La Camera ha approvato la legge di bilancio
I principali interventi riguardano il taglio del cuneo fiscale e l'accorpamento delle aliquote IRPEF
Venerdì sera la Camera dei deputati ha approvato definitivamente la legge di bilancio, cioè il provvedimento con cui viene deciso come spendere le finanze pubbliche a disposizione per l’anno seguente. Anche quest’anno, come l’anno scorso e quasi tutti gli anni precedenti, l’approvazione è arrivata a ridosso della scadenza, cioè il 31 dicembre. La forma finale della manovra è stata di fatto decisa prima dal governo che ha presentato il disegno di legge lo scorso ottobre, e poi dal Senato che l’ha analizzato in commissione Bilancio ed emendato e votato in aula.
L’esame della manovra al Senato si è concluso una settimana fa, quindi la Camera non aveva tempo per modificare nulla: se lo avesse fatto il testo sarebbe dovuto tornare al Senato per essere ridiscusso, e la scadenza del 31 dicembre non sarebbe stata rispettata. Il disegno di legge di bilancio è stato approvato con 200 voti favorevoli, 112 contrari e 3 astenuti.
Nella sua parte più consistente la legge di bilancio è rimasta quella voluta dal governo, a cui Banca d’Italia, Confindustria, ISTAT e altri istituti hanno riconosciuto un approccio prudente e responsabile. C’erano poche risorse disponibili, bisognava fare delle scelte non facili, e in questo difficile esercizio il governo ha avuto l’accortezza di rinunciare ad alcune suggestioni elettorali, per esempio le pensioni anticipate.
La gran parte dei soldi stanziati è stata concentrata sul taglio del cuneo fiscale e contributivo per i lavoratori dipendenti, a cui sono destinati 15 dei circa 25 miliardi della manovra. Il taglio del cuneo fiscale è la riduzione delle imposte e dei contributi che si applicano sugli stipendi, quindi in sintesi il governo vuole diminuire la differenza tra stipendio lordo e stipendio netto. Parliamo di una riduzione dei contributi del 7 per cento sulle retribuzioni imponibili fino a 1.923 euro al mese e del 6 per cento per quelle fino a 2.692 euro al mese. La riduzione vale solo per il 2024.
Un’altra misura significativa adottata dal governo, anche questa riconducibile all’obiettivo di “ridurre le tasse”, è l’accorpamento delle aliquote IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche. Questa misura è però contenuta nel decreto legislativo di attuazione della riforma fiscale, approvato ieri dal consiglio dei ministri: per il 2024 costa circa 4 miliardi e consiste in una prima, parziale ristrutturazione del sistema fiscale italiano. In sintesi: per i primi 28mila euro di reddito si pagherà il 23 per cento di IRPEF, mentre prima si pagava il 25 per cento tra i 15 e i 28 mila.
Per ciò che riguarda le pensioni, uno degli ambiti più discussi nelle settimane precedenti all’approvazione del disegno di legge, la legge di bilancio prevede il sistema Quota 103, che dovrebbe permettere di andare in pensione a chi ha almeno 62 anni e ha maturato 41 anni di contributi pagati nel corso della carriera lavorativa. La contestata modifica al calcolo delle pensioni del personale sanitario è stata eliminata durante l’esame in Senato.
Un’altra misura riguarda l’aumento della cedolare secca (cioè l’imposta sostitutiva dell’IRPEF che possono pagare i proprietari di immobili) dal 21 al 26 per cento per gli affitti fino a 30 giorni, dal secondo immobile in affitto in poi.
La legge di bilancio contiene poi fondi per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, uno dei progetti più costosi e contestati della storia italiana, che il governo di Meloni ha detto di voler sostenere. La legge prevede che fino al 2032 verranno destinati alla costruzione del ponte circa 11,6 miliardi, con una riduzione degli oneri a carico dello Stato per 2,3 miliardi, che verranno recuperati dal Fondo di sviluppo e coesione.
Ci sono anche i sostegni alla natalità e all’occupazione femminile. In questo caso le misure sono molto meno costose – si parla di 1 miliardo di euro complessivi – ma hanno un alto valore simbolico, visto che il governo fa del contrasto alla denatalità e del sostegno alla “famiglia” un impegno primario della propria azione. Nel concreto, la legge di bilancio stabilisce che venga trasferita a carico dello Stato la quota di contributi lavorativi riferiti alle donne con almeno due figli: una detassazione che nel caso di donne con due figli varrà fino a che il figlio più piccolo non abbia compiuto dieci anni, e invece per le donne con almeno tre figli fino a che il più piccolo non diventi maggiorenne.
Il processo di approvazione della manovra in ogni caso non è stato semplice, nonostante le intenzioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Per evitare i soliti ritardi che puntualmente fanno arrivare i lavori parlamentari a ridosso della scadenza, Meloni aveva imposto ai partiti che sostengono la sua maggioranza di approvare il disegno di legge senza che venisse fatta nessuna modifica al testo votato in Consiglio dei ministri il 18 ottobre scorso. La legge di bilancio doveva essere “inemendabile”: gli unici emendamenti eventualmente ammessi sarebbero stati quelli presentati dal governo stesso per correggere o riequilibrare alcuni interventi previsti nella versione iniziale del disegno di legge.
I partiti di maggioranza si sono assai risentiti di questo approccio, specialmente Lega e Forza Italia, e dopo lunghe e animate discussioni in commissione Bilancio del Senato il governo ha dovuto rivedere la sua posizione, concedendo ai partiti la possibilità di presentare emendamenti.
Per quanto riguarda i partiti di opposizione, si sono messi tutti d’accordo su un unico emendamento per il contrasto della violenza degli uomini sulle donne. L’emendamento è stato presentato da Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Italia Viva e Azione, che hanno scelto di destinare tutte le risorse a loro disposizione – 40 milioni di euro – su un argomento molto sentito, anche per via del femminicidio di Giulia Cecchettin e delle successive proteste e manifestazioni. La maggioranza ha condiviso l’emendamento delle opposizioni, che finanzierà alcune misure specifiche: tra queste il reddito di libertà, ossia un contributo economico di 400 euro mensili per un anno, erogato dall’INPS alle donne vittime di violenza, che dovrebbe servire loro per costruirsi una base di indipendenza.