Il paragone fra Gaza e un ghetto che ha bloccato un premio in Germania
Masha Gessen, giornalista statunitense di origine russa, doveva riceverlo per il “pensiero politico”
Una fondazione tedesca ha annunciato che non consegnerà più come previsto un premio per il pensiero politico a Masha Gessen, giornalista statunitense di origine russa, considerando «inaccettabile» un suo recente articolo sul New Yorker in cui paragonava la Striscia di Gaza a un ghetto ebraico durante l’occupazione nazista dell’Europa.
La decisione della Fondazione Heinrich Böll ha suscitato un ampio dibattito, in un paese dove le discussioni sulla questione israelo-palestinese sono un po’ diverse dal resto del mondo per via del passato nazista tedesco e per le responsabilità sulla Shoah. Gessen avrebbe dovuto ricevere venerdì il premio Hannah Arendt, intitolato alla storica e filosofa tedesca di origini ebraiche, in una cerimonia pubblica a Brema. Lo riceverà invece sabato, ma probabilmente senza una vera e propria cerimonia, dopo che il partito dei Verdi (che fa parte della fondazione) aveva deciso di ritirare il proprio sostegno.
Gessen, che si identifica nel genere non binario ed è di famiglia ebraica, in un lungo saggio pubblicato il 9 dicembre dal New Yorker aveva criticato il sostegno incondizionato della Germania a Israele, sostenendo che l’attenzione tedesca al ricordo della Shoah avesse portato a decisioni «fuori controllo», come la risoluzione del parlamento tedesco del 2019 che definiva antisemita un movimento che promuoveva il boicottaggio di Israele.
In particolare, nel passaggio ritenuto “inaccettabile” dalla fondazione, Gessen scriveva che ghetto sarebbe «la parola più appropriata» per descrivere la Striscia, nonostante le polemiche che può attirare il paragone fra la «condizione della popolazione assediata a Gaza e quella degli ebrei rinchiusi nel ghetto». Aveva anche aggiunto: «La parola ci darebbe anche il modo di descrivere ciò che sta succedendo a Gaza ora. Il ghetto sta per essere “liquidato”», un riferimento all’espressione “Liquidation” con cui in tedesco venne definito il rastrellamento al ghetto di Cracovia, in Polonia, del 13 marzo del 1943.
La fondazione ha detto di rifiutare totalmente l’idea che Israele voglia «rastrellare Gaza come un ghetto del periodo nazista». Aveva deciso di premiare Gessen ad agosto sulla base di una decisione di una giuria indipendente, con la motivazione che «analizzando il declino e la speranza, Gessen racconta i giochi di potere e le tendenze totalitarie ma allo stesso tempo anche la disobbedienza civile e l’amore per la libertà».
In un’intervista pubblicata martedì sul quotidiano Die Zeit Gessen ha ricordato che la stessa Arendt, nota per aver coniato la frase “la banalità del male” in occasione del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, era stata oggetto di grandi polemiche per le sue critiche al nascente stato israeliano e alla dichiarata volontà di escludere da esso la popolazione araba. Ha detto che Arendt aveva paragonato le posizioni di alcuni partiti israeliani a quelle naziste: «So che chi sostiene questo genere di opinioni, soprattutto in Germania, viene subito accusato di voler relativizzare l’Olocausto. Ma il problema è che criticare Israele è spesso visto come antisemita, cosa che ritengo sia un vero scandalo antisemita. Supera il vero antisemitismo».
Non è il primo caso che nasce in Germania per un premio letterario dall’inizio della guerra fra Hamas e Israele: il 20 ottobre la scrittrice palestinese Adania Shibli avrebbe dovuto ricevere un premio letterario in occasione della Fiera del Libro di Francoforte, ma la cerimonia di premiazione era stata posticipata a data da destinarsi a causa del conflitto. Litprom, l’associazione culturale che assegnava il premio, non aveva spiegato nel dettaglio le motivazioni del rinvio della premiazione, ma nei giorni precedenti alcuni giornali di lingua tedesca avevano criticato la premiazione di Shibli o l’avevano definita poco opportuna per il contenuto del romanzo per cui aveva vinto il premio, Un dettaglio minore. La prima parte del libro racconta lo stupro e l’omicidio di una ragazza beduina palestinese compiuto realmente da un gruppo di soldati israeliani nel 1949; la seconda è la storia (inventata) di una giornalista di Ramallah che decide di indagare sulla vicenda ai giorni nostri e alla fine del libro viene uccisa da altri soldati israeliani dopo essersi avventurata in una zona militare senza permesso.
In Germania il dibattito su Israele e Palestina è particolarmente complesso. Nei mesi scorsi diverse manifestazioni organizzate in difesa della causa palestinese sono state vietate, cosa che ha provocato proteste e malumori anche perché si ritiene che il paese ospiti la più grande comunità palestinese europea, più di 100mila persone secondo le stime.
A differenza di quanto succede nel resto dei paesi occidentali dove (con eccezioni, e semplificando argomentazioni e rivendicazioni più complesse) spesso le posizioni più vicine alla causa palestinese sono sostenute dalla sinistra, in Germania c’è un sentito e trasversale senso di responsabilità nei confronti di Israele a causa della Shoah, il genocidio degli ebrei europei compiuto dal regime nazista nella Seconda guerra mondiale. Si presta quindi collettivamente molta attenzione alle manifestazioni contemporanee di antisemitismo, a cui però spesso sono ricondotte anche le critiche alle politiche israeliane.
La rielaborazione collettiva delle colpe tedesche nello sterminio degli ebrei ha fatto sì che oggi, a livello istituzionale e politico ma non solo, la sinistra tedesca sia più nettamente schierata in difesa di Israele rispetto agli altri paesi europei. Questa situazione secondo molti, fra cui Gessen, ha ridotto notevolmente la possibilità di una critica alle politiche aggressive promosse da Israele soprattutto negli ultimi anni di governi di destra.