Venti dischi del 2023 che vale la pena ascoltare
Tra quelli scelti come i migliori dell'anno dalle riviste di musica: dalle boygenius agli Yo La Tengo
Quella di compilare classifiche dei migliori dischi dell’anno è un’attività consolidata a cui si dedicano praticamente tutte le riviste e i siti di musica, e anche molti di quelli generalisti. La pretesa di individuare quali siano davvero i più belli usciti negli ultimi dodici mesi è discutibile, ma consultare questi elenchi è un modo per vedere a cosa presta attenzione in questo momento storico la critica – i vari tipi di critica, da quella più mainstream a quella più di nicchia – e per scoprire dischi che ci si è persi, nella mole di nuove uscite settimanali.
Come ogni anno (qui il 2022, 2021 e 2020), abbiamo quindi raccolto venti dischi che compaiono ai primi posti delle liste di diverse testate, da quelle più rispettate come The Wire a quelle che seguono più assiduamente i musicisti da classifica o comunque di moda, come Pitchfork. Tra le altre testate considerate ci sono Crack, Rough Trade, The Quietus, NME, Mojo, Consequence of Sound, Fader, Clash, il New York Times e Time Out.
Yo La Tengo – This Stupid World
Una delle band di maggiore culto degli anni Novanta ha pubblicato quello che secondo The Wire, forse la più autorevole rivista musicale al mondo, è il miglior disco del 2023. Gli Yo La Tengo vengono da Hoboken, New Jersey, e ruotano attorno ai coniugi Ira Kaplan e Georgia Hubley: con Painful del 1993 e I Can Hear the Heart Beating as One del 1997 si affermarono come una delle band più raffinate della scena del rock alternativo americano, sviluppando una fanbase molto affezionata. This Stupid World è un disco che ai fan è sembrato subito un classico del loro repertorio, e contiene tutte le loro caratteristiche distintive: chitarre onnipresenti, spesso distorte e ossessive, melodie dolci, testi crepuscolari e malinconici. Secondo The Wire, è il loro album migliore in oltre vent’anni, e «suonano magnifici come non mai».
boygenius – the record
La band che hanno messo insieme le cantautrici statunitensi Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus è stata una dei fenomeni musicali del 2023. Tecnicamente è un “supergruppo”, visto che tutte e tre sono già molto affermate specialmente tra il pubblico più giovane della musica che un tempo si sarebbe definita indie rock. Avevano già pubblicato qualcosa nel 2018, ma con the record hanno raggiunto un enorme successo di pubblico e critica: è il disco dell’anno per la storica rivista inglese NME, secondo cui Baker, Bridgers e Dacus sono tra le tre cantautrici più incisive della loro generazione.
billy woods & Kenny Segal – Maps
Billy Woods è di New York ed è figlio di una intellettuale giamaicana e di uno scrittore marxista dello Zimbabwe che prese parte alla rivoluzione e poi al primo governo indipendente del paese negli anni Ottanta, guidato già da Robert Mugabe. È attivo nella scena hip hop newyorkese fin dagli anni Novanta, ma è sempre rimasto un personaggio misterioso. Cerca di non farsi vedere in faccia e ha iniziato una carriera solista solo una decina di anni fa, dopo aver fatto parte a lungo di un gruppo. Da alcuni anni è una delle figure più rispettate del rap colto americano, anche se ormai ha scavallato attirando l’attenzione anche delle testate più grandi. Maps è la seconda volta in cui ha collaborato col producer Kenny Segal: è un disco cupo, riflessivo, ma comunque il suo più accessibile secondo la rivista Fader, che l’ha messo al quarto posto della sua classifica.
Arooj Aftab, Vijay Iyer & Shahzad Ismaily – Love in Exile
Arooj Aftab è una cantante e compositrice pakistana di 38 anni che nel tempo si è dedicata al jazz, al folk, alla musica minimalista e alla reinterpretazione delle tradizioni musicali dell’Asia centrale. È cresciuta tra Arabia Saudita e Pakistan tra gli anni Novanta e Duemila, quando ascoltare la nuova musica occidentale era piuttosto difficile, così come emergere proponendo musica contemporanea, figurarsi per una giovane donna. Si trasferì poi negli Stati Uniti, dove pubblicò i suoi primi dischi, cantati in lingua urdu, che si fecero notare tra gli altri da Barack Obama, che incluse una sua canzone in una delle sue ricorrenti playlist estive. Per Love in Exile ha collaborato con Vijay Iyer, che è un importante compositore americano di origini tamil, e con il polistrumentista americano di origini pakistane Shahzad Ismaily. Sul New York Times Jon Pareles l’ha scelto tra i suoi dieci dischi preferiti dell’anno, scrivendo che i tre musicisti «cominciano con semplicità, poi si ascoltano, e poi succedono delle cose».
Roisin Murphy – Hit Parade
Negli anni Novanta Róisín Murphy era metà dei Moloko, duo di musica dance formato a Sheffield, in Inghilterra. Lei è nata invece in Irlanda, e dagli anni Duemila ha una fortunata carriera da solista, sempre rimasta nei territori del pop elettronico danzereccio e sofisticato. Hit Parade è stato prodotto dal tedesco DJ Koze, e secondo la rivista inglese Clash è uno dei contendenti al titolo di disco dell’anno, «colorato e giocoso come la stessa Róisín Murphy», e «un disco davvero profondo che comunque non si prende troppo sul serio».
Yves Tumor – Praise a Lord Who Chews but Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)
Yves Tumor è il nome d’arte di Sean Lee Bowie, polistrumentista del Tennessee della cui vita privata non si sa molto (si dice che abbia vissuto o viva ancora a Torino, peraltro). Ma da diversi anni pubblica con la storica etichetta inglese Warp Records dischi di rock elettronico sperimentale che accompagna con concerti teatrali e sregolati. L’ultimo è quello che ha riscosso più successo di critica: per Consequence of Sound è il più bello dell’anno. Secondo la rivista Yves Tumor «non ricorda nessuna era specifica del passato, né i suoi contemporanei», e anche se questo suo disco dal nome lunghissimo può sembrare all’inizio soverchiante, «una volta che il groove ha il sopravvento non c’è modo di scappare da questo mondo sonoro inebriante».
Sofia Kourtesis – Madres
È il primo disco di una producer e cantante peruviana che vive a Berlino, arrivato dopo una serie di raccolte di singoli pubblicate negli scorsi anni con cui si era fatta notare. Le canzoni di Madres sono pensate per fare muovere, hanno idee pop ma strutture e suoni della house, e sono piene di elementi della musica sudamericana e ispanica. Una è una collaborazione con Manu Chao, di cui è stata campionata la famosa “Me Gustas Tu”. NME l’ha messo al settimo posto nella sua lista di fine anno, Pitchfork al 24esimo.
Lana Del Rey – Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd
È il nono disco in studio di una delle cantanti statunitensi più originali e dal pubblico più fedele dell’ultimo decennio. La musica di Lana Del Rey è quella che viene definita in inglese “americana”, un genere che si rifà alla tradizione musicale statunitense intesa in senso più ampio, dal folk al country, dal gospel al blues, e che ha spesso avuto le sue manifestazioni più rappresentative negli stati centrali e del sud. Del Rey in realtà è newyorkese ed è cresciuta sulla costa Est, ma si è sempre ispirata ai grandi interpreti degli anni Cinquanta e Sessanta, e ha sviluppato uno stile molto riconoscibile, particolarmente orchestrale e cinematografico e, soprattutto, molto triste. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd non fa eccezione: secondo Time Out, che l’ha messo al primo posto nella sua classifica del 2023, ha i testi «più intimi di sempre».
Fever Ray – Radical Romantics
Karin Elisabeth Dreijer era metà del duo svedese di musica elettronica The Knife, che negli anni Duemila aveva ottenuto un successo notevole, e da un certo punto in poi ha avviato anche una carriera da solista con il nome di Fever Ray. A Radical Romantics, il suo terzo disco, ha lavorato anche il fratello Olof, che era l’altra metà dei Knife, oltre a Trent Reznor e Atticus Ross dei Nine Inch Nails. «Una suite di canzoni di pop elettronico che riflettono le ambiguità, le tensioni e i piaceri dell’amore moderno» ha scritto The Wire, secondo cui «i ritornelli pop e i ritmi adatti ai club si mescolano con una plasticità da gomma da masticare di canzone in canzone, senza ripetersi mai ma lussureggiando negli eccessi delle proprie idee».
Sufjan Stevens – Javelin
Sufjan Stevens, «il più geniale e fantasioso cantautore americano del Duemila», ha avuto un anno terribile: il suo compagno Evans Richardson è morto ad aprile, e lui è stato ricoverato per mesi dopo che gli è stata diagnosticata la sindrome di Guillain-Barré, una grave malattia del sistema immunitario. Ora sta reimparando a camminare, e gli serviranno dei mesi. A ottobre in tutto questo è uscito Javelin, il suo decimo disco in studio, dedicato a Richardson, il primo fatto di vere e proprie canzoni cantate da Carrie & Lowell del 2015. Ed è un classico disco di Sufjan Stevens: struggente e dolcissimo. «Una vita intera di emozioni in 42 minuti» come ha scritto Rough Trade, che l’ha messo al secondo posto dei suoi dischi più belli dell’anno.
Lankum – False Lankum
I Lankum sono una band irlandese in giro da oltre vent’anni e che lo scorso giugno ha suonato anche all’apprezzato festival Beaches Brew di Marina di Ravenna. Sono un gruppo che fa musica tradizionale irlandese, includendo però nella composizione e negli arrangiamenti le influenze del folk più d’avanguardia e sviluppandosi in parte sull’improvvisazione. E sfruttando le caratteristiche di strumenti acustici popolari e antichi, come la ghironda, per costruire atmosfere che ricordano molto quelle della cosiddetta drone music, cioè la musica – spesso metal o elettronica – che si sviluppa su tappeti continui di note molto basse e intense (i “droni”, per l’appunto, detti anche “pedali” o “bordoni”).
C’è un certo fermento intorno a questo revival del folk: un’altra band emersa negli ultimi tempi a fare qualcosa di simile sono i Širom, sloveni. Prima del loro ultimo disco i Lankum erano noti quasi solo nel giro degli appassionati di folk. False Lankum però è stato candidato al Mercury Prize e ha ricevuto ottime recensioni della critica europea più attenta, ed è stato nel suo piccolo un caso piuttosto commentato. The Quietus, rivista online di critica musicale e cinematografica piuttosto rispettata tra gli appassionati di musica sperimentale, d’avanguardia e colta, l’ha scelto come disco dell’anno, come hanno fatto le altre riviste inglesi Uncut e Loud and Quiet. È finito ai primi posti anche nelle liste del quotidiano The Independent e delle riviste MOJO e Crack.
PJ Harvey – I Inside the Old Year Dying
La chitarrista e cantautrice inglese PJ Harvey non pubblicava un disco da ben otto anni. È una delle più carismatiche e talentuose musiciste rock degli anni Novanta, e negli anni ha mantenuto l’ammirazione della critica pubblicando dischi sempre molto diversi l’uno dall’altro, allontanandosi progressivamente dal punk blues con cui era diventata famosa per stabilirsi su suoni e approcci più rock e folk. Secondo il rispettato sito The Quietus, che l’ha messo al secondo posto della sua lista, I Inside the Old Year Dying contiene «molte qualità dell’ultima fase» di PJ Harvey, e ha la sua forza nella «riflessività posata, nella frammentazione e nel mistero». È fatto insieme al suo storico collaboratore John Parish.
JPEGMAFIA & Danny Brown – SCARING THE HOES
Ai suoi concerti, JPEGMafia si esibisce da solo. Ha un laptop su un piedistallo, da cui fa partire manualmente le basi, che produce completamente da solo. I successivi tre minuti li passa di solito a dimenarsi sul palco, a urlare e occasionalmente a lanciarsi nel pubblico. Nato a Brooklyn e cresciuto tra Louisiana e Alabama, è stato una delle novità più commentate degli ultimi anni nell’hip hop, e la sua presenza scenica è diventata rapidamente leggendaria. Danny Brown invece ha 42 anni, è di Detroit ed è uno dei più rispettati artisti hip hop della sua generazione: a novembre è peraltro uscito Quaranta, il suo ultimo disco, che a sua volta è finito in alcune liste di fine anno. Ma a far parlare ancora più di sé era stato Scaring the Hoes, uscito a marzo su Bandcamp, dove era acquistabile su offerta libera. JPEGMafia ha curato tutta la produzione, cioè ha fatto tutte le basi, e secondo la rivista Crack è «un tuffo di 36 minuti in una assenza di leggi sonora (…) Tra l’edonismo nichilista dei suoi protagonisti, una confusa successione delle canzoni e un vasto bacino di influenze, Scaring the Hoes è una reimmaginazione irresistibile di cosa può essere un album rap».
The Necks – Travel
I Necks sono un trio di musicisti australiani sulla sessantina – pianoforte, contrabbasso e batteria – che suonano assieme dalla fine degli anni Ottanta, hanno pubblicato molti dischi e sono conosciuti in giro per il mondo soprattutto dagli anni Duemila. Suonano musica improvvisata, spesso catalogata come jazz, anche se forse rientrano più precisamente nel minimalismo musicale e nella musica colta. I loro pezzi sono lunghi e si sviluppano su ostinati di pianoforte, giri di basso ripetuti all’infinito, e una grande attenzione alla dinamica, cioè la gestione dei volumi e delle intensità sonore. I quattro pezzi di Travel, secondo The Wire, «sembrano autenticamente estemporanei e si evolvono organicamente, come in una jam session tra amici a tarda notte».
SZA – SOS
SZA (si pronuncia siza) aveva fatto finora un solo vero disco, Ctrl del 2017, ma era bastato a renderla una delle più apprezzate cantanti di R&B, particolarmente considerata dalla critica musicale americana. Con questo album ha raggiunto un gran successo anche di pubblico: SOS, uscito a dicembre del 2022, è rimasto in cima alla classifica degli album di Billboard per dieci settimane. Pitchfork l’ha scelto come disco dell’anno, così come il critico Jon Pareles del New York Times, secondo cui le intuizioni che la cantante mette nei testi «sono così naturali da farle sembrare pensate sul momento».
Blur – The Ballad of Darren
Il 2023 è stato anche l’anno dell’atteso ritorno dei Blur, band inglese tra le più amate della storia del rock, che non pubblicava un disco dal 2015. The Ballad of Darren è un po’ un album di una band nostalgica e un po’ un album di una band matura, ed è il risultato dei preparativi ai due storici concerti che la band ha fatto a Wembley a Londra quest’estate. Chi li ha visti, o chi ha visto gli altri in giro per l’Europa, sa quanto il leader Damon Albarn sembri godersi questo momento della sua carriera, e quanto sia incline alla commozione. Secondo NME è il loro miglior disco dagli anni Novanta.
Mitski – The Land Is Inhospitable and So Are We
Mitski si chiama in realtà Mitsuki Miyawaki, nata nel 1990 in Giappone e cresciuta in molti paesi diversi per via del lavoro di diplomatico di suo padre. Oggi però lavora stabilmente negli Stati Uniti, e da diversi anni è tra le cantanti più apprezzate dalle grandi testate musicali. Ha fatto dischi diversi tra di loro, alcuni più rock e andanti, altri più country e lenti, categoria in cui rientra The Land Is Inhospitable and So Are We. Contiene delle ballad dalle atmosfere molto americane, e secondo NME, che l’ha messo al nono posto della sua lista, «non si può negare che Mitski sia una delle migliori cantautrici della sua generazione».
Marina Herlop – Nekkuja
Marina Herlop ha 31 anni ed è catalana, questo è il suo quarto disco e le è valso estesi apprezzamenti sulla stampa specializzata nelle novità più sperimentali e originali. Ha studiato pianoforte al conservatorio, e lo si sente in Nekkuja, un disco che richiede un ascolto concentrato. Crack l’ha messo al decimo posto della sua lista, paragonandolo ai lavori di Björk e della produttrice venezuelana Arca.
Lil Yachty – Let’s Start Here.
Il disco di Lil Yachty ha sorpreso tutti. Lui è un rapper di 26 anni della Georgia, e negli ultimi anni ha animato la scena trap di Atlanta, distinguendosi nettamente rispetto alla concorrenza, spesso mediocre, per un gusto e un’inventiva fuori dal comune. Ma comunque Let’s Start Here. è stato un disco inaspettato, perché praticamente non è un disco rap, ma un mischione di generi diversi in cui si sente soprattutto la componente di rock psichedelico. Il risultato potrebbe suonare derivativo o ingenuo a qualcuno, eppure ha una produzione raffinata, ed è un disco che rappresenta una direzione nuova che sta prendendo l’hip hop, sempre più mescolato con generi che uno non si aspetterebbe.
Caroline Polachek – Desire, I Want to Turn Into You
Caroline Polachek ha 38 anni, è americana ed è stata un tempo la cantante dei Chairlift, una band americana che aveva attirato l’attenzione della critica e dei fan del pop un po’ ricercato. Da diversi anni ha intrapreso la carriera solista, ottenendo nell’ultimo anno una notevole considerazione: è stata in particolare headliner di diversi importanti e riconosciuti festival, dal Primavera Sound di Barcellona al C2C di Torino. Fa sempre un pop elegante che interpreta in modo piuttosto coreografico sul palco. Pitchfork, che l’ha messo al secondo posto della sua classifica, dice che è un album «in cui perdersi comodamente, sapendo che ci sarà sempre qualche tema pop familiare per tornare a orientarsi».