La situazione dell’ex ILVA non si sblocca
All'assemblea degli azionisti ArcelorMittal non ha approvato il rifinanziamento di 300 milioni di euro necessario per proseguire l'attività
Mercoledì si è chiusa con un nuovo rinvio l’assemblea dei soci delle Acciaierie d’Italia, l’impianto siderurgico di Taranto meglio conosciuto come ex ILVA. L’assemblea doveva approvare lo stanziamento di 300 milioni di euro necessari per proseguire l’attività, ma non c’è stato accordo fra l’azionista di maggioranza, la multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, e l’azionista pubblico di minoranza Invitalia, società che si occupa degli investimenti dello stato. L’assemblea riprenderà lunedì ma ogni decisione è stata rinviata al 22 dicembre, vista l’impossibilità di trovare un accordo sullo stanziamento dei fondi.
Il rinvio è stato giudicato particolarmente grave dai sindacati, perché l’azienda ha di fatto finito i fondi e rischia la chiusura. L’ex ILVA è l’acciaieria più grande d’Europa, occupa una superficie superiore a quella della città di Taranto e dà lavoro a 10.500 dipendenti, senza contare l’indotto. La questione principale che ha bloccato ogni possibile sviluppo è che ArcelorMittal, società che opera nel campo dell’acciaio, ha detto di non voler rifinanziare l’azienda: oltre ai 300 milioni immediati, necessari per proseguire l’attività e saldare i debiti con i fornitori, la ricapitalizzazione dovrebbe ammontare complessivamente a 1,5 miliardi di euro (da dividere secondo le quote di possesso azionario).
L’azienda è in crisi da molti anni ma è considerata troppo grande e strategica per essere lasciata fallire. Per evitare la chiusura sarebbe quindi necessario un intervento dello stato: un anno fa concesse ad Acciaierie d’Italia un prestito da 680 milioni di euro, il decimo fatto con soldi pubblici all’ex ILVA, che si inseriva in un percorso che ha portato lo stato a diventare un importante azionista dell’azienda.
Esiste una clausola che permetterebbe allo stato, attraverso Invitalia, di diventare azionista di maggioranza dell’azienda passando dall’attuale 32 per cento delle azioni (contro il 62 della multinazionale franco indiana) al 60 per cento. Questa possibilità è stata scartata nei mesi scorsi perché presuppone investimenti di grande entità per il bilancio dello stato, ma è ora tornata di attualità.
ArcelorMittal nei giorni scorsi ha proceduto allo spegnimento, definito temporaneo, di uno dei due altiforni attivi nell’impianto di Taranto. Lo spegnimento di un altoforno è un’operazione complessa, pericolosa e potenzialmente irreversibile (non è sempre possibile riaccenderlo). La sospensione dell’attività dell’Altoforno 2 è cominciata lunedì e ha fatto sì che sia rimasto attivo un solo altoforno (il 4), essendo già fermi il 5 e l’1 (il 3 fu spento nel 1994 e demolito nel 2020).
Acciaierie d’Italia ha giustificato lo spegnimento con la necessità di interventi di manutenzione: dovrebbero durare una settimana e l’altoforno dovrebbe tornare attivo il 12 dicembre, ma i sindacati hanno evidenziato la possibilità di rischi dal punto di vista ambientale, della sicurezza e dell’operatività. Ad agosto l’Altoforno 1 era stato spento per l’installazione di alcuni filtri: gli interventi sarebbero dovuti durare un mese, ma non è ancora stato riacceso.
Anche in ragione di questa attività ridotta, la produzione di acciaio dell’azienda nel 2023 non supererà i 3 milioni di tonnellate, la metà esatta di quanto previsto nel piano industriale siglato nel 2020 e lontana dagli 8 milioni di tonnellate, obiettivo per il 2024.
I sindacati ritengono che lo spegnimento dell’Altoforno 2 in questa fase della trattativa sia utilizzato «come un ricatto» da parte della multinazionale franco-indiana, temono per gli oltre diecimila posti di lavoro e hanno iniziato mercoledì uno sciopero di 48 ore. Attualmente circa 5000 dipendenti di Acciaierie d’Italia sono in regime di cassa integrazione, con riduzioni anche consistenti dello stipendio.