La guerra a Gaza ha messo nei guai le università di maggiore prestigio statunitensi
Manifestazioni di protesta e accuse di antisemitismo e islamofobia sono al centro di un dibattito con estese ripercussioni politiche
Dal giorno dell’attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre in alcune delle più prestigiose università statunitensi, sia pubbliche che private, diversi gruppi studenteschi hanno organizzato manifestazioni di solidarietà per le vittime dell’attacco, da una parte, e di protesta contro le politiche di Israele, dall’altra. Le tensioni crescenti tra i gruppi, spesso contrapposti all’interno dello stesso campus, hanno generato episodi di intolleranza e minacce la cui responsabilità è stata in parte attribuita all’incapacità delle amministrazioni universitarie di gestire quelle tensioni limitando le espressioni di aggressività fisica e verbale.
Il dipartimento dell’istruzione statunitense ha avviato indagini su oltre venti università tra cui Columbia, Harvard, Cornell, Stanford e University of Pennsylvania, in seguito ad alcune denunce per presunti fenomeni di antisemitismo e islamofobia. Le indagini hanno portato il 5 dicembre a un’audizione al Congresso molto discussa, in cui le rettrici di Harvard, del MIT e della University of Pennsylvania sono state duramente criticate per non aver preso esplicitamente le distanze da espressioni e slogan utilizzati dai manifestanti e giudicati antisemiti, e per non aver garantito la sicurezza degli studenti. Quattro giorni dopo l’audizione, su pressione di donatori, politici ed ex studenti dell’università, la rettrice della University of Pennsylvania Elizabeth Magill si è dimessa dall’incarico insieme al presidente del consiglio di amministrazione Scott L. Bok.
Le manifestazioni di protesta nelle università, critiche verso la posizione degli Stati Uniti in politica estera, storicamente vicina a Israele, hanno avuto conseguenze di cui si sta parlando molto. Hanno prima di tutto risollevato la questione della libertà di espressione e dei suoi limiti, da sempre discussa negli Stati Uniti e ancora più complessa in un contesto che dovrebbe teoricamente favorire l’esercizio virtuoso di quella libertà e limitare ogni forma di intolleranza. Le polemiche hanno mostrato inoltre le difficoltà delle università private a difendere determinate scelte senza perdere il sostegno dei loro principali finanziatori. E più in generale il dibattito in corso sta riflettendo e inasprendo divisioni ideologiche presenti già da anni nella politica e nell’opinione pubblica statunitensi.
Le università e l’istruzione negli Stati Uniti sono infatti da tempo un contesto di scontro politico e culturale. Da un lato i progressisti sono accusati di una radicalizzazione e di un’adesione dogmatica a princìpi di sinistra diffusi nelle università prestigiose, in un modo a volte giudicato acritico e inattuale, come nel caso dell’affirmative action, una storica misura di contrasto delle discriminazioni razziali resa incostituzionale a giugno da una decisione della Corte Suprema (a maggioranza conservatrice).
Dall’altro lato i conservatori sono accusati di strumentalizzare il dibattito e alimentare ipocritamente le paure collettive, incluso l’antisemitismo, con l’obiettivo di limitare non soltanto il dissenso ma anche le attività e la circolazione di libri e idee che disapprova nei luoghi di formazione e istruzione, limitando di fatto quella libertà di espressione che sostiene di difendere. Le domande rivolte alle rettrici delle università durante l’audizione parlamentare dalla deputata Repubblicana Elise Stefanik, circolate molto online, sono state da molti considerate tendenziose, formulate con l’intento di ottenere risposte categoriche su questioni sfumate e di fare apparire quelle risposte equivoche o inaccettabili, a una parte dell’opinione pubblica o a un’altra.
– Leggi anche: La complicata questione delle accuse di “genocidio” contro Israele
Le manifestazioni di protesta hanno interessato molte delle università statunitensi più prestigiose al mondo fin dai primi giorni dopo l’attacco. L’8 ottobre 34 gruppi studenteschi a Harvard hanno pubblicato una lettera poi molto contestata, in cui definivano «il regime israeliano interamente responsabile delle violenze in corso» (cinque gruppi hanno poi ritirato la loro firma). La rettrice Claudine Gay è stata criticata per aver condannato pubblicamente le azioni di Hamas solo in un secondo momento, dopo un precedente comunicato in cui aveva indicato la necessità di «più spazio per il dialogo e l’empatia» nelle università.
Pochi giorni dopo la pubblicazione della lettera, un furgone con un cartellone pubblicitario digitale in giro per Harvard Square mostrava i nomi e i volti degli e delle studenti dei gruppi firmatari della lettera, per una campagna di doxxing (la diffusione online di informazioni private) commissionata da un gruppo conservatore. La grafica della pubblicità era accompagnata dalla scritta: «I più importanti antisemiti di Harvard». Intanto un insegnante di diritto alla University of California Berkeley, Steven Davidoff Solomon, ha scritto sul Wall Street Journal un editoriale intitolato «Non assumete i miei studenti antisemiti di diritto», con l’obiettivo di screditare gli studenti sulla base delle loro idee e attività politiche agli occhi di potenziali datori di lavoro.
Altre università hanno ricevuto dai propri finanziatori critiche simili a quelle rivolte a Gay, per la riluttanza a dichiarare pubblicamente un posizionamento esplicito nel dibattito sulla guerra a Gaza, man mano che le manifestazioni filopalestinesi aumentavano nei campus in tutto il paese. Il capo del consiglio di amministrazione della Wharton Business School della University of Pennsylvania, Marc Rowan, che è anche amministratore delegato della società di investimento Apollo Management, ha chiesto le dimissioni dei capi dell’università, sostenuto da altri finanziatori.
A ottobre la Columbia University ha rimandato l’avvio di un’importante campagna di raccolta fondi, temendo le ripercussioni delle manifestazioni sul successo dell’iniziativa. Nelle settimane precedenti centinaia di studenti avevano preso parte a diverse manifestazioni, alcune a sostegno di Israele e altre a sostegno della Palestina, anche quando il 12 ottobre l’università era rimasta chiusa al pubblico per un giorno.
Tra ottobre e novembre le tensioni sono cresciute in modo parallelo in diverse università, mostrando una crescente radicalizzazione del dibattito. L’organizzazione nazionale studentesca Students for Justice in Palestine ha attirato molte attenzioni dopo che alcuni suoi membri hanno proiettato nella biblioteca della George Washington University alcune frasi tra cui «Gloria ai martiri», «Le vostre rette stanno finanziando il genocidio a Gaza» e «la rettrice [Ellen] Granberg è complice del genocidio a Gaza».
Alla Cooper Union di Manhattan alcuni studenti ebrei che si trovavano nella biblioteca dell’università hanno detto di essersi sentiti in pericolo durante una manifestazione di studenti che ha raggiunto gli ingressi della biblioteca. In Florida il capo dell’organizzazione che riunisce le dodici università pubbliche dello stato, Ray Rodrigues, ha scritto che a tutti gli studenti dell’organizzazione Students for Justice in Palestine, da lui accusata di «sostegno al terrorismo», dovrebbe essere negato l’accesso ai finanziamenti universitari. Per questa proposta le organizzazioni non governative American Civil Liberties Union e Palestine Legal hanno poi fatto causa al governatore Repubblicano Ron DeSantis e a Rodrigues per violazione del primo emendamento della Costituzione statunitense, che tutela tra le altre cose la libertà di espressione.
Ci sono stati anche diversi incidenti ed episodi di violenza. Alla Berkeley durante una grande manifestazione filopalestinese uno studente con una bandiera israeliana è stato colpito con una bottiglietta d’acqua. Alla Stanford uno studente arabo musulmano ha detto di essere stato colpito da un SUV mentre camminava all’interno del campus di notte, da un automobilista che è scappato dopo avergli rivolto un’offesa razzista. Lo studente è rimasto illeso, l’università ha aperto un’indagine.
Altri problemi di sicurezza si sono verificati alla Cornell e alla Columbia, entrambe a New York. Nella prima la polizia del campus ha sorvegliato la sede del Center for Jewish Living, un centro ebraico in cui vivono alcuni studenti, dopo che su un forum di confraternite universitarie erano state pubblicate delle minacce rivolte al centro. L’amministrazione della Columbia ha intanto sospeso per il resto del semestre due organizzazioni studentesche, Students for Justice in Palestine e Jewish Voice for Peace, per ragioni di sicurezza, accusando entrambe le organizzazioni di ripetute violazioni del regolamento universitario.
L’8 novembre alla Brown University a Providence, nel Rhode Island, la polizia ha arrestato 20 studenti che avevano occupato l’ingresso dell’università chiedendo un cessate il fuoco immediato e un impegno dell’università a interrompere ogni relazione finanziaria con aziende «che rendono possibili crimini di guerra a Gaza». Altri arresti di manifestanti filopalestinesi sono avvenuti alla University of Michigan.
– Leggi anche: In Europa si comincia a parlare, molto cautamente, di un cessate il fuoco a Gaza
La questione dell’antisemitismo nelle università di prestigio statunitensi è diventata ancora più centrale sui media dopo il 5 dicembre, in seguito all’attesa audizione al Congresso di Gay, Magill e Sally Kornbluth, rispettivamente rettrici di Harvard, University of Pennsylvania e MIT. Il ruolo accademico è più precisamente quello di president, un incarico che nelle università statunitensi coincide in parte con quello del rettore nelle università italiane, ma senza termine e con poteri più ampi. Di solito si conclude o con le dimissioni o con la revoca da parte di un consiglio (board), un organo collegiale che nomina il o la president, definisce le politiche dell’università sul piano finanziario ed è tipicamente composto da persone esterne all’università.
La parte dell’audizione più ripresa dai giornali e più circolata sui social è quella in cui le rettrici sono state interrogate in modo molto diretto e insistente dalla deputata Repubblicana Stefanik. Laureata a Harvard, eletta a New York nel 2014 e molto vicina a Trump, Stefanik è stata a lungo la più giovane donna mai eletta al Congresso prima dell’elezione della democratica Alexandria Ocasio-Cortez nel 2018. Le sue domande sono state definite dal Guardian «un’imboscata» alle rettrici delle università, tesa dopo circa cinque ore di testimonianza.
Rielaborando alcune espressioni circolate nei campus durante le manifestazioni di protesta, Stefanik ha chiesto più volte alle rettrici se «invocare il genocidio degli ebrei» violasse o no gli statuti delle singole università. Gay, Magill e Kornbluth hanno cercato di dare risposte prima di tutto corrette sul piano giuridico e attente alla tutela della libertà di espressione. «Dipende dal contesto», ha detto Gay, una delle più criticate alla fine dell’audizione.
Stefanik ha collegato la parola Intifada, circolata durante le manifestazioni e che in inglese è tradotta generalmente come «rivolta» (uprising), e la parola «genocidio», ultimamente utilizzata spesso in relazione alle conseguenze sui civili dei massicci bombardamenti dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. È un collegamento discutibile, ha spiegato il Guardian, dato che Intifada ha un significato storico definito e non proprio sovrapponibile a quello di genocidio. «Comprende che l’uso del termine “Intifada” nel contesto del conflitto arabo-israeliano è effettivamente un appello alla resistenza armata violenta contro lo Stato di Israele, inclusa la violenza contro i civili e il genocidio degli ebrei?», ha chiesto Stefanik a Gay, motivando il collegamento e quindi la legittimità delle sue domande.
Stefanik ha insomma ricondotto strumentalmente all’antisemitismo le critiche alle politiche di Israele emerse nei campus americani, sovrapponendo questa accusa a quelle di estremismo, marxismo e terzomondismo che da alcuni anni la destra statunitense rivolge con insistenza alle università di élite, nell’ambito della nota polarizzazione del dibattito che si è sviluppata intorno ai concetti di intersezionalismo, antirazzismo e politicamente corretto. Nella strategia sua e di altri esponenti Repubblicani, molti Democratici hanno visto un nuovo tentativo di seminare il panico morale tra i conservatori statunitensi, come successo per esempio con le battaglie per censurare libri su questioni LGBTQ nelle scuole.
Dopo aver dato perlopiù risposte vaghe e in gergo legale, per cui Gay e Magill si sono in seguito scusate, le rettrici hanno ricevuto molte critiche sui media e sui social, con il risultato di indebolire anziché difendere le università rispetto alle accuse di antisemitismo circolate dopo le recenti manifestazioni di protesta. Gay e Kornbluth hanno ricevuto il sostegno dei rispettivi consigli, dopo giorni di incertezza sulla stabilità del loro incarico. Magill si è dimessa il 9 dicembre; il giorno prima un finanziatore della University of Pennsylvania – Ross Stevens, proprietario e fondatore della società di investimento Stone Ridge Asset di New York – aveva annunciato il ritiro di una donazione di 100 milioni di dollari denunciando un «approccio permissivo all’incitamento all’odio» da parte dell’università.
Anche Stefanik è stata criticata, perlopiù dai suoi avversari politici, per un atteggiamento da loro considerato ipocrita. «Chi è Elise Stefanik, per dare lezioni sull’antisemitismo quando è la più grande sostenitrice di Donald Trump, che traffica continuamente con l’antisemitismo?», ha detto il deputato Democratico Jamie Raskin, membro della commissione Vigilanza. «Non disse niente quando Trump invitò Kanye West e Nick Fuentes a cena», ha aggiunto Raskin, riferendosi all’incontro molto discusso tra l’ex presidente e alcuni noti estremisti, suprematisti e neonazisti nel 2022 a Mar-a-Lago, la residenza di Trump in Florida.
Accuse di ipocrisia in un certo senso speculari a quelle di Raskin e rivolte ai progressisti nelle università sono state espresse sull’Atlantic dal rettore della University of Florida Ben Sasse, che ha respinto l’idea «ridicolmente assurda» che le rettrici e i rettori delle università d’élite statunitensi siano campioni della libertà di parola. «Dov’era questo impegno quando il MIT ha cancellato un discorso di un geofisico che si opponeva all’affirmative action? Dov’era questo obbligo quando una relatrice ha detto di essersi sentita esclusa a Harvard per aver suggerito che il sesso sia un fatto biologico?».
Sasse ha criticato le rettrici per essersi rifiutate di dare risposte chiare, «esibendo compiaciuta certezza moralistica anche quando abbracciavano posizioni bizzarramente immorali sull’antisemitismo e sul genocidio». Ha contestato un approccio a suo dire diffuso nelle università di prestigio e da lui definito «vittimologia», cioè la tendenza a ordinare il mondo e ogni istituzione al suo interno in oppressori e oppressi, e a privilegiare azioni e giudizi basati su «identità di gruppo immutabili», anziché su qualità, speranze e desideri degli individui.
Questo approccio, secondo Sasse, porta peraltro a situazioni non sempre facilmente prevedibili. «A seconda del colore della pelle, dell’orientamento sessuale o delle opinioni religiose, i membri di ruolo della università della ivy league [Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth College, Harvard, Princeton, Pennsylvania University e Yale], che guadagnano cinque volte il reddito medio americano, possono essere classificati come oppressi», ha scritto. E sulla base di queste stesse categorie «gli addetti alle pulizie di Walmart possono essere considerati oppressori irredimibili».
Sasse ha ricondotto a questo approccio anche l’«incertezza morale» diffusa nei campus dopo l’inizio dell’attacco del 7 ottobre, sostenendo che l’«accettabilità del discorso» dipenda da chi parla, e che «agli individui dei gruppi oppressi viene data la libertà di prendere di mira i gruppi oppressori attraverso disordini e minacce». Se l’interpretazione del richiamo al genocidio degli ebrei richiede «un “contesto” aggiuntivo», ha scritto Sasse, «è evidente che molte delle menti presumibilmente migliori del paese non sono in grado di esprimere giudizi morali di base».
Carol Christ, dal 2017 rettrice della University of California Berkeley e nei precedenti 15 anni dello Smith College a Northampton, Massachusetts, ha detto al New Yorker che in generale, negli Stati Uniti, l’istruzione di livello superiore è spesso oggetto di strumentalizzazioni che servono a rafforzare una narrazione politicamente utile per alcuni gruppi. Ha detto che anche gli sviluppi recenti del conflitto tra Israele e Palestina e gli effetti sulle università sono stati «assorbiti» in quella narrazione. E ha fatto notare che tutte e tre le rettrici ascoltate al Congresso ricoprono da poco tempo il loro incarico e sono donne.
Rispetto ad altre situazioni difficili del passato, anche tra quelle che ha dovuto gestire come rettrice allo Smith College prima e a Berkeley poi, Christ ha detto che per rettori e rettrici sono oggi maggiori le pressioni a prendere parte nel dibattito. Esporsi o non esporsi è già in sé un motivo per attribuire alle amministrazioni determinati orientamenti, e se da una parte è molto aumentata l’attenzione alle parole utilizzate per esprimere una certa posizione, ha detto Christ, dall’altra tende a mancare la capacità di utilizzare e comprendere parole che possono avere significati diversi a seconda del piano del discorso e dei contesti.
– Leggi anche: Il controverso slogan «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»
Un’altra particolarità segnalata da Christ nelle attuali manifestazioni di protesta è che non contrappongono soltanto studenti e amministrazione ma studenti e studenti. Ha attributo le profonde divisioni nei campus a un generale indebolimento dei princìpi comunitari e dell’empatia tra le persone. «Solo perché hai il diritto di dire qualcosa non significa che sia giusto dirlo», ha detto Christ, aggiungendo che molte incomprensioni su slogan ed espressioni derivano appunto dall’incapacità di immedesimarsi in altre persone.
Una delle cose che ho sicuramente imparato da questa crisi è che esistono certamente valori morali assoluti: non c’è niente che si possa dire che razionalizzi in qualche modo la barbarie dell’attacco di Hamas a Israele. Ma le persone non sempre usano le parole con la consapevolezza di come suonano per qualcun altro. E si nota di continuo e in modo incredibilmente doloroso nella situazione attuale. Non sto affatto invocando un relativismo morale. Sto solo dicendo che le persone non ascoltano le loro parole con le orecchie di un altro. E spesso ignorano la storia che fa suonare quelle parole in un certo modo.