Procrastinare tutto, anche il capodanno
«Noi rimandatori a fine anno siamo ancora più vulnerabili del solito: per questo, l’insensato balenare dell’opzione rinvia, riferita al capodanno, mi turba tanto. Perché, fosse per me, lo rinvierei eccome, come amo rinviare qualsiasi cosa. Lo rinvierei, ma so bene che non posso, perché il tempo fugge tutto in una direzione, e dimenticarlo è impossibile, anche per una procrastinatrice professionista che vorrebbe abolire le date, anzi proprio i calendari, dato che il tempo non si può abolire, perché è la forma stessa dell’esperienza»
È successo di nuovo. La notifica lampeggia in alto a destra sullo schermo: capodanno, dice, e posso scegliere su quale opzione cliccare. Accetta/rinvia. Di nuovo ho sorriso, di primo acchito, perché è buffo pensare che si possa rinviare il capodanno. Sarebbe bello, sarebbe divertente, e mi risolverebbe anche diversi problemi – perché no? Poi però mi sono incupita: come se mi fossi vista in uno specchio capace di ingrandire a dismisura quello che non va in me – in questo caso, il mio rapporto nevrotico con il tempo. La tentazione di procrastinare il capodanno – possibile che sia arrivata così in basso?
So benissimo che non posso biasimare il calendario del mio pc, che trabocca di annotazioni incomprensibili, geroglifici nella lingua di una procrastinatrice seriale, Bianconiglio a partita Iva che pensa di riuscire a districarsi in cumuli di lavoro arretrato compilando ossessivamente liste. Io vivo in simbiosi con il mio computer perché ho sempre qualcosa in sospeso, e sul desktop un file (per l’appunto, una lista di cose da finire) che si intitola Giorni efferati e non so più nemmeno quali erano, i giorni efferati in cui l’ho inaugurato, perché le voci si aggiungono alle voci e la lista non si chiude mai.
Come chiunque sprechi il proprio tempo affinando l’arte della procrastinazione, ne conosco le leggi segrete: l’impellenza di temperare tutte le matite di casa prima di iniziare a scrivere, lo splendore di una pausa caffè che deve prolungarsi finché le lancette dell’orologio non ricadano in una qualche simmetria perfetta. Noi procrastinatori, pur di toglierci la soddisfazione di cancellare una voce da una lista, qualche volta l’aggiungiamo apposta: chi procrastina, nel tempo che dovrebbe dedicare a un compito improrogabile, riesce a portare a termine una quantità anche notevole di incombenze minori, alternative – a condizione, appunto, che non siano affatto urgenti. È la nostra unica possibilità di essere efficienti.
Per noi, dediti a rimandare qualsiasi cosa a un futuro indefinito, la fine dell’anno è un momento particolarmente delicato. Ci tocca fare i conti con tutto quello che non siamo riusciti a portare a termine. Con le persone che abbiamo deluso perché abbiamo aspettato troppo, perché abbiamo sforato, perché ormai il momento era passato. Chi procrastina rinuncia al presente in favore di un futuro anteriore in cui sarà già troppo tardi per tutto quello che non saremo riusciti a fare, e assaporeremo, quantomeno, la pace della rassegnazione. Dire ora, dire oggi, per noi è un gran dolore; per questo galleggiamo straniti nella marmellata di giorni tutti identici che si rincorrono fra Natale e capodanno, in quel presente sospeso nel profumo dei mandarini, fra colazioni con il panettone e il lavoro da smaltire in giornate in cui finalmente arrivano meno mail del solito e potremmo dunque approfittarne per portarci avanti – ma tanto ormai siamo in ritardo, e oltretutto ci dissipiamo ulteriormente, come chiunque, ma forse con più voluttà, nell’ingrata abitudine ai bilanci, sempre in passivo perché abbiamo rimandato una quantità di incombenze che francamente ci vergogniamo a confessare.
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Noi procrastinatori a fine anno siamo ancora più vulnerabili del solito: per questo, l’insensato balenare dell’opzione rinvia, riferita al capodanno, mi turba tanto. Perché, fosse per me, lo rinvierei eccome, come amo rinviare qualsiasi cosa. Lo rinvierei, ma so bene che non posso, perché il tempo fugge tutto in una direzione, e dimenticarlo è impossibile, anche per una procrastinatrice professionista che vorrebbe abolire le date, anzi proprio i calendari, dato che il tempo non si può abolire, perché è la forma stessa dell’esperienza.
Ma è il calendario a fare il tempo, o il tempo a fare il calendario?, mi chiedo in questi giorni che scivolano fra la fine e l’inizio, momento nuovo e antichissimo che riconnette le feste a rituali arcaici in cui ai cicli dei raccolti che maturano, della terra che prende e rende nel tempo di una rivoluzione attorno al sole, si legano scaramanzie volte a propiziarsi la fortuna – non si gioca ancora a tombola, nei giorni che seguono il solstizio d’inverno? Anno viene dal latino annus, e la particella an descriverebbe un circolo, come in annulus, il nome latino per anello; calendario, invece, dal nome romano delle calendae, i primi giorni di ogni mese, ovvero i giorni in cui si regolavano i debiti e si aggiornavano i libri contabili, perché maturavano gli interessi: a inserire una puntuazione, umana, molto umana, nella ciclicità incommensurata dell’eterna rivoluzione del pianeta attorno al sole.
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E certo, c’è sempre un margine arbitrario, una forzatura artificiale, nel computo segnalato dal calendario – del resto il calendario gregoriano, quello cui generalmente facciamo riferimento noi, calendario solare adottato dalla maggioranza dei Paesi nel mondo, è solo uno di molti calendari esistenti, che volta a volta prendono a modello l’osservazione lunare che scandisce le settimane, oppure quella solare dell’anno tropico, leggermente sfasato rispetto al ciclo lunare, o ancora una prospettiva lunisolare, a mediare fra le due. Che contano gli anni a partire da eventi storici differenti, e in maniera diversa tendono a riassorbire lo scarto fra cicli e calcoli.
Nel caso del calendario gregoriano, aggiungendo un giorno a ogni anno divisibile per 4, tranne gli anni secolari non divisibili per 400: anni bisestili – come questo 2024 che comincia – che, come tutto quello che è diverso, si richiamano una fama equivoca. Anno bisesto, anno funesto: l’ultimo è stato il 2020, io sono più procrastinatrice che superstiziosa ma capisco bene gli scongiuri. Alla fine del Cinquecento, per pareggiare i conti e riportare per quanto possibile gli inizi delle stagioni a coincidere con gli eventi astronomici corrispondenti, fu necessario cancellare una decina di giorni: chi andò a dormire la sera del 4 ottobre 1582, un giovedì, si svegliò serenamente la mattina dopo, solo che era venerdì 15. Il calendario da giuliano era diventato gregoriano, in Italia, Francia, Spagna e Portogallo.
Per un procrastinatore un incubo, anzi, un avverarsi della propria strategia distruttiva. Eppure, trovo qualcosa di consolante, in questo senso di arbitrarietà. Come se ci ricordasse che abbiamo, dopotutto, un potere su quello che ci accade, nel momento in cui possiamo pensarlo e dargli un nome, una misura; persino festeggiarlo, come festeggiamo il capodanno. In una notte perduta nella stagione che per gli antichi rappresentava la notte dell’anno – l’inverno, il momento in cui tutto sembra finito, e invece comincia a rinascere. Naturalmente anche la data del capodanno è arbitraria; ed è curioso pensare che fino alla riforma del calendario voluta da Giulio Cesare la celebrazione dell’inizio dell’anno fosse più vicina all’equinozio di primavera che al solstizio d’inverno: ma le idi di marzo, l’antico capodanno, oggi le associamo alla data dell’uccisione di quello stesso Cesare che anticipò le feste all’inizio di gennaio, il mese di Giano, dio bifronte della fine e dell’inizio.
L’idea di una rinascita, di una rigenerazione, è così fondamentale per tutti noi che sappiamo quanto sia faticoso risalire, vivendo, il corso del tempo, che abbiamo, credo, inventato ciascuno un proprio modo di pensare il nuovo inizio: chi lo fissa al proprio compleanno, magari con un poco di egocentrismo, chi al primo gennaio; chi, come me e come molti, per un’inveterata abitudine che si collega all’infanzia e ai giorni in cui ricominciava la scuola, a settembre. Ma le feste, con i loro rituali apotropaici – da cui i nostri fuochi d’artificio, bisnipoti di celebrazioni mirate a tener lontani gli spiriti maligni – le collochiamo ancora in un punto preciso dell’inverno.
E così, se a settembre risentiamo la tentazione di correre in cartoleria a comprarci un diario, ma poi raramente lo facciamo (magari rimandiamo!), a gennaio senza muovere un dito riceviamo in dono una quantità di strumenti atti a misurare il tempo – calendari di ogni foggia, persino quello dei cani che fanno la cacca sullo sfondo di paesaggi sublimi, persino quello dei prelati attraenti, e poi quello sponsorizzato dalla panetteria o dal parrucchiere; e agende e agendine, diari, come se dovessimo almanaccare fin da subito sul nostro prossimo futuro, quando ancora siamo nelle sabbie mobili del presente in cui non sappiamo stare, a chiederci come abbiamo fatto a non concludere niente; a interrogarci sul proliferare, ancora in quest’anno che per qualcuno sarà il 2024 e per qualcuno l’anno del Drago, di questi strumenti per misurare il tempo, per controllarlo.
Forse rassicurano qualcuno? Di sicuro non noi, non noi che procrastiniamo e che stiamo per scivolare in quel momento liminale in cui torniamo a illuderci di poter azzerare i nostri debiti con il passato, ripartire da zero, tuffarci a capofitto fra i buoni propositi. Il risveglio sarà duro, lo sappiamo, eppure, anno dopo anno, l’illusione ci aiuta a superare la porta di gennaio, l’inizio dell’anno nuovo. Quei mesi fra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera, che nell’antichità erano disseminati di feste proprio perché erano mesi di passaggio: da sempre gli esseri umani hanno avuto bisogno di riti, per scandire il ciclico trascorrere del tempo.
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E oggi – oggi che abbiamo costruito con ostinazione autodistruttiva una serie di dispositivi che ci illudono di non aver più niente a che fare con il ritmo della natura, unica sicura misura del tempo – che ne è dei rituali che, ha scritto Mircea Eliade, hanno tutti la capacità di svolgersi adesso, nel presente? In gran parte, le feste sono diventate occasioni commerciali, una gigantesca compravendita di oggetti e doni: nella distopia non poi così distopica, o meglio, non così irrealistica, messa in scena da Naomi Alderman nel suo romanzo Il futuro (Feltrinelli, traduzione di Francesca Pè) compare un centro commerciale dal nome non certo casuale – né irrealistico – di Seasons Time, dove «è sempre il tuo momento», come recita lo slogan, i saldi di gennaio tornano una volta ogni ottantacinque ore e durano sessanta minuti, e il Día de muertos, San Valentino, la Fioritura dei ciliegi corrispondono non a eventi situati nel tempo (e nello spazio) ma a spazi di vendita in cui si smerciano gadget tematici a ciclo continuo.
Però, dei riti e dei rituali, nella forma che ci riconnette allo scorrere del tempo, continuiamo ad avere bisogno. Come sostiene il saggio Pippo in Pippo e il tempo, fumetto deliziosamente filosofico del dicembre 1984: «Per fortuna che il tempo è stato inventato! Pensate come sarebbe stata difficile la vita se non avessimo lo scandire del tempo!». Non sarebbe mai ora di pranzo, mai ora di cena, continua il filosofo. E non sarebbe mai capodanno, aggiungerei. Anche se ora, quasi quasi, schiaccio rinvia per vedere che succede.
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