sia continuo, per esempio, ha permesso ai primi di ottenere dati in costante aggiornamento, analizzabili tramite algoritmi e altri strumenti utili per frammentare e “profilare” il pubblico, massimizzando i profitti. E come osservato da Walsingham e da molti altri, tra cui il critico cinematografico del New Yorker Richard Brody, il successo del modello basato sullo streaming anziché sul supporto ha soprattutto conferito alle piattaforme il controllo sull’accesso ai media, sottraendolo in parte allo spettatore: controllo che era stato invece il principale fattore del successo storico del mercato home video.
«Anche i servizi di streaming più generosi danno con una mano mentre prendono con l’altra», ha scritto ad agosto Brody, alludendo alla frequenza di aggiornamento dei cataloghi dei titoli disponibili, che cambiano sulla base degli accordi tra chi ne detiene i diritti e le società. La disponibilità dei film o delle serie tv è cioè in parte fuori dal controllo dello spettatore, secondo Brody. E il fatto che la visione sia un’attività gestita e mediata unicamente dalla piattaforma emerge anche quando certi film vengono in alcuni casi preceduti da particolari avvisi, lasciando una «curiosa sensazione di invadenza» e «sorveglianza», come qualunque cosa che «si frappone tra noi e la visione, l’ascolto, la lettura».
Riprendendo argomenti centrali anche nel libro di Thylstrup The Politics of Mass Digitization, Brody ha poi scritto del ruolo dei supporti fisici sulla conservazione del sapere e sul fatto che permettano ai film di esistere indipendentemente da chi ne detiene i diritti (un tema che, più o meno negli stessi termini, riguarda peraltro anche i videogiochi). Il «senso di crisi» che da sempre contraddistingue il rapporto tra arte e potere, secondo Brody, è diventato ancora più acuto in anni recenti.
Siti internet e servizi di streaming di film classici e indipendenti, come FilmStruck e New Yorker Films, che svolgevano anche un lavoro di archiviazione, sono stati dismessi. Altri siti, pubblicazioni, editori e case cinematografiche e discografiche si sono fusi o sono stati acquisiti da proprietari «con programmi commerciali o ideologici che sono in conflitto con la conservazione e la disponibilità degli archivi». E la chiusura di un singolo sito può eliminare qualsiasi accesso all’unica fonte esistente di un film importante.
Una collezione di supporti fisici in un contesto del genere, secondo Brody, è «un baluardo contro la paura che i detentori dei diritti possano ritirare le opere dalla circolazione», per scadenza dei contratti o scarsità della domanda. Non è quindi un atteggiamento nostalgico o conservatore, ma un atto «essenzialmente politico», perché permette di conservare nel privato «ciò che è trascurato, soppresso o distrutto nella sfera pubblica, che sia attraverso il vandalismo mercantile, la censura dottrinaria o l’apocalisse tecnologica».
Se è vero che non tutte le perdite di dati sono necessariamente un danno, ha scritto Thylstrup in un articolo pubblicato a giugno sul New York Times, «gran parte della perdita di dati oggi avviene in modi profondamente ingiusti e che hanno implicazioni enormi sia per la cultura che per la politica». Poche organizzazioni non profit o biblioteche digitali sostenute da fondi pubblici sono in grado di operare al livello di scala necessario per «democratizzare» il controllo della conoscenza digitale, e in definitiva controllare «le condizioni in cui le nostre società ricordano e dimenticano»: compito lasciato oggi a grandi aziende orientate al profitto o a leader politici con aspirazioni autocratiche.
Molti prodotti culturali dipendono ormai quasi interamente dai formati digitali, il cui accesso è regolato da piattaforme i cui ecosistemi sono strutturati in modo da massimizzare il profitto archiviando selettivamente alcuni dati. Questa gestione può portare in alcuni casi a situazioni paradossali in cui anche film e serie tv recenti e di relativo successo diventano di fatto provvisoriamente irrecuperabili perché non esistono né a noleggio né in vendita.
La storia della conoscenza non è una storia di semplice progresso o accumulazione, ha scritto Thylstrup. E tanto la produzione della conoscenza nell’era digitale quanto la creazione e l’archiviazione della conoscenza nei secoli passati hanno seguito processi di «continua oscillazione tra guadagni e perdite». Ma se la perdita di dati su piccola scala (perdere la rubrica telefonica o un file personale) è un rischio individuale più o meno calcolato e accettato in un mondo interamente dipendente dal formato digitale, la cancellazione dei dati su larga scala, secondo Thylstrup, è sempre una questione politica, determinata dai quadri etici e normativi con cui decidiamo di regolare il nostro rapporto con i dati.