Quattro fatti notevoli sulle pensioni in Italia
Un rapporto dell'OCSE mostra come il nostro sistema pensionistico sia uno dei più squilibrati tra quelli dei paesi più industrializzati
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, organizzazione dei paesi più industrializzati più nota come OCSE, pubblica ogni due anni un rapporto sullo stato del sistema pensionistico nei vari paesi del mondo. Il rapporto si chiama “Pensions at a Glance” e mostra, tra le altre cose, quanto il sistema italiano sia tra i più costosi e sbilanciati.
Nel rapporto ci sono quattro fatti notevoli che riguardano le pensioni in Italia: è tra i paesi in cui la spesa pensionistica pesa di più sul Prodotto Interno Lordo, in cui i pensionati hanno redditi in media più alti di chi lavora, in cui i contributi previdenziali pagati dai lavoratori sono la quota più alta delle retribuzioni e in cui l’età di pensionamento si alzerà di più nei prossimi anni.
Partiamo dalla spesa. In Italia ci sono 16 milioni di pensionati e nel 2022 lo stato ha speso 322 miliardi di euro per le loro pensioni: il 16 per cento del PIL. È un dato assai elevato, il doppio di quanto speso in media dai paesi monitorati dall’OCSE. Un altro modo di interpretare questo dato è in base alla spesa pubblica: 322 miliardi sono un terzo della spesa pubblica italiana.
Oltre a essere molto costoso il sistema italiano è tra quelli che garantiscono un reddito più alto per chi va in pensione. L’Italia è tra i tre paesi OCSE, insieme a Lussemburgo e Israele, in cui i redditi medi dei pensionati sono più alti dei redditi medi di chi ancora lavora. E non è un fatto scontato, sebbene in Italia gli stipendi siano notoriamente bassi: il sistema italiano prevede che siano proprio i lavoratori di oggi a pagare gli assegni degli attuali pensionati, con i loro contributi previdenziali. Un rapporto tra stipendi medi e redditi medi dei pensionati squilibrato a favore delle pensioni indica che il sistema grava in maniera eccessiva sui lavoratori.
Questo perché in Italia il sistema pensionistico è definito “a ripartizione”: significa che i contributi versati oggi dai lavoratori non sono un tesoretto che si accumula e che sarà poi la loro pensione, ma che con quei soldi lo stato paga le pensioni ai pensionati attuali. Ogni lavoratore per legge deve pagare i contributi previdenziali: se si è lavoratori dipendenti vengono trattenuti ogni mese dallo stipendio, se si è autonomi si pagano direttamente. I contributi previdenziali sono dunque solo quota dei redditi da lavoro e in Italia è tra le più alte tra i paesi OCSE: mediamente i lavoratori destinano un terzo del loro reddito complessivo al pagamento dei contributi previdenziali, che oltre alle pensioni servono anche a pagare la malattia, i congedi parentali, gli indennizzi per infortuni sul lavoro e via così. È il doppio della media dell’OCSE.
Benché i lavoratori versino una quota parecchio alta dei loro guadagni, complessivamente i contributi previdenziali non bastano a pagare tutte le pensioni e una quota la deve mettere sempre lo stato per compensare: secondo la relazione annuale della Corte dei Conti sul bilancio INPS nel 2021 la quota a carico del bilancio pubblico è stata del 17 per cento. Semplificando, questo avviene per tre motivi: per la generosità del sistema verso chi è andato in pensione in passato, per il fatto che le carriere attuali sono molto più discontinue di quelle del passato, e per il fatto che la popolazione invecchia.
L’invecchiamento della popolazione comporta che ci siano sempre più persone che vanno in pensione e sempre meno che invece rimangono a lavorare e dunque a pagare contributi. Se il sistema pensionistico resta così com’è la quota con cui il bilancio pubblico deve supplire all’ammanco è destinata ad aumentare, rendendo sempre più gravoso il pagamento delle pensioni per lo stato. L’OCSE prevede che nei prossimi 40 anni la popolazione in età da lavoro diminuirà del 35 per cento. Secondo la Corte dei Conti già tra vent’anni la quota a carico dello stato sarà salita al 30 per cento.
Di fronte a questo scenario l’OCSE fa delle ipotesi su come dovranno cambiare i sistemi pensionistici, per adattarsi a un’aspettativa di vita che si allunga: generalmente più l’aspettativa di vita si allunga e più gli stati dovranno richiedere ai lavoratori di rimanere più a lungo a lavoro.
L’OCSE prevede che chi in Italia ha iniziato a lavorare nel 2022 andrà in pensione non prima dei 71 anni, uno dei valori più alti tra i paesi europei e dell’OCSE, secondo solo a quello della Danimarca (75 anni). Chi è appena entrato nel mondo del lavoro riceverà sostanzialmente un trattamento peggiore di chi invece è appena andato in pensione: nel 2022 l’età media effettiva di pensionamento, ossia l’età a cui si va in pensione in media grazie anche ai vari sistemi di anticipo, è di 64 anni, mentre quella per ottenere la pensione di vecchiaia è di 67 anni.
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