Le famiglie Auditel e altri misteri

«Ricordo ancora l’ultima volta – che poi è l’unica – in cui mi dissero: “Non preoccupatevi degli ascolti, divertitevi, sperimentate”: tempo due mesi e il programma fu chiuso. Forse non ci eravamo divertiti abbastanza. Da quel giorno ho imparato a non scherzare con i santi. Perché quella degli ascolti tv è come una religione, anzi: è una religione. E, come per tutte le religioni, in suo nome si sono commesse nefandezze, si sono combattute guerre, si è insultato, denigrato, e soprattutto si sono mandate in onda (e si mandano tuttora) cose ai limiti dell’improponibile»

Amadeus e Fiorello sul palco dell'Ariston al festival di Sanremo del 2022 (D.Venturelli/Daniele Venturelli/Getty Images )
Amadeus e Fiorello sul palco dell'Ariston al festival di Sanremo del 2022 (D.Venturelli/Daniele Venturelli/Getty Images )
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Devo ammetterlo: non credo negli ascolti tv.

O meglio, ci credo vagamente, più o meno con lo stesso distacco con cui, di tanto in tanto, mi capita di assistere a un rito religioso: mi batto il petto, scambio segni di pace, ripeto frasi che conosco a memoria da anni e al momento giusto mi pento e mi dolgo, sforzandomi di assumere l’espressione più contrita possibile.

Cerco, insomma, di mimetizzarmi tra i credenti veri come meglio posso, cercando di non fare figuracce (anche se dentro di me coltivo il sospetto che tanti, o forse tutti, la pensino esattamente come me). A volte mi chiedo «E se ci fosse qualcosa di vero?» e penso che in fondo sì, un fondo di verità deve esserci per forza, altrimenti tutto il baraccone non avrebbe mai potuto resistere per tutto questo tempo.

Faccio più o meno la stessa cosa quando, all’indomani di una trasmissione alla quale ho lavorato come autore, mi trovo in riunione insieme ai colleghi. C’è una tensione quasi mistica, che tutti cercano di dissimulare ma che si fa palpabile con l’avvicinarsi delle dieci del mattino.

Il momento più atteso e temuto, quello intorno al quale ruota tutto, come la lettura del Vangelo durante la messa.
Lui. Il dato di ascolto.
Il verbo si è fatto share, lo share si è fatto carne.

Due numeri separati da una virgola, come i versetti del Nuovo Testamento.
Fiorello 20,3
Fazio 11,4
Clerici 18,3
e così via.

(Questi numeri, in realtà, sono percentuali. In genere ci si accontenta di quelle, senza chiedersi a quante persone corrispondano. Mi sono sempre chiesto perché. A contare dovrebbero essere soprattutto i numeri assoluti: il 10 per cento di share al mattino e in prima serata, quando ci sono molte più persone davanti alla tv, corrispondono a volumi di ascolto ben diversi. Mi rispondo da solo: perché conviene a tutti. Un milione di telespettatori è un numero preciso e inequivocabile, mentre il 50 per cento rimane sempre il 50 per cento e fa una certa impressione, anche se a guardare la tv sono in due. E poi, soprattutto a tarda sera, capita spesso che lo share di una trasmissione sia in aumento anche se il numero complessivo degli spettatori diminuisce. Magia? No, matematica, ma soprattutto psicologia: a tutti piace vedere un segno più, e se vi siete chiesti perché le trasmissioni finiscano sempre più tardi, ora avete la risposta).

Dicevamo: bello o brutto, il dato arriva. A quel punto la tensione può finalmente sciogliersi, in caso di responso positivo, o al contrario addensarsi in un presagio di sventura. Che succederà adesso? L’inquietudine sublima in mille congetture. Ci tagliano? Ci spostano? Ci chiudono?

Tutte domande lecite. Da quelle cifre – più che da qualsiasi altra cosa – dipende il destino di una trasmissione televisiva. La collocazione in palinsesto, gli investimenti pubblicitari. La probabilità che un potenziale ospite accetti o meno un invito alla prossima puntata (quando tira aria di fallimento, nessuno è felice di essere nei paraggi). E, soprattutto, il modo in cui quella trasmissione viene percepita all’esterno. Il sentiment, direbbe qualcuno che preferisco non frequentare.

Certo, alla maggior parte del pubblico televisivo dello share importa poco. Eppure, in qualche modo, quando un programma ha problemi di ascolti si vede. La trasmissione che non deve preoccuparsi dello share è spavalda: procede senza incertezze, segue il format, si permette anche un po’ di autoironia. Mentre i programmi con cattivi ascolti quasi sempre lasciano trasparire una certa ansia da prestazione, simile a quella di un primo appuntamento che sta andando male e deve essere raddrizzato.

L’ho capito standoci dentro: non è detto che un programma che fa cattivi ascolti sia brutto, ma spesso un programma diventa brutto quando fa cattivi ascolti. Perché di fronte alle critiche (e le critiche assecondano sempre i numeri, guarda un po’) si cerca di correggere in corsa, fare rattoppi maldestri inserendo momenti sopra le righe, o personaggi che nulla c’entravano con il progetto originale. Un’ammuìna praticata da sempre, ma che di rado riesce a risollevare le sorti di una trasmissione.

Un dirigente Rai mi raccontò che le prime puntate di Ballarò, il talk show ideato nel 2002 da Giovanni Floris, avevano avuto ascolti così deludenti che la decisione di chiuderlo sembrava imminente. Poi, per qualche ragione, arrivò una puntata più fortunata delle altre, senza che gli autori avessero apportato particolari cambiamenti alla scaletta. Magari quella sera gli ospiti erano particolarmente in forma, magari la controprogrammazione delle altre reti era più debole; oppure, semplicemente, il programma aveva bisogno di qualche settimana perché il pubblico familiarizzasse. Comunque sia la fiducia tornò, il format riuscì a ingranare, e la trasmissione poté andare in onda per quasi quindici anni, diventando un punto di riferimento del dibattito politico.

Per questo non credo negli ascolti tv.

Intanto perché i fattori che influenzano la visione di un programma sono tantissimi: la fruizione televisiva è diventata molto più liquida e discontinua, e succede di cambiare canale per un’infinità di ragioni. Eppure, dopo ogni trasmissione, la liturgia prevede l’analisi della cosiddetta “curva”, un diagramma cartesiano che indica, minuto per minuto, l’andamento degli ascolti. Fior di addetti ai lavori ogni giorno vivisezionano la suddetta curva (anzi sezionano, perché nella tv del giorno prima non c’è più niente di vivo; la tv nasce e subito muore, sarà per questo che il simbolo della Rai è stato a lungo una farfalla) e indicandone i vari punti dicono agli autori: «Qui siamo andati bene, qui male, qui così così», sottolineando che evidentemente l’argomento non era interessante, che il tale sketch poteva essere più breve, che forse sarebbe stato meglio dedicare più tempo a quell’ospite e meno a quell’altro. Una verità alla quale tutti si conformano in un secondo: «Lo sapevo, si vedeva, l’avevo detto, avevo avuto anch’io quella sensazione». E tu, come da liturgia, chini il capo in silenzio, e intanto ti chiedi se quella verità postuma, autoptica, sia vera per davvero.

Auditel dichiara che i dati di ascolto si basano su un campione di sedicimila famiglie (le cosiddette “Famiglie Auditel”) per un totale di quarantamila persone. Gente che ha accettato di installare nei televisori di casa un macchinario che monitora in tempo reale accensioni, spegnimenti e cambi di canale, e nel quale vanno registrate, in ogni momento, le persone che stanno guardando la tv.

Sembra quasi un lavoro, eppure a quanto si legge il compenso per una famiglia Auditel è limitato a qualche buono sconto. Chi sono queste persone? Non si può sapere, sono protette dall’anonimato. Ma può davvero esistere, nel 2023, il concetto di anonimato? Voci incontrollate narrano che il meccanismo di selezione sia tutt’altro che casuale, e che il prezioso marchingegno faccia bella mostra di sé a casa di direttori clamorosi, ereditieri, cardinali e figli di tutti questi potenti.

Non voglio seminare dubbi. Sull’Auditel vigila Agcom, i dati sono trasparenti e accessibili, e il fatto che le quote della società siano ripartite tra gli editori televisivi è un’ottima garanzia dell’accuratezza dei controlli. Resta il fatto che, in un mondo sempre più complottista, quello degli ascolti tv è l’unico potere forte del quale non si sa assolutamente nulla, e che nessuno mette in discussione. Comuni cittadini, di ogni estrazione sociale, ai quali è stato affidato un potere enorme. Possiamo fidarci? L’ultima volta non andò benissimo.

E poi, a me queste persone sembrano poche. Quarantamila individui sono poco più di mezzo millesimo della popolazione italiana. È come se in una folla di 1500 persone se ne andasse a pescare una sola, le si chiedesse «Che programma hai visto?» e si concludesse che sicuramente, senza ombra di dubbio, tutti e 1500 hanno guardato quel programma. Certo, il meccanismo a campione è lo stesso su cui si basa qualsiasi sondaggio, ma i sondaggi sono, appunto, sondaggi: non è che ci accontentiamo di loro, anche quando sono schiaccianti. Al voto bisogna andarci comunque, e lì uno vale uno, come disse quel tale.

(Invece, qua siamo all’uno vale millecinquecento. Settecento persone davanti alla tv pesano come un milione di telespettatori. Se il gatto di una famiglia numerosa salta sul telecomando, può regalare una frazione non trascurabile di share a un programma a caso).

E da questi pochissimi dipende il destino di una moltitudine di lavoratori, tra i quali il sottoscritto. Ricordo ancora l’ultima volta – che poi è l’unica – in cui mi dissero: «Non preoccupatevi degli ascolti, divertitevi, sperimentate»: tempo due mesi e il programma fu chiuso. Forse non ci eravamo divertiti abbastanza.

Da quel giorno ho imparato a non scherzare con i santi. Perché quella degli ascolti tv è come una religione, anzi: è una religione. E, come per tutte le religioni, in suo nome si sono commesse nefandezze, si sono combattute guerre, si è insultato, denigrato, screditato avversari, sono nate carriere e altre sono naufragate. E, soprattutto, si sono mandate in onda (e si mandano tuttora) cose ai limiti dell’improponibile, al grido di: «È quello che vuole la gente». Ma la gente chi?, ma parlate per voi, mi verrebbe da rispondere.

Se provi a obiettare che bisognerebbe puntare sulla qualità, piuttosto che navigare a vista tra format rimasticati, intrattenimento di basso livello e trash dilagante, ti rispondono che a comandare è sempre lui: il pubblico, animale gigantesco e inafferrabile che tutti cercano di addomesticare a qualunque costo. Nessuno ha la ricetta perfetta, ma gli ingredienti più efficaci li conosciamo bene: nostalgia, nostalgia a badilate – la moneta più preziosa di tutte, in una rivalutazione perpetua e costante di tutto ciò che è stato – e poi lacrime, liti, eccessi, volgarità varie e incidenti più o meno imprevisti. L’imperativo è catturare l’attenzione, e se per farlo bisogna giocare un po’ sporco, pazienza: l’importante è che la gente si fermi a guardare, come succede con gli incidenti d’auto.

Certo, resta il sospetto che sia tutta una grande messa in scena. Eppure mi piace pensare che, alla fine, tutto possa trovare un suo equilibrio, un suo senso profondo. Quando una trasmissione dimostra valore, quando ha qualcosa da raccontare, quasi sempre gli ascolti le sorridono benevoli. Perché, per quanto se ne possa discutere, il sistema funziona. Alla lunga il giudizio supremo dell’Auditel premia i progetti solidi e smaschera quelli più incerti e sgangherati.

Lo so, avevo detto di essere un miscredente. Eppure devo confessarlo: non credo che una tv senza Auditel sarebbe migliore, esattamente come non credo che il mondo senza religioni sarebbe migliore. In assenza di un’entità superiore che attesti inequivocabilmente il gradimento di una trasmissione – proiettandola in paradiso o condannandola all’inferno – i palinsesti sarebbero decisi in base ai capricci di pochissimi megadirettori. Senza il conforto delle cifre, sarebbe più facile cancellare programmi sgraditi al potere e, viceversa, tenere in vita trasmissioni create solo per piazzare qualche amico di amici; insomma, si sprofonderebbe nel relativismo più cupo. Anzi, sono convinto che se non esistesse l’Auditel faremmo esattamente quel che abbiamo fatto con le religioni: ce la inventeremmo.

– Leggi anche: Come funziona l’Auditel, spiegato

Stefano Andreoli
Stefano Andreoli

Romagnolo trapiantato a Milano, parla tutte le mattine dalle 7 alle 10 su Radio Monte Carlo, nel programma Bonjour bonjour. Come autore, ha scritto per alcuni tra i più grandi comici italiani tra i quali Roberto Benigni, Maurizio Crozza, Geppi Cucciari, Claudio Bisio, il Mago Forest, Luca e Paolo, Edoardo Ferrario e Valerio Lundini. Insieme ad Alessandro Bonino ha creato il sito satirico Spinoza.it. Collabora da anni con La Settimana Enigmistica e altre riviste come autore di rebus, indovinelli ed enigmi.

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