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  • Venerdì 15 dicembre 2023

La retorica degli Stati Uniti nei confronti di Israele è cambiata

L'amministrazione Biden ha iniziato a criticare pubblicamente il governo di Netanyahu per la gestione della guerra nella Striscia di Gaza

Joe Biden durante l'incontro con Benjamin Netanyahu del 18 ottobre (Miriam Alster/AP)
Joe Biden durante l'incontro con Benjamin Netanyahu del 18 ottobre (Miriam Alster/AP)
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Nelle ultime settimane il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha aumentato le critiche alla gestione della guerra nella Striscia di Gaza da parte del governo israeliano di Benjamin Netanyahu. Biden ha parlato di «bombardamenti indiscriminati che fanno perdere il sostegno internazionale a Israele», ha detto che Netanyahu «deve cambiare approccio», e chiesto a Israele che si interessi maggiormente a «salvare la vita dei civili» palestinesi.

Queste posizioni sono in linea con quelle espresse ormai da settimane da diversi leader europei, ma per un presidente statunitense sono una discreta novità: gli Stati Uniti sono l’alleato più stretto di Israele dal punto di vista politico, economico e delle forniture militari. Nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre in territorio israeliano Biden aveva difeso pubblicamente il diritto di Israele di reagire nel modo che riteneva più opportuno, in maniera coerente con la loro tradizionale alleanza: ora però l’approccio dell’amministrazione Biden è visibilmente cambiato.

Giovedì il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha incontrato alcuni ministri del governo israeliano chiedendo loro di avviare una nuova fase del conflitto, con operazioni mirate e su scala ridotta, che non prevedano bombardamenti massicci e permettano ai palestinesi di prendersi cura dei civili feriti o sfollati.

I giornali statunitensi, citando funzionari che hanno voluto rimanere anonimi, raccontano anche che sarebbero stati indicati dall’amministrazione Biden i tempi in cui ci si aspetta la fine dell’attuale fase della guerra: la richiesta degli Stati Uniti sarebbe di concluderla entro la fine dell’anno.

Il cambio di approccio di Biden è arrivato dopo mesi in cui stavano crescendo le critiche interne ed esterne per l’appoggio apparentemente incondizionato dell’amministrazione statunitense al governo israeliano. In un sondaggio di fine novembre dell’istituto Gallup è emerso che il 63 per cento degli elettori Democratici, cioè del partito di Biden, «disapprova» l’intervento militare israeliano nella Striscia di Gaza. La percentuale rimane piuttosto alta, al 48 per cento, anche fra gli elettori non affiliati ad alcun partito.

Subito dopo gli attacchi del 7 ottobre il presidente americano aveva mostrato tutta la sua vicinanza a Israele anche con un viaggio in Medio Oriente il 18 ottobre. Biden aveva pubblicamente ribadito in più occasioni il diritto di Israele di «rispondere agli attacchi», mostrando vicinanza e appoggio anche a Benjamin Netanyahu, leader che conosce da decenni ma con cui i rapporti non sono sempre stati semplici.

L’abbraccio fra Joe Biden e Benjamin Netanyahu a Tel Aviv. (AP Photo/Evan Vucci)

L’idea di Biden era quella di riproporre un approccio che aveva dato dei frutti un anno prima, in occasione della precedente crisi, nel maggio 2021, fra Hamas e Israele. Allora Biden aveva pubblicamente sostenuto il governo israeliano, provando poi a indirizzarne la reazione e a limitarne gli eccessi nei colloqui privati. Dopo gli attacchi del 7 ottobre e fino a pochi giorni fa il presidente statunitense aveva ritenuto di procedere allo stesso modo: sostegno pubblico totale e tentativo di indirizzare la politica israeliana nei colloqui bilaterali, sia in prima persona che attraverso il segretario di stato americano Antony Blinken, che dall’inizio della guerra ha viaggiato più volte e a lungo in Israele e in Medio Oriente.

Questa politica di “affetto e influenza” ha funzionato solo sporadicamente: gli unici risultati raggiunti sono stati la faticosa apertura agli aiuti umanitari del varco di Rafah e la breve tregua per lo scambio fra ostaggi rapiti da Hamas e detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Non ha però avuto alcun effetto nel limitare i violentissimi bombardamenti dell’esercito israeliano, che alcune inchieste giornalistiche hanno definito perlopiù indiscriminati. Nella Striscia la situazione della popolazione civile è descritta da tutti gli operatori internazionali come “disperata”.

Non solo dopo la fine della tregua non esistono più aree sicure in cui rifugiarsi, ma mancano cibo, acqua, medicinali e tutte le più basilari forme di sostentamento per la vita quotidiana. A questa situazione si aggiunge una rapida crescita della diffusione di malattie epidemiche tra la popolazione, che vive ormai in condizioni sanitarie critiche, spesso in strada e senza accesso ad acqua pulita.

Di fronte al fallimento delle pressioni in forma privata e anche in risposta alle crescenti proteste, l’amministrazione Biden sembra quindi essere passata a una nuova fase, in cui le pressioni sono diventate pubbliche. Il presidente giovedì ha detto: «Non voglio che smettano di dare la caccia ad Hamas, ma che siano più attenti, più focalizzati sul salvare le vite dei civili».

Una protesta di Amnesty International USA e degli attivisti di Avaaz di fronte alla Casa Bianca, il 15 novembre (Eric Kayne/AP Images for Amnesty International USA and Avaaz)

Una prima risposta indiretta del governo israeliano è arrivata dal ministro della Difesa Yoav Gallant, che ha ribadito che la guerra ad Hamas «durerà alcuni mesi». I funzionari sentiti dal New York Times sostengono che le due posizioni non siano necessariamente in contraddizione. L’ipotesi statunitense prevede che le operazioni continuino con l’utilizzo di corpi di élite che operino all’interno della Striscia di Gaza per eliminare i capi di Hamas, trovare gli ostaggi e distruggere i tunnel.

Non è chiaro al momento se a partire dal 2024 il governo israeliano sia disposto ad accettare questa nuova fase della guerra, a intensità minore rispetto a quella attuale. Stati Uniti e Israele sono invece sicuramente su posizioni lontane riguardo al futuro della Striscia di Gaza: l’amministrazione Biden ha detto in più occasioni che il governo della Striscia deve essere affidato all’Autorità palestinese, nonostante sia piuttosto screditata anche nell’area in cui è formalmente al governo, la Cisgiordania.

Uno schermo con parte del discorso di Biden in Israele del 18 ottobre (AP Photo/Evan Vucci)

Netanyahu ha sempre rifiutato questa soluzione e anche in settimana ha ribadito in un’udienza parlamentare che nei piani del governo israeliano Gaza rimarrà «sotto il controllo militare israeliano». In un’altra occasione è stato ancora più netto: «Voglio essere chiaro: dopo il grande sacrificio dei nostri civili e dei nostri soldati non permetterò l’ingresso a Gaza di chi insegna, sostiene e finanzia il terrorismo. Non permetterò che Israele ripeta gli errori di Oslo».

Con gli accordi di Oslo il 13 settembre del 1993 per la prima volta Israele e Palestina si riconobbero come legittimi interlocutori e Israele riconobbe all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) il diritto di governare su alcuni dei territori occupati. Fu la prima volta che la cosiddetta “soluzione a due stati” trovò una realizzazione concreta. La destra israeliana, Netanyahu compreso, è sempre stata molto critica nei confronti di quell’accordo e negli ultimi anni l’ha sostanzialmente rinnegato.