Lo scienziato che non è voluto tornare in aereo dalla sua missione in Papua Nuova Guinea
Gianluca Grimalda ha preferito il licenziamento e 27mila chilometri via terra e mare, per limitare le sue emissioni di anidride carbonica
di Giulia Boero
Gianluca Grimalda è un ricercatore in scienze sociali applicate all’ambiente che per sette mesi ha studiato il rapporto tra globalizzazione, cambiamenti climatici e coesione sociale sull’isola di Bougainville, al largo della costa orientale della Papua Nuova Guinea. A settembre, al momento di rientrare in Europa, si è rifiutato di farlo in aereo. Per questo l’Istituto di Kiel per l’Economia Mondiale, per cui lavorava come ricercatore senior, lo ha licenziato.
Da tredici anni Grimalda ha scelto di viaggiare con mezzi a ridotte emissioni di anidride carbonica per via dei contributi dei trasporti aerei al cambiamento climatico causato dalle attività umane. Al termine del periodo di ricerca pensava di tornare in Europa senza volare, così come aveva fatto per arrivare nel Pacifico a inizio anno. L’istituto tedesco, però, prima ha chiesto il suo rientro immediato e poi l’11 ottobre, dopo il suo rifiuto, ha inviato una lettera di licenziamento ufficiale.
Grimalda sta comunque tornando via mare e via terra. Ha già attraversato Papua Nuova Guinea, Indonesia (passando in nave attorno all’isola di Giava e spostandosi in bus nel nord dell’isola di Sumatra), Singapore, Thailandia e Laos. Ora è diretto in Cina, e da lì passerà per Pakistan (attraverso la catena montuosa del Karakorum, nella speranza che la neve sulle strade non lo obblighi a una sosta), Iran, Turchia, Grecia, fino ad arrivare in Italia per Natale. Avrebbe voluto attraversare il Myanmar, ma a causa della difficoltà di accesso ai confini, per via del conflitto tra giunta militare e forze alleate ad Aung San Suu Kyi, ha dovuto cambiare piani e passare dalla Cina.
In merito alla decisione di non viaggiare in aereo, Grimalda dice di aver sentito, come scienziato, «che era la cosa giusta da fare, per me e per la collettività». «Secondo i miei calcoli, in costante aggiornamento, viaggiando in superficie arriverò a risparmiare rispetto all’aereo circa 4,5 tonnellate di CO2, emettendone in totale 500 kg» dice al telefono mentre viaggia su un autobus per raggiungere Vientiane, la capitale del Laos. Per Grimalda questo modo di viaggiare valorizza anche il suo progetto di ricerca, permettendogli di comprendere come la cultura del luogo influenzi la percezione e l’atteggiamento delle popolazioni nei confronti del contrasto alla crisi climatica.
Geograficamente territorio delle Isole Salomone, politicamente parte della Papua Nuova Guinea dal 1975, l’isola di Bougainville dove Grimalda ha vissuto in questi mesi è tra le regioni del Pacifico più vulnerabili alle conseguenze del riscaldamento globale. I suoi abitanti negli ultimi anni sono stati costretti a spostare interi villaggi nell’entroterra per far fronte all’innalzamento del livello del mare, e a piantare foreste di mangrovie nel tentativo di arginare l’erosione costiera.
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A partire dal 1988 Bougainville è stata al centro di una ribellione della popolazione locale contro la società che gestiva una delle più grandi miniere di rame e oro del mondo, la miniera di Pangua. Una ribellione nata a causa dei danni ecologici e sociali provocati dalla miniera e che si trasformò in pochi mesi in una guerra indipendentista, protrattasi fino al 1997, considerata da molti il più grande conflitto in Oceania dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 2019 la regione votò a favore dell’indipendenza, ma ancora oggi si attende la proclamazione ufficiale da parte del governo della Papua Nuova Guinea, che rimanda il processo per evitare di perdere parte del suo territorio e creare un precedente.
Sull’isola le persone bianche sono spesso definite giaman (“colui che mente” in tok pidgin, la lingua locale): Grimalda, non volendo confermare questo stereotipo, ha promesso alla comunità di Bougainville di mantenere il suo impegno per minimizzare il più possibile l’impatto ambientale dei suoi viaggi. Dopo il licenziamento, un portavoce dell’Istituto di Kiel ha detto che in generale la loro politica è di incoraggiare il proprio personale a viaggiare in maniera sostenibile. Quando possibile, si impegnano a fare a meno degli spostamenti in aereo. Se invece ritengono che i voli degli accademici siano inevitabili, promettono il pagamento di una tassa di compensazione all’organizzazione Atmosfair. È stato proposto anche a Grimalda, la cui posizione è stata però inamovibile.
Dal 2021 Grimalda è anche attivista della rete italiana e tedesca di Scientist Rebellion, un movimento nato nel 2020 in Inghilterra e oggi attivo in più di 30 paesi: dalla Colombia alla Repubblica Democratica del Congo, dalla Danimarca all’India. È composto da scienziati e accademici, studenti e professori provenienti sia dai dipartimenti di fisica, matematica e chimica, sia dai dipartimenti di scienze sociali, psicologia, filosofia e antropologia. «Alla base del movimento c’è l’idea che se non fanno attivismo le persone che studiano il cambiamento climatico, come possiamo aspettarci che lo facciano gli altri?» spiega Lorenzo Masini, biotecnologo e attivista di Scientist Rebellion dal 2022.
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Gli attivisti del movimento sono impegnati soprattutto in attività di divulgazione e sensibilizzazione, nel tentativo di contribuire a ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Chiedono un’azione immediata e più efficace da parte dei governi, delle industrie e della finanza sul tema della crisi climatica, individuando e proponendo soluzioni a breve e medio termine. Solo in alcuni casi sono attivi in pratiche di resistenza civile nonviolenta.
Storicamente, diversi scienziati hanno visto nell’impegno politico da parte di alcuni colleghi un atteggiamento che potrebbe comprometterne la credibilità e il lavoro, ritenendo che l’imparzialità sia un criterio fondamentale della ricerca scientifica. Non tutta la comunità è però d’accordo con questa posizione. Come ipotizza un articolo pubblicato ad agosto dall’Istituto di Scienze Ambientali di Londra, non partecipare al dibattito pubblico e impegnarsi in azioni concrete potrebbe ridurre il ruolo delle evidenze scientifiche nelle decisioni politiche e collettive. Rose Abramoff, scienziata del cambiamento climatico, Peter Kalmus, scienziato del clima del NASA Jet Propulsion Laboratory, e altri colleghi attivisti di Scientist Rebellion credono sia loro responsabilità morale contribuire a sensibilizzare la società sui pericoli del cambiamento climatico. Non solo riguardo alle violente tempeste, alla siccità, agli incendi e alle ondate di caldo già in atto, ma anche a probabili carestie, migrazioni di massa e guerre che si prevedono per il futuro.
Diana R. Fisher, collaboratrice dell’IPCC dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ed esperta di attivismo ambientale e movimenti sociali dell’università del Maryland, ha detto al Washington Post che le controparti con cui i manifestanti si trovano a confrontarsi – come l’industria petrolifera e la disinformazione sul clima – sono così imponenti che per portare a un cambiamento radicale serve «un grande shock al sistema». Ma mentre molti ritengono che l’impegno pubblico degli accademici migliori anche la comprensione del tema da parte della popolazione, altri come Peter Edwards, professore di chimica all’Università di Oxford, considerano più importante concentrarsi su soluzioni tecnologiche e meno su quelle politiche.
Altri ancora, come l’ingegnere ambientale americano David Sedlak, ritengono che il coinvolgimento degli scienziati nell’attivismo possa danneggiare le relazioni commerciali e governative già delicate, su cui gli accademici fanno affidamento per finanziare il loro lavoro. L’attivismo accademico in effetti spesso comporta un alto livello di rischio personale o professionale, fino ad arrivare – come nel caso di Grimalda – anche a perdere il lavoro; ma secondo un’indagine della rivista The Conversation, che ha coinvolto oltre 2.200 scienziati della Union of Concerned Scientists Science Network, il 75% degli intervistati ha affermato che il proprio attivismo scientifico ha avuto il sostegno dei propri datori di lavoro.
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Per il movimento Scientist Rebellion qualsiasi azione volta alla decarbonizzazione è giusta ed è necessario metterla in atto. «La temperatura terrestre si alza in modo inerziale», sottolinea Masini. «Vuol dire che sentiamo l’aumento della temperatura con qualche anno, anche con qualche decennio di ritardo rispetto a quando l’anidride carbonica viene emessa». Nel 2018 l’IPCC, che raccoglie scienziati, delegati, osservatori e revisori provenienti da 195 paesi, aveva redatto il quinto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici. In quell’occasione l’IPCC definiva come “senza precedenti” la sfida necessaria per contenere il riscaldamento globale. Nell’ultimo rapporto pubblicato a marzo 2023, l’obiettivo è stato presentato come ancora più urgente.
Alla conferenza sul clima di Parigi del 2015 (COP21), che rappresenta il punto di riferimento fondamentale per le politiche globali di riduzione delle emissioni di gas serra, i paesi membri si accordarono per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C rispetto alla temperatura media globale preindustriale. Secondo l’IPCC questo sarebbe ancora possibile attraverso un taglio netto delle emissioni entro il 2030. Ma un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), uscito a novembre di quest’anno, rivela che le emissioni globali di gas serra nel 2023 stanno raggiungendo i massimi storici. Molti scienziati hanno dimostrato che, se dovessimo passare da un aumento di 1,5 °C a uno di 2 °C, dovremo affrontare probabili eventi cataclismatici di portata mai vista, il raddoppio del numero di estinzioni di specie animali e una riduzione drastica dei territori oggi coltivati a grano e mais (elementi fondamentali del settore alimentare).
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«Circa 12mila anni fa, durante l’epoca geologica definita Olocene, il luogo dove adesso c’è Manhattan era sotto dieci chilometri di ghiaccio» spiega Grimalda. «Dove vivo io in Germania c’erano ghiacci per dieci chilometri di altezza. Un ambiente incredibilmente diverso da quello che abbiamo ora. La temperatura globale, allora, era di solo 4 °C inferiore a quella odierna».
Grimalda al posto di prendere l’aereo ha scelto di percorrere 27mila chilometri, attraversare dodici paesi, salire su navi cargo, traghetti, treni, bus e impiegare all’incirca due mesi di tempo per tornare a casa. «Il mio è stato un atto simbolico», dice. «Per un ricercatore si può stimare che il 90% delle proprie emissioni sia causato dal prendere aerei». Grimalda non pensa che tutti dovrebbero fare scelte radicali come le sue, ma è convinto che la somma di azioni individuali potrebbe portare a un vero cambiamento collettivo.