Cosa sappiamo della missione navale nel mar Rosso
Parteciperà anche l'Italia, con l'obiettivo di garantire più sicurezza per il traffico mercantile dopo gli attacchi con missili degli Houthi
Il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha annunciato lunedì la creazione di una missione navale internazionale per proteggere il transito mercantile nel mar Rosso, dopo che una serie di attacchi dei ribelli Houthi dello Yemen aveva costretto alcune grandi compagnie di trasporto navale ad abbandonare quella rotta. Gli Houthi sono un gruppo sciita finanziato dall’Iran e attaccano le navi con missili e droni per ritorsione contro i bombardamenti israeliani a Gaza e in sostegno a Hamas.
Alla missione internazionale parteciperanno inizialmente dieci nazioni, fra cui l’Italia, che invierà almeno una fregata, una nave da guerra dotata di armi antiaeree. Oltre Stati Uniti e Italia gli altri paesi impegnati nella missione per proteggere le navi mercantili dai lanci di missili e droni sono Bahrein, Canada, Francia, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Seychelles e Spagna.
La decisione arriva dopo che l’azienda petrolifera britannica BP aveva annunciato di aver sospeso il transito delle proprie navi nel mar Rosso: la decisione aveva causato un immediato aumento dei prezzi del petrolio e aveva fatto temere per una crisi dei commerci più ampia, simile a quella avvenuta due anni fa quando la nave portacontainer Ever Given si era incagliata nel canale di Suez, bloccandolo completamente per alcuni giorni. Nei giorni scorsi alcune grandi compagnie di trasporto merci, fra cui Evergreen, Maersk, Hapag-Lloyd, MSC e CMA CGM avevano annunciato la sospensione dei viaggi nel mar Rosso.
Negli scorsi mesi numerose navi sia civili sia militari sono state colpite o minacciate da missili all’altezza dello stretto di Bab al Mandeb, un canale largo 32 chilometri che collega il mar Rosso con l’oceano Indiano e che è controllato da un lato dal Gibuti e dall’altro dallo Yemen. Gran parte dello Yemen è sotto il controllo degli Houthi dal 2014, quando iniziò la guerra civile.
Nel settembre di quell’anno gli Houthi, una milizia sciita nata negli anni Novanta, appoggiata dall’Iran e proveniente dalle montagne nel nord del paese, occupò la capitale dello Yemen, Sana’a, sfruttando anche l’aiuto dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, che aveva governato lo Yemen per 30 anni, creando un’estesa rete di alleanze con il potere civile, militare e con quello delle tribù. Saleh fu poi ucciso dagli Houthi nel dicembre 2017 quando cercava di fuggire dalla capitale dopo aver annunciato di aver cambiato fazione nella guerra civile.
Nel giro di pochi mesi l’occupazione degli Houthi provocò un intervento militare in Yemen, guidato dall’Arabia Saudita con l’appoggio degli Emirati Arabi Uniti e di altri paesi arabi sunniti (l’Iran, come gli Houthi, è a maggioranza sciita).
Le operazioni militari della coalizione non ebbero grandi risultati: l’Arabia Saudita e i suoi alleati finirono con il controllare la parte meridionale dello Yemen, mentre gli Houthi la capitale Sana’a e il nord. Nel frattempo porti e aeroporti vennero bloccati, il paese fu bombardato pesantemente e cominciò anche un’epidemia di colera che causò la morte di migliaia di persone. Già prima della guerra lo Yemen era uno dei paesi più poveri del mondo: oggi si calcola che circa l’80 per cento dei suoi 33 milioni di abitanti abbia bisogno di aiuti umanitari.
Nella guerra si creò presto una situazione di stallo e le negoziazioni non ebbero particolari sviluppi fino a quando a inizio marzo Arabia Saudita e Iran ristabilirono le loro relazioni diplomatiche dopo sette anni, in un accordo considerato per molti versi storico. Seguirono alcuni scambi di prigionieri fra Houthi e forze yemenite, ma senza ulteriori sviluppi. In questi anni gli Houthi hanno consolidato il controllo su un’ampia parte dello Yemen e perseguito i propri obiettivi con azioni dalle ampie conseguenze internazionali, prima attaccando basi petrolifere degli Emirati Arabi Uniti, poi le navi in transito verso il mar Rosso. Sono ampiamente finanziati e riforniti di armi dall’Iran e si ritiene che siano in possesso di un certo numero di missili a lungo raggio in grado di colpire Israele.
A partire dal 7 ottobre gli Houthi hanno intensificato i loro lanci di missili sulle navi in transito come ritorsione contro Israele e a sostegno di Hamas dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza: in questo modo stanno rendendo quel tratto di mare sempre più insicuro. Un mese fa hanno anche sequestrato una nave mercantile, la Galaxy Leader. I loro attacchi si concentrano soprattutto contro navi israeliane e statunitensi, e spesso sono intercettati dalle marine americana e britannica presenti nell’area. Nonostante questo ci sono rischi anche per le altre navi, come hanno dimostrato alcuni attacchi negli ultimi giorni, quando alcune navi cargo sono state colpite da missili da crociera. Nel weekend i vertici militari statunitensi e britannici hanno dichiarato di avere abbattuto nell’area circa 15 droni, mentre gli ultimi attacchi andati a segno hanno colpito una nave norvegese e una panamense senza apparenti legami con Israele.
La missione navale internazionale ha come obiettivo evitare che la situazione nella zona diventi più difficoltosa per il traffico mercantile.
Lo stretto di Bab al Mandeb controlla l’accesso sud al mar Rosso, ed è uno dei luoghi di trasporto marittimo più strategici del mondo: vi passa circa il 12 per cento delle merci mondiali e circa il 30 per cento del traffico dei container. Se il mar Rosso dovesse essere bloccato, potrebbero esserci ritardi e aumenti delle spese con conseguenze importanti sui commerci. Per quel che riguarda il petrolio, passa dal mar Rosso circa il dieci per cento del greggio mondiale: le navi provenienti dall’Arabia Saudita riforniscono anche l’oleodotto SUMED, che parte da Ain Sokhna, vicino a Suez, e arriva vicino ad Alessandria, sul Mediterraneo, costituendo un’alternativa al transito nel canale di Suez.
Al momento i sistemi di tracciamento satellitare delle navi mostrano che il mar Rosso è ancora abbastanza trafficato. Ma alcune navi – soprattutto quelle israeliane che sono le più bersagliate – hanno già iniziato a evitare quella tratta: l’unico modo per farlo è circumnavigare l’Africa, cosa che comporta un enorme ritardo di navigazione, con viaggi che durano circa il 30 per cento in più. Viaggi più lunghi implicano costi maggiori per il carburante ma anche a livello assicurativo, con possibili aumenti dei prezzi delle merci trasportate, oltre che ritardi nelle consegne.