Perché si parla delle dimissioni di Giancarlo Giorgetti
Il ministro dell'Economia è uscito male dalle trattative in Europa e le opposizioni lo criticano, ma è quasi impossibile che si dimetta
Da alcuni giorni il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è coinvolto in una polemica politica. I partiti di opposizione hanno chiesto le sue dimissioni per una sua presunta irrilevanza all’interno del governo, mentre quelli di maggioranza hanno dimostrato di non voler seguire le sue indicazioni su questioni di cui Giorgetti è direttamente responsabile. Lui si è difeso dicendo che esclude di lasciare il suo incarico, e ha ribadito la sua posizione durante un’audizione alla Camera mercoledì pomeriggio: l’ipotesi che si dimetta al momento è assai poco realistica.
Tutto è iniziato dopo il voto con cui giovedì scorso la Camera ha bocciato la proposta di ratifica della riforma del MES, il Meccanismo europeo di stabilità che garantisce un fondo di protezione finanziaria agli Stati europei che dovessero trovare difficoltà nel trovare risorse sui mercati, e alle banche nel caso in cui dovessero entrare in crisi. Dei 20 paesi aderenti al MES, l’Italia è l’unica che finora non ha ratificato il nuovo trattato: così facendo ne impedisce la piena attuazione, per la quale è necessario che tutti gli Stati che ne fanno parte approvino la riforma.
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Proprio per via di questa posizione ostruzionistica dell’Italia, negli ultimi mesi Giorgetti era stato più volte interrogato sulle intenzioni del suo governo durante le riunioni con gli altri ministri dell’Economia europei, cioè l’Ecofin (una delle dieci formazioni del Consiglio dell’Unione Europea) e l’Eurogruppo (un organo più informale, di cui fanno parte sempre i ministri dell’Economia dei paesi che adottano l’euro). In queste riunioni Giorgetti si era più volte detto sostanzialmente d’accordo sull’opportunità di ratificare il MES, e in due occasioni il suo ministero aveva fornito al parlamento dei pareri tecnici in cui si escludevano effetti negativi sui conti pubblici legati all’entrata in vigore del nuovo MES; al tempo stesso, però, aveva sempre mantenuto una certa ambiguità, ribadendo che nel parlamento italiano non c’era una maggioranza a favore della riforma.
Venerdì scorso, il giorno dopo il voto con cui la Camera aveva respinto la ratifica, intercettato dai cronisti fuori dal Senato aveva detto che «il ministro dell’Economia e delle Finanze aveva interesse che il MES fosse approvato per motivazioni di tipo economico e finanziario», ma che il dibattito politico intorno a questa ratifica aveva assunto toni troppo esasperati, per cui «non c’era aria per l’approvazione».
Secondo i partiti di opposizione, in particolare Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, le parole di Giorgetti denotano una sua irrilevanza politica all’interno del governo, perché se ritiene che prendere una certa decisione tuteli gli interessi del paese non può rassegnarsi a constatare la contrarietà dei partiti di maggioranza: piuttosto, deve cercare di indirizzarli nella direzione da lui auspicata.
Mercoledì 27 dicembre, intervenendo in audizione alla Camera, Giorgetti si è contraddetto un po’ rispetto a quanto aveva detto venerdì scorso. Ha spiegato che per l’Italia non ci sono particolari rischi legati alla mancata ratifica del MES, perché lo stato di salute patrimoniale delle banche italiane è più solido di quello delle altre banche europee. Inoltre ha detto che lui nelle riunioni di governo si era limitato a segnalare che entro la fine dell’anno sarebbe stato doveroso che il parlamento esprimesse una posizione definitiva sul MES, pur sapendo che probabilmente sarebbe arrivata una bocciatura.
In ogni caso, l’incongruenza tra quello che Giorgetti pensa del MES e la scelta fatta dalla maggioranza è risaltata in modo ancor più evidente dal fatto che il partito più ostile alla ratifica del MES è stato la Lega, cioè il partito di Matteo Salvini di cui proprio Giorgetti è vicesegretario e uno dei dirigenti storici più autorevoli. A votare contro la ratifica del MES sono stati infatti la Lega e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, oltre al M5S di Giuseppe Conte, ma il ruolo più attivo nell’esasperare il dibattito ce l’ha avuto la Lega. È stato dunque il suo stesso partito a contraddire Giorgetti in modo abbastanza clamoroso, facendolo apparire alquanto isolato.
Non è una novità. Giorgetti rappresenta infatti da anni la corrente più moderata della Lega. È membro del partito dalla sua fondazione, e ha sostenuto tutte le iniziali battaglie politiche del fondatore Umberto Bossi, compresa quella per la secessione del Nord Italia (che i leghisti chiamavano “Padania”). Col tempo però ha assunto il ruolo del leghista istituzionale, entrando in conflitto con le decisioni del segretario federale Salvini su molti temi senza tuttavia mai contrastarlo apertamente.
Tra i due, negli anni, si è creata una bizzarra dicotomia: mentre Giorgetti era (ed è) fortemente atlantista, cioè convinto della necessità di restare fedeli all’alleanza tra Italia e Stati Uniti, Salvini si dichiarava ammiratore di Putin e a favore dell’uscita dell’Italia dalla NATO; mentre Giorgetti auspicava l’avvicinamento della Lega ai partiti moderati del centrodestra del Partito popolare europeo (PPE), Salvini rinnovava l’alleanza coi partiti di estrema destra ed euroscettici; mentre Giorgetti lodava l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, Salvini contribuiva in modo decisivo a far cadere il governo di Mario Draghi; mentre Giorgetti si diceva preoccupato per l’eccessiva spesa pensionistica, Salvini auspicava interventi che avrebbero aumentato la spesa pensionistica, come Quota 100 o Quota 41.
Meloni ha voluto nominare proprio Giorgetti ministro dell’Economia anche per via di questa dialettica interna alla Lega. Lei sapeva che Salvini avrebbe con ogni probabilità teso a criticare il governo pur facendone parte, per recuperare consenso ai danni di Fratelli d’Italia, e per farlo avrebbe quindi preteso dal ministro dell’Economia maggiori spese per finanziare i progetti cari al suo elettorato, anche a costo di andare contro le indicazioni dell’Unione Europea.
Dopo che diversi autorevoli economisti avevano rifiutato l’incarico offerto loro da Meloni, in seguito alla vittoria delle elezioni politiche nel settembre del 2022 Meloni aveva indicato Giorgetti: così facendo, le eventuali richieste di Salvini per maggiori spese o per una maggiore fermezza contro la Commissione Europea sarebbero ricadute proprio su un ministro della Lega. È un po’ quello che è successo con il MES: la radicalità delle posizioni della Lega, alimentata in particolare da alcuni esponenti euroscettici come Claudio Borghi e Alberto Bagnai, ha messo in difficoltà lo stesso Giorgetti.
Ma Giorgetti in questa fase è indebolito anche da un’altra questione sempre relativa all’Europa e a temi economici: la riforma del Patto di stabilità e crescita, cioè la definizione delle nuove regole fiscali e di bilancio europee.
Ad aprile la Commissione Europea aveva presentato una sua proposta di modifica del Patto, e da allora si era aperto un negoziato tra i vari Stati membri per approvare il nuovo quadro normativo, con una tensione crescente tra i paesi più rigorosi come la Germania e quelli che chiedevano una maggiore flessibilità sui conti pubblici come l’Italia o la Francia. Il governo Meloni si era impegnato a ottenere delle concessioni molto ambiziose e poco realistiche: chiedeva, cioè, che le spese fatte per sostenere gli investimenti strategici, come quelli sulla difesa o la transizione ecologica e digitale, non venissero computate nel calcolo del deficit, che è il disavanzo annuale tra uscite ed entrate del bilancio dello Stato. Giorgetti aveva tenuto una tattica un po’ equivoca nei negoziati: da un lato aveva lasciato intendere che alcune rivendicazioni italiane erano insostenibili, ma dall’altro aveva minacciato di ricorrere al veto per impedire l’approvazione del nuovo Patto di stabilità, che richiede invece l’unanimità dei 27 Stati membri dell’Unione Europea.
Mercoledì scorso il negoziato si è concluso. I ministri dell’Economia e delle Finanze europei, riuniti in videoconferenza, hanno approvato il nuovo Patto anche grazie al fondamentale accordo tra Francia e Germania raggiunto poche ore prima. L’Italia non ha messo il veto e ha accettato la mediazione finale. Subito dopo l’annuncio dell’adozione del nuovo Patto di stabilità, però, è stata la stessa Meloni a dirsi non molto soddisfatta del risultato raggiunto, pubblicando un comunicato in cui esprimeva «rammarico» per il mancato accoglimento di alcune richieste del governo italiano. Tutto questo è avvenuto il giorno prima del voto alla Camera sul MES.
Il principale responsabile del negoziato è stato Giorgetti, e l’insuccesso della tattica sua e del governo è evidente se la si paragona alla prima proposta di modifica del Patto formulata dalla Commissione Europea ad aprile. Pochi giorni dopo la presentazione di quella proposta Giorgetti aveva dato un’intervista in cui diceva di ritenere possibili dei miglioramenti introducendo una deroga agli investimenti strategici: «Penso proprio che spazi di trattativa ci siano perché la richiesta di un trattamento diversificato per gli investimenti ha una ragione logica inoppugnabile». Mercoledì, durante il suo intervento alla Camera, il ministro ha riconosciuto che il Patto di stabilità appena approvato è in realtà peggiore per l’Italia rispetto alla versione proposta dalla Commissione Europea ad aprile.
Comunque, nonostante le questioni del MES e del Patto di stabilità lo abbiano in parte delegittimato, Giorgetti ha ancora la fiducia della presidente del Consiglio e di certo non rischia il posto, malgrado le pressioni dei partiti di opposizione. Sostituire il ministro dell’Economia comporta la necessità di ridefinire gli equilibri e gli assetti generali di tutto il governo, cosa che avrebbe conseguenze difficili da controllare e prevedere, e che in ogni caso indebolirebbe la tenuta dell’intera maggioranza.
Peraltro il caso del MES non è il primo in cui Giorgetti si è scontrato con la maggioranza parlamentare o con il suo stesso governo.
Lo scorso 7 agosto, per esempio, il Consiglio dei ministri ha approvato una norma con lo scopo di introdurre una tassa straordinaria sui cosiddetti extraprofitti bancari, cioè i maggiori guadagni ottenuti dalle banche anche grazie all’aumento dei tassi di interesse su mutui e prestiti avvenuto nell’ultimo anno. La materia era di evidente competenza del ministro dell’Economia. Giorgetti però è stato informato della decisione di Meloni a cose fatte, poche ore prima dell’inizio del Consiglio dei ministri. Non si è opposto, ma ha lasciato trapelare qualche personale perplessità tramite il suo staff. Un mese più tardi Giorgetti ha detto che la nuova tassa era «giusta», ammettendo però che era probabilmente inopportuna e che sicuramente era stata comunicata male, cioè senza preavviso e senza una consultazione tra il governo e le principali banche italiane.
Un altro episodio che aveva provocato una tensione ancora maggiore tra Meloni e Giorgetti è dello scorso maggio: la nomina del nuovo comandante generale della Guardia di Finanza. È una figura di grande rilievo che viene designata dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Economia, che è il responsabile dell’attività di quel corpo.
Giorgetti avrebbe voluto esercitare un diritto di scelta che gli era riconosciuto dalla legge, ma Meloni aveva cercato in ogni modo di imporre una persona di sua scelta, Andrea De Gennaro. Giorgetti si era opposto proprio durante il Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto ufficializzare la nomina, e che quindi si era concluso con un rinvio. Alla fine però Meloni aveva avuto la meglio, e anche in quel caso era circolata fugacemente l’ipotesi che Giorgetti si dimettesse.