YouTube ha un problema di plagi
Un video che espone le dimensioni del fenomeno, che riguarda anche gli altri social, sta portando l'attenzione su un meccanismo attorno al quale girano molti soldi
Un lungo video intitolato “Plagiarism and You(Tube)” e pubblicato da Harry Brewis, youtuber molto apprezzato che con il nome @hbomberguy da anni si occupa di temi politici, sociali e culturali da una prospettiva di sinistra, ha ravvivato e aggiunto nuovi elementi a un dibattito su meccanismi, regole e storture del lavoro dei cosiddetti “creatori di contenuti” (content creator, o solo creator). In particolare, Brewis ha elencato vari casi – conosciuti o meno – di plagio, ovvero di youtuber che hanno copiato video o articoli altrui spacciandoli per propri contenuti originali, senza indicare la fonte di citazioni talvolta anche letterali. Nonostante sia lungo quasi quattro ore, il video di Brewis è circolato moltissimo, ottenendo oltre 9 milioni di visualizzazioni su YouTube nell’arco di dieci giorni.
Il punto principale esposto da Brewis è come un numero crescente di persone che vogliono creare contenuti come professione sia particolarmente incentivato a copiare il prodotto del lavoro altrui, e possa ragionevolmente sperare di affermarsi ed emergere senza che di quel plagio si accorga nessuno, in mezzo all’enorme quantitativo di contenuti che vengono pubblicati quotidianamente online.
Hbomberguy ha portato vari esempi: ha parlato di Filip Miucin, uno youtuber che si occupava di recensioni di videogiochi e che nel 2018 fu licenziato dalla testata per cui lavorava, IGN, perché un altro youtuber molto meno seguito si era accorto che un suo video ripeteva parola per parola intere frasi che lui aveva utilizzato precedentemente in una propria recensione. O di @iilluminaughtii, un canale che negli anni ha pubblicato moltissimi brevi documentari citando però molto raramente le fonti da cui attingeva per le citazioni e i filmati che includeva nei propri video. E ancora di Internet Historian, uno youtuber interessato soprattutto a temi storici che aveva copiato quasi completamente un articolo pubblicato nel 2018 dal sito Mental Floss e aveva poi cancellato il video in questione quando gli era stato fatto notare.
Ma il video si concentra soprattutto su James Somerton, un altro grosso youtuber che pubblica soprattutto video-saggi – ovvero lunghi video dedicati ad analisi, spiegazioni o critiche di fenomeni culturali, sociali o politici, spesso inframezzati da spezzoni di film, serie tv o videogiochi – su temi legati alla storia e alla rappresentazione mediatica della comunità LGBTQ+. Nel suo video, Hbomberguy mostra vari casi in cui i contenuti di Somerton contengono le stesse frasi di testi accademici, libri, documentari, saggi, articoli e video pubblicati molto spesso da autori, intellettuali o creator molto più piccoli e meno conosciuti di lui. Dopo la pubblicazione del video, Somerton ha perso 50mila follower e ha chiuso i suoi profili sia su Patreon che su X (ex Twitter), mentre ha tenuto aperto il suo canale YouTube.
Nel video, Hbomberguy riconosce di non essere il primo a parlare dei problemi di plagio online. Secondo Jonathan Bailey, autore di Plagiarism Today, un blog che da anni segue la diffusione di questo problema online, ci sono anzi state tre ondate principali. La prima, tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, fu caratterizzata da «persone che rubavano il lavoro altrui perché volevano spacciarlo per proprio ma non necessariamente per trarne diretto profitto». La seconda, a metà degli anni Duemila, è stata quella dei siti che copincollavano contenuti altrui nella speranza di apparire in alto nei motori di ricerca e guadagnare quindi dai clic degli utenti. Questa pratica si è in parte ridotta quando Google ha cominciato a controllare e limitare il traffico verso i contenuti di bassa qualità. E la terza, quella attuale, è trainata dalla volontà di guadagnare soldi con i propri contenuti sui social network con il minore sforzo possibile, seguendo i consigli di centinaia di video che online insegnano a fare proprio questo.
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Negli ultimi anni, infatti, sono emersi diversi modi per monetizzare la propria presenza online, ovvero per guadagnarsi da vivere pubblicando contenuti di vario tipo. I metodi di monetizzazione variano, e i creator possono scegliere di provarli tutti o di affidarsi a quelli che per loro hanno funzionato. C’è quindi chi stringe accordi pubblicitari con le aziende, chi costruisce un rapporto con i follower tale da convincerli a pagare un abbonamento mensile o annuale (su piattaforme come Substack, OnlyFans o Patreon), e chi si affida soprattutto alle somme che i social network pagano loro per i contenuti, quasi sempre proporzionali al numero di visualizzazioni e legate alle inserzioni pubblicitarie.
Soprattutto nell’ultimo caso diventa quindi importante per i creator farsi venire in mente con costanza nuove idee di cose da pubblicare, sia per accumulare visualizzazioni da monetizzare, sia per attirare l’attenzione di nuovi spettatori, sia per non rischiare di perdere quelli che già si hanno. A questo si aggiunge il fatto che molte persone non sono per nulla interessate al fatto di diventare dei volti riconoscibili o delle figure di riferimento online: vogliono soltanto sfruttare i meccanismi di monetizzazione per arricchirsi nel più breve tempo possibile, senza preoccuparsi particolarmente di farlo in modo etico o corretto.
«Le dinamiche dei social network mettono molta pressione su quello che è essenzialmente un processo creativo», ha detto Bailey di Plagiarism Today a Vox. «Ho parlato con molti plagiatori recidivi che mi hanno detto di averlo fatto perché sentivano troppo la pressione di pubblicare quanti più articoli, podcast o video possibili». Al di là di YouTube, infatti, Bailey ritiene che sia il web nel suo complesso ad aver sdoganato il plagio, facendolo passare tra le altre cose come una sorta di “crimine senza vittime”.
Nello stesso articolo su Vox il giornalista A.W. Ohlheiser ha scritto una cosa simile: «i social network si basano sulla produzione di fenomeni e contenuti che gli altri vorranno riprodurre: quindi copiare una cosa che ha già funzionato per qualcun altro è un ottimo modo per assicurarsi clic». «I meme funzionano copiando e modificando un’idea, un suono o un’immagine di partenza. Le “challenge” virali chiedono alle persone di filmarsi mentre fanno letteralmente la stessa cosa che ha già fatto qualcun altro, dal versarsi acqua ghiacciata in testa all’eseguire coreografie specifiche su una canzone molto seguita su TikTok», scrive Ohlheiser. Per cercare di arginare il problema dei creator che spacciano per proprie battute, coreografie o altri fenomeni virali, l’anno scorso TikTok ha introdotto una nuova funzionalità che permette di citare i creator da cui si è tratta ispirazione.
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Nel corso degli anni, soprattutto negli Stati Uniti, questo tema è stato molto discusso anche a livello legale, ma è raro che qualcuno venga effettivamente condannato per furto di proprietà intellettuale, anche perché spesso non vale la pena di investire tempo e soldi per intentare cause del genere. Inoltre, la giornalista Rebecca Jennings ha fatto notare che moltissime cose pubblicate online e che possono essere “rubate” – come coreografie, ricette, battute o posizioni di yoga – non rientrano nel concetto di proprietà intellettuale. «Questo vuol dire che nei settori in cui la legge sulla proprietà intellettuale mostra i propri limiti, come giornalismo, comicità, mondo accademico [e content creation], sono le norme sociali e professionali a indicare che il plagio è il più grave dei peccati», scrive Jennings.
Un classico esempio è la regola non scritta che è sempre valsa tra i comici per cui non si rubano le battute altrui, oppure lo si fa citando esplicitamente gli autori. Le conseguenze per chi viene scoperto a copiare sono un certo stigma e biasimo tra colleghi e tra il pubblico più attento: un caso celebre di accuse di plagio nella comicità italiana è quello che riguardò per esempio Daniele Luttazzi.
Hbomberguy stesso ha detto nel video di aver deciso di parlare di questo tema perché vorrebbe che la gente cominciasse a riflettere sul fatto che, a prescindere dalla legalità della cosa, «i video online non sono più uno stupido parco giochi per adolescenti, ma un grosso business», e che quindi copiare il lavoro altrui senza dar credito all’autore originale danneggia gli altri creator, oltre a contribuire alla diffusione di contenuti spesso di qualità peggiore e meno curata rispetto agli originali.
Tra gli youtuber italiani, però, il tema non è ancora emerso, benché la pratica di prendere video e formati sviluppati approfonditamente da youtuber stranieri e tradurli spacciandoli come contenuti completamente originali sia piuttosto diffusa. «YouTube Italia, come tante altre cose italiane, è molto provinciale: tutte le cose che accadono sul resto della piattaforma spesso non sono percepite all’interno della community italiana come un tema», dice Alessandro Masala, fondatore del canale YouTube Breaking Italy, tra i più seguiti in Italia. «C’è da dire anche che in Italia c’è molto meno pubblico, quindi c’è anche molta meno gente che si mette a fare video-essay a caso sperando di trovare un pubblico. Piuttosto si buttano su contenuti generalisti: ci sono vari creator che ora vanno molto bene che non fanno altro che riciclare contenuti che si sono già visti fuori, contando sul fatto che nessuno in Italia se ne accorgerà perché non molti guardano video in inglese».
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