Se non staccate le etichette questi flaconi non vengono riciclati
Le tecnologie per riciclare la plastica influenzano il marketing e il design dei prodotti, ma anche il contrario
di Simone Fant
Negli scaffali dei supermercati si trovano sempre più spesso imballaggi di plastica interamente avvolti da etichette, a loro volta di plastica, su cui è riportato, scritto in piccolo, un messaggio come: «Strappa qui per riciclare separatamente l’etichetta e il flacone». Per lo più sono usati per contenere prodotti detergenti, come quelli per il bucato o le stoviglie, ma anche per alcuni tipi di bevande. L’istruzione raccomanda di separare etichetta e flacone prima di gettarli nel cestino per la raccolta della plastica perché i due imballaggi sono fatti di polimeri diversi e solo se vengono divisi possono essere riciclati.
Non ci sono dati o ricerche per sapere quante persone seguano effettivamente l’indicazione, ma la divisione dei rifiuti sarebbe sicuramente più semplice e immediata per i consumatori se le etichette dei flaconi fossero fatte in modo da non richiedere quest’operazione, che probabilmente molti non sanno essere indispensabile per assicurare il riciclo. Ci sono però delle ragioni per cui certe aziende scelgono questa combinazione di imballaggi, che può apparire poco ragionevole. È spesso una soluzione di compromesso: permette di usare flaconi fatti di plastica riciclata, come potrebbe essere imposto dalle regole europee nei prossimi anni, e al tempo stesso di nasconderne i colori opachi con tonalità più accese e brillanti, più adatti a richiamare l’attenzione nei supermercati.
Quando si progetta un imballaggio, che sia di plastica o altri materiali, si devono tenere in considerazione tanti aspetti, alcuni dei quali possono renderne più o meno complicato lo smaltimento. La funzione principale di una confezione è quella di proteggere il proprio contenuto, per esempio preservando un alimento o liquido da contaminazioni esterne, o rendendo sicuro il trasporto di un dispositivo elettronico fragile. «È molto più grave il danno ambientale creato dalla perdita del prodotto piuttosto che quello derivato da un imballaggio non riciclato, soprattutto in campo alimentare e nell’elettronica» spiega Laura Badalucco, docente specializzata in packaging design all’Università Iuav di Venezia.
Alimenti come il latte se esposti alla luce si degradano, e per conservarli più a lungo sono necessari contenitori opachi o colorati che spesso complicano il processo di selezione dei rifiuti. L’esigenza di conservazione riguarda meno l’acqua minerale che infatti solitamente viene venduta in bottiglie fatte di un polimero trasparente, sebbene non manchino versioni colorate. «In un mondo ideale non si dovrebbero mescolare polimeri di colori differenti perché così facendo gli standard di trasparenza della plastica riciclata non possono raggiungere quelli della plastica vergine, di conseguenza non è riutilizzabile per una stessa applicazione di imballaggio», dice Badalucco.
Badalucco fa riferimento al termine inglese “downcycling”, usato per descrivere i casi in cui il risultato del processo di riciclo è meno pregiato e valido dal punto di vista commerciale rispetto alla versione vergine. Mentre il riciclo del vetro e dell’alluminio consente di ottenere nuovi imballaggi del tutto equivalenti a quelli di partenza, con la carta e la plastica non si ottiene quasi mai la stessa qualità.
Con la plastica si possono ottenere materiali riciclati di resa maggiore o minore a seconda della selezione che si riesce a fare. Recuperare solo scaglie di polimeri trasparenti permetterebbe di rifare bottiglie di plastica trasparenti per esempio, ma se gli impianti non suddividono il flusso di imballaggi anche per colore la plastica riciclata risulta in genere grigia, verde o marrone, a seconda del mix di colori. Si cerca di separare la plastica trasparente e quella bianca dal resto, ma non è economicamente vantaggioso creare linee di riciclo diverse per ogni colore di plastica diffuso in commercio.
Non essendo apprezzati dalle aziende dei prodotti da confezionare perché giudicati poco attraenti, questi polimeri sono tendenzialmente utilizzati dove non si vedono, per esempio per alcuni componenti interni delle auto. Oppure appunto sotto grosse etichette sgargianti. La plastica si può colorare usando degli additivi, che però possono solo scurire i polimeri: la plastica riciclata dunque non può essere più trasparente o chiara di quella da cui è stata ottenuta. Per questo il PET trasparente delle bottiglie d’acqua minerale e il bianco delle poliolefine delle taniche per quella distillata non si possono produrre con la plastica riciclata.
Negli impianti di riciclo meccanico della plastica i rifiuti vengono separati e selezionati da sensori ottici a infrarossi che riconoscono il tipo di polimero di cui è fatto ogni imballaggio. Rimuovere l’etichetta dai flaconi che ne sono interamente ricoperti consente a questi sensori di indirizzare i due imballaggi verso il flusso corretto. Attualmente infatti nella fase di selezione viene analizzata la superficie del rifiuto. Se non si stacca l’etichetta coprente, finiscono tra le pile di rifiuti che non si possono riciclare e sono destinati all’incenerimento. Riciclare la plastica degli imballaggi è un’opzione considerata preferibile all’incenerimento perché complessivamente riduce le emissioni di gas serra nell’atmosfera, la causa del riscaldamento globale.
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Un altro limite degli impianti di riciclo riguarda gli imballaggi neri: assorbono tutta la radiazione infrarossa usata dai sensori e per questo non sono rilevati dai sensori ottici.
Eliminare i colori dagli imballaggi però è considerata una cosa impensabile a livello industriale perché, al di là della conservazione di latte e altri prodotti, un altro scopo importante degli imballaggi è invogliare l’acquisto di ciò che contengono. Oltre ad assolvere funzioni protettive e di conformità alle normative, servono per essere notati, riconoscibili e apprezzati. Per questo le aziende li vogliono multicolori e sgargianti anche se così non soddisfano i criteri degli impianti di riciclo.
«Alcuni grandi marchi sono diventati riconoscibili grazie ai colori ed è impensabile imporre di eliminarli», dice Luca Stramare, specialista di design e riciclo presso Corepla, il consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica. «Inoltre gli imballaggi diventano riciclabili solamente se c’è alla base una sostenibilità economica, perché se un tipo di polimero rappresenta lo 0,1 per cento della raccolta differenziata, allora non ha senso investire nel suo riciclo».
Sono sei i principali polimeri che vengono riciclati e venduti sul mercato: PET (quello per esempio delle bottiglie di plastica), HDPE (quello tipico dei tappi o dei flaconi di detersivo), PP (quello dei contenitori per alimenti), LDPE (quello dei sacchetti per l’immondizia), PS (il polistirolo) e PVC (con cui si fanno i tubi). Per gli altri, a causa della loro limitata domanda, ci sono meno investimenti.
Nei paesi dell’Unione Europea le cose potrebbero cambiare già nel corso del 2024, se sarà approvata una proposta di regolamento che dal 2030 obbligherà i produttori a utilizzare almeno il 35 per cento di plastica riciclata per ogni tipo imballaggio. La norma dovrebbe aumentare la domanda di polimeri riciclati e, potenzialmente, gli investimenti nel riciclo di quelli che finora non sono riutilizzati. La proposta di regolamento prevede inoltre che nulla, colorazione inclusa, dovrà ostacolare i processi di raccolta, selezione e riciclo degli impianti dal 2035 in poi.
Nel 2022 l’Unione Europea ha approvato anche un regolamento che prevede l’introduzione di una specie di passaporto digitale per i prodotti. Tramite un QR code riportato sull’imballaggio si potrà accedere a tutte le informazioni sul prodotto in questione e sulla sua confezione: dalle istruzioni per un corretto smaltimento alle certificazioni ambientali. Con questo codice alcune etichette di prodotti detergenti potrebbero essere ridotte rendendo più agevole la lettura dei sensori ottici, ma non è detto che accada visto che i produttori potrebbero non voler rinunciare alle immagini e ai colori che negli anni hanno reso riconoscibile il loro prodotto agli occhi dei consumatori.
Sono questioni di marketing coesistenti e in una certa misura contrastanti che alcune aziende stanno già affrontando: apparire impegnate nel rispetto per l’ambiente usando materiali riciclati e mostrando di facilitare il riciclo, e scegliere un’estetica degli imballaggi che inviti agli acquisti.
Badalucco insegna ai suoi studenti che un imballaggio fatto interamente di un solo materiale sarebbe l’ideale. Dove questo non sia possibile per ragioni di conservazione del contenuto, si dovrebbe pensare a materiali che siano facilmente separabili. Non è un design intelligente per esempio il contenitore di una bevanda costituito da componenti (bottiglia, etichetta, tappo e cappuccio) fatti di quattro polimeri diversi.
L’accoppiata composta dalle bottigliette in PET e dai tappi in HDPE, che sempre più spesso sono progettate in modo da essere inseparabili per evitare la dispersione dei tappi nell’ambiente, non crea problemi agli impianti di riciclo perché la densità dei due polimeri è diversa e si possono separare agilmente per galleggiamento. In sostanza le bottigliette coi tappi attaccati vengono sminuzzate in piccole scaglie che poi finiscono in vasche d’acqua: le scaglie dei tappi rimangono a galla mentre quelle della bottiglia vanno a fondo, e così i due materiali sono indirizzati verso flussi di riciclo diversi. Dal luglio del 2024 tutte le bottiglie di plastica dovranno essere fatte in questo modo in tutta l’Unione Europea.
La densità dei polimeri è un elemento determinante nei processi di riciclo e per alterarla basta poco. Per esempio aggiungendo del carbonato di calcio a un polimero che solitamente si recupera per galleggiamento se ne aumenta la densità, e così il polimero va a fondo e viene perso tra gli scarti. Valutare la composizione chimica della plastica è quindi un altro aspetto importante da considerare nella fase di progettazione degli imballaggi.
«Bisogna ragionare con la logica della cassetta degli attrezzi. Per ogni prodotto si dovrebbe scegliere l’imballaggio più adatto alla filiera di distribuzione e compatibile con il processo di selezione e riciclo», dice Stramare.
In futuro poi questi processi potrebbero diventare più efficienti grazie a nuovi sistemi di selezione. Una tecnologia basata sulla cosiddetta intelligenza artificiale creata dalla startup britannica Greyparrot traccia e riconosce 67 categorie di rifiuti che passano al vaglio dei centri di smistamento. Il sistema è in grado di differenziare oggetti solitamente complessi come la plastica colorata di nero e le etichette coprenti, riconoscendo immediatamente il tipo di rifiuto e quanto si presti al riciclo, segnalando gli imballaggi più complessi da recuperare. «Possiamo valutare in tempo reale se un prodotto viene selezionato correttamente oppure se finisce nelle discariche o nel termovalorizzatore» dice Tiziana Giordano di Greyparrot.
Per certi polimeri che appaiono estremamente simili tra loro all’occhio umano, come il polipropilene (PP) e il polietilene (PE), anche la differenziazione tramite intelligenza artificiale fa ancora degli errori: la tecnologia a sensori ottici a infrarossi, nonostante i limiti, è ancora fondamentale.
Da una parte c’è l’esigenza delle aziende di creare imballaggi unici e originali, dall’altra ci sono i criteri di riciclo richiesti dall’Unione Europea e pensati per rendere più sostenibili i consumi. Il compito dei designer è sempre di più trovare un giusto compromesso tra le due necessità, tanto che oggi la progettazione degli imballaggi per tenere conto del loro smaltimento e riciclo è oggetto di specifici corsi universitari.
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