Chi erano questi tombaroli
Il film “La Chimera” racconta delle figure che popolano da decenni l’immaginario collettivo e le cronache sul traffico di reperti archeologici, specialmente nell'Italia centrale
Il protagonista del film La Chimera, diretto da Alice Rohrwacher e particolarmente commentato in questi giorni anche per via delle discussioni sulla sua limitata distribuzione, fa parte di un gruppo di giovani che in clandestinità e in modo molto arrabattato va in cerca di tombe antiche da cui trafugare reperti archeologici, nella Tuscia degli anni Ottanta. È cioè un “tombarolo”, come vengono definite le persone che scavano senza autorizzazione nelle tombe antiche o in altri siti archeologici per poi rivendere manufatti e oggetti di valore.
I tombaroli più famosi, almeno in Italia, sono tradizionalmente quelli che tra Ottocento e Novecento trafficarono reperti di epoca etrusca rivenuti tra Toscana meridionale, Umbria e Lazio settentrionale (la Tuscia, per l’appunto). Sono anche quelli raccontati nel film di Rohrwacher, ambientato in una città immaginaria sul mar Tirreno. Ma di tombaroli si parla periodicamente ancora oggi nelle cronache sul traffico di reperti archeologici dall’Italia verso altri paesi, risultato di acquisizioni illecite e vendite poco limpide che coinvolgono amatori e collezionisti, ma anche case d’asta e musei. Gli scavi clandestini vengono scoperti prevalentemente nelle regioni meridionali, in cui proprio per l’elevata concentrazione di siti di interesse archeologico i tombaroli esistono da moltissimo tempo.
Nel 2022, secondo un rapporto del ministero della Cultura, i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale (TPC) hanno scoperto complessivamente 24 scavi clandestini e denunciato 66 persone collegate agli scavi. Lo stesso gruppo ha recuperato in totale 17.275 reperti archeologici e 21.359 paleontologici, che insieme formano il gruppo più cospicuo degli 80.522 beni artistici recuperati nel 2022 (per un valore complessivo stimato di 84.274.073 euro). La Sicilia è la regione in cui è stato scoperto il maggior numero di scavi clandestini (9), seguita da Lazio, Sardegna, Puglia e Campania.
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Sebbene sia oggi utilizzata in relazione a scavi archeologici abusivi di vario tipo, non solo vicino ad aree sepolcrali, la parola “tombarolo” fu inizialmente associata alle notevoli attenzioni che nell’Ottocento si erano concentrate intorno alle tombe etrusche scoperte nel Lazio e in Toscana. Una figura storica centrale nella valorizzazione degli oggetti rinvenuti in quegli scavi fu Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone, che era stato nominato nel 1814 da papa Pio VII principe di Canino, in provincia di Viterbo.
Mosso da interessi archeologici ma anche dal bisogno di risanare le proprie finanze, e per questo soprannominato in tempi più recenti il “principe tombarolo”, Bonaparte intuì il valore economico delle ricchezze scoperte casualmente nel 1828 nella necropoli di Vulci, una delle più importanti città-stato dell’Etruria, studiate e raccontate dall’etruscologo inglese George Dennis.
Coordinò quindi altri scavi in un’area molto estesa, tra i comuni viterbesi di Canino e Montalto di Castro, con l’obiettivo di creare e sostenere un mercato internazionale di oggetti antichi, all’epoca non ancora sviluppato come lo sarebbe stato nei decenni successivi. I lavori portarono alla luce in poco tempo migliaia di vasi in frammenti, che dopo essere stati ricomposti venivano rivenduti da Bonaparte all’estero, principalmente tramite aste e vendite a privati, in un contesto privo di leggi che vietassero gli scavi e il commercio degli oggetti rinvenuti.
L’interesse per il traffico di suppellettili e manufatti trovati nella zona dell’Etruria proseguì nel Novecento e in particolare dal secondo dopoguerra in poi. La figura del tombarolo acquisì popolarità in relazione all’espansione del mercato internazionale di opere d’arte antiche e beni archeologici, sostenuto da una rete di persone sempre più estesa, articolata e slegata dal territorio del ritrovamento. Tra gli abitanti della zona della Tuscia, l’area dell’alto Lazio al confine con la Toscana e l’Umbria, è ancora spesso ricordato il lavoro del re di Svezia Gustavo VI Adolfo, grande appassionato di archeologia, che tra gli anni Sessanta e Settanta partecipò a importanti scavi nel viterbese – tra cui quello dell’area etrusca di Acquarossa – condotti dall’Istituto svedese di studi classici a Roma (fondato dallo stesso Gustavo Adolfo nel 1925).
Negli anni Settanta, parallelamente alla crescita di interesse tra appassionati ed esperti, cominciò a intensificarsi anche il traffico di contrabbando di beni artistici, in cui erano coinvolte persone con relazioni dirette e indirette con collezionisti e case d’asta, che a loro volta rivendevano poi gli oggetti antichi a importanti musei internazionali. I tombaroli, che rappresentavano di fatto la manovalanza impegnata negli scavi abusivi e meno coinvolta nelle altre fasi del traffico illecito, erano il soggetto fondamentale del contrabbando: per il lavoro che eseguivano e per la conoscenza del territorio. Ciononostante erano anche il soggetto meno influente lungo la fitta rete di ricettatori, faccendieri e intermediari con cui interagivano.
Come spiegò in un articolo pubblicato nel 2013 sulla rivista scientifica International Journal of Cultural Property il ricercatore inglese Peter B. Campbell, docente di protezione dei beni culturali alla Cranfield University, i tombaroli – parola utilizzata anche nella ricerca internazionale – si distinguevano da altri trafficanti occasionali proprio per la stabilità delle relazioni che intrattenevano con i contrabbandieri. Inoltre nella rete criminale, per quanto strutturata, non c’era di solito alcuna organizzazione gerarchica ma soltanto una struttura basata sulla specializzazione dei ruoli nelle diverse fasi del traffico di contrabbando.
I vari partecipanti, ciascuno con le proprie competenze geografiche, economiche, legislative o culturali, erano tendenzialmente legati da relazioni stabili ma molto informali, rinnovate soltanto in occasione di transazioni molto diradate nel tempo. Nella maggior parte dei casi, scrisse Campbell, le persone coinvolte alla base della rete non erano criminali di professione ma cittadini che trovavano nel trafugamento di oggetti di valore da siti archeologici non ancora scoperti un’opportunità per integrare le proprie entrate. Queste attività, in zone come la Tuscia, erano facilitate dalla gran quantità di tombe di epoca etrusche mai scoperte, o note sommariamente solo alle persone del posto, sparse per campagne in cui le autorità erano poco o per nulla presenti.
Il caso del mercante d’arte italiano Giacomo Medici, condannato nel 2004 per occultamento di beni rubati, esportazioni illegali e traffico criminale di arte greca, romana ed etrusca, è un esempio spesso citato di indagine che portò a scoprire una rete estesissima e attiva da decenni. In un magazzino di Medici a Ginevra, in un’area della zona franca dell’aeroporto, furono trovate centinaia di oggetti antichi di valore, migliaia di foto degli oggetti venduti e prove della corrispondenza che lui teneva con antiquari e curatori di musei in tutto il mondo.
Il processo e la successiva condanna di Medici, che secondo la sentenza di primo grado aveva rapporti diretti e indiretti con diversi tombaroli in Italia, fornirono molte informazioni sulle modalità con cui gli oggetti di valore erano trafugati da siti archeologici fin dagli anni Settanta. Dopo aver acquistato i manufatti direttamente dai tombaroli, gli intermediari sfruttavano leggi doganali molto permissive in Svizzera, che a lungo non aderì alla Convenzione Unesco del 1970 contro il traffico illecito di beni culturali. Questo permetteva ai trafficanti internazionali di commercializzare i beni senza preoccuparsi dell’accertamento e della dimostrazione della provenienza.
Gli intermediari non vendevano direttamente ai collezionisti, ma ad altri commercianti che rivendevano poi a loro volta gli oggetti antichi. Un manufatto di grande valore finito attraverso traffici di questo tipo nelle teche del Metropolitan Museum of Art di New York, come raccontato in dettaglio nel libro di Peter Watson e Cecilia Todeschini The Medici Conspiracy, fu un ampio vaso greco di terracotta – solitamente definito cratere – risalente alla fine del VI secolo a.C. e dipinto da uno dei più importanti decoratori di vasi del mondo antico, Eufronio.
Rinvenuto durante scavi clandestini nella necropoli rupestre di Greppe S. Angelo, a Cerveteri, vicino Roma, nel 1970 il cratere di Eufronio fu venduto a un mercante per 80 milioni di lire dai cinque tombaroli che l’avevano trovato. Dopo due anni il Metropolitan Museum of Art annunciò di aver acquisito quel vaso, senza fornire ulteriori dettagli sulla provenienza. Come emerse da successive indagini, a vendere il vaso al museo per 1,2 milioni di dollari era stato un commerciante d’arte statunitense, Robert Hecht, in seguito accusato di traffico illecito di opere d’arte antiche.
Hecht respinse le accuse fino alla sua morte, avvenuta nel 2012 poco tempo dopo la prescrizione del processo contro di lui. Disse di aver acquistato il cratere di Eufronio da un commerciante libanese, ma un’inchiesta del New York Times e successivamente le prove fornite durante il processo a Medici suggerirono che Hecht avesse acquistato il cratere nel 1972 proprio da Medici. Nel 2008 il vaso fu infine restituito all’Italia ed è oggi esposto al museo nazionale Cerite a Cerveteri. Già negli anni Novanta, prima delle indagini, il direttore del Metropolitan Thomas Hoving aveva scritto in un’autobiografia che una ceramica a figure rosse dell’inizio del VI secolo a.C. come il cratere di Eufronio «poteva esser stato trovato soltanto in territorio etrusco, in Italia, da scavatori clandestini».
Una delle ragioni storiche che per lungo tempo favorirono il contrabbando di oggetti di valore trafugati dai tombaroli fu che rispetto ad altre attività legate alla criminalità organizzata, come il traffico di sostanze illegali, comportava meno rischi. Prima dell’introduzione nel 2022 di una nuova legge con sanzioni più severe in materia di reati contro il patrimonio culturale, i processi erano perlopiù sommari e piuttosto lenti, e i tombaroli non rischiavano l’arresto nemmeno in flagranza di reato. Questo aspetto emerge anche dal film di Rohrwacher, in cui sono mostrati alcuni incontri dei protagonisti con i carabinieri, rappresentati come innocui e impotenti anche di fronte all’evidenza dell’attività di scavi illegali.
Nel libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella Vandali, uscito nel 2011, il giornalista e scrittore Fabio Isman, autore di molti libri sui tombaroli, spiegò che le loro attività sono «difficili da individuare e ancora più da documentare e dimostrare»: perché i reperti trafugati sono per loro stessa natura qualcosa di non ancora esposto, e non conosciuto. I mercanti d’arte di contrabbando che acquistano antichità trafugate tendono inoltre a conservarle classificandole in base all’anno del recupero di frodo, per commerciarle soltanto in prossimità della prescrizione del reato.
Muniti di picconi, pale, torce, martelli da carpentiere, taniche d’acqua e particolari sonde a T chiamate “spilloni”, come disse nel 2018 un tombarolo in un’intervista anonima alla rivista Journal of Cultural Heritage Crime, i tombaroli sono in grado di individuare le necropoli e orientare gli scavi clandestini sulla base del tipo di terreno estratto con le sonde dal sottosuolo. Nel film di Rohrwacher, che include una componente fantastica e onirica, il protagonista ha invece la particolarità di individuare le tombe utilizzando una tecnica simile a quella dei rabdomanti, e avendo una specie di mancamento proprio in corrispondenza del luogo dove scavare.
Il danneggiamento del patrimonio, scrissero Rizzo e Stella, è parte dell’attività perché amputare le statue o ridurre in frammenti altri oggetti di valore rinvenuti nelle tombe permette sia di trasportarli e nasconderli più facilmente, sia di venderli a tranche proponendo prezzi via via più alti agli intermediari interessati all’acquisto dell’opera integrale. Anche queste cose sono raccontate in La chimera.
Il danno che i tombaroli producono al patrimonio archeologico riguarda non soltanto quello diretto sugli oggetti, ma anche quello prodotto dalla semplice rimozione degli oggetti dal territorio, che riduce inevitabilmente la possibilità di recuperarne la storia. In molti casi l’origine, la provenienza e la datazione non possono essere infatti desunte soltanto dalle caratteristiche fisiche dell’oggetto, perché servono informazioni dettagliate relative al contesto: dalla profondità dello scavo, alla composizione e stratificazione del sottosuolo, alla disposizione di altri oggetti nell’area archeologica.
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Come affermato dall’archeologa e giornalista Serena Epifani, direttrice del Journal of Cultural Heritage Crime, la situazione in tempi recenti è cambiata rispetto al passato. Prima di acquisire un reperto antico i musei controllano accuratamente la provenienza legale, che deve essere certificata, come devono essere noti tutti i passaggi dalla scoperta alla vendita. L’attività dei tombaroli esiste ancora, ma gli oggetti rinvenuti finiscono perlopiù in vendita in case d’asta e a collezioni private.
A luglio, in un’intervista a Repubblica, il comandante del Nucleo TPC dei carabinieri di Bari Giovanni Di Bella descrisse i tombaroli come «persone che non capiscono il valore reale di ciò che trovano», e vendono a mille euro reperti trafugati «che poi le case d’asta piazzano anche a 50mila euro». Disse che lavorano in squadre di 4-5 persone fidate, hanno generalmente tra 50 e 60 anni, esperienza e contatti con i ricettatori. «Fanno altri lavori e scavano per passione, anzi per ossessione. Perché, come ha raccontato in un interrogatorio un uomo che abbiamo arrestato di recente, questa per loro è una malattia», disse Di Bella.