È compito della moda criticare la società?
Se ne riparla dopo la sfilata di Balenciaga che prende in giro la vita di Hollywood, ma non è l'unica ad averci provato
di Arianna Cavallo
In questi giorni sui social network e sui siti di moda si parla molto di una sfilata dell’azienda del lusso Balenciaga che, sabato scorso a Los Angeles, ha messo in scena gli stereotipi del mondo di Hollywood, come la fissazione per il salutismo, la bellezza, la chirurgia estetica e le celebrità. Secondo molti critici ha segnato il ritorno al successo del marchio dopo un periodo di grosse difficoltà di immagine e cali di vendite dovuti a una pubblicità accusata di promuovere la pedopornografia.
Demna Gvasalia (noto solo come Demna), che dal 2015 è il direttore creativo di Balenciaga, sta tornando a fare quello per cui è diventato famoso: accendere l’attenzione su un mondo, spesso molto codificato visivamente, per smontarlo e dissacrarlo. È un’operazione che negli anni gli ha attirato critiche, soprattutto quando ha preso di mira il sistema capitalistico, perché un’azienda di lusso non è molto credibile nel mettere in discussione un ingranaggio di cui fa indiscutibilmente parte. Ma gli ha anche attirato l’ammirazione di molti, che lo considerano tra le poche persone nel mondo della moda che ne denuncino i meccanismi negativi. In alcuni casi è anche riuscito a scardinarli, un po’ con la comunicazione, un po’ con i vestiti, un po’ con la scelta delle modelle e dei modelli, che hanno sdoganato un’idea di bellezza non convenzionale. Con quest’ultima sfilata, ha scritto GQ, Demna ha affrontato proprio l’idea di bellezza: «l’argomento più spaventoso che ha trattato finora».
La sfilata si è svolta in un viale incorniciato dalle palme con la scritta Hollywood sullo sfondo, davanti a celebrità come Kim Kardashian e Nicole Kidman, e in molti hanno notato che le modelle, gli ospiti e gli abitanti del quartiere potevano facilmente confondersi tra loro. Demna ha costruito il guardaroba del sogno californiano in 77 look: c’erano con molti abiti streetwear e athleisure (cioè rispettivamente propri della strada e della palestra, come felpe, magliette e sneaker), outfit che ricordavano quelli delle star in incognito (e anche il noto servizio fotografico Hollywood Style realizzato nel 2005 dal fotografo Steven Meisel per Vogue Italia), tendenze degli anni Duemila come tute in velluto, tanga che spuntavano dai pantaloni, stampe leopardate e il rosa alla Paris Hilton, allusioni al mondo del rap con cappellini da baseball e catenone al collo e abiti da sera destinati al red carpet.
La colonna sonora era un collage di finti spot pubblicitari realizzata dal musicista BFRND, il marito di Demna. Per l’occasione Balenciaga ha anche realizzato una collaborazione con Erewhon, un negozio di alimentari biologico e molto costoso di Los Angeles: molte modelle e modelli sfilavano con la borsa del negozio, che ha inventato appositamente anche un frullato a base di polvere di carbone, nero come il colore di Balenciaga.
Demna ha spiegato che la collezione è un omaggio alla città, «la mia preferita al mondo», e all’influenza che ha avuto nel plasmare la sua «evoluzione culturale da adolescente»: «tutto veniva da qui». Lo stilista, infatti, è cresciuto in quello che ha definito «vuoto post-sovietico»: è nato nel 1981 da madre russa e da padre georgiano in Abcasia, una regione della Georgia annessa dalla Russia durante la guerra civile del 1991-93; a 12 anni scappò dal paese e si rifugiò in Ucraina e poi a Düsseldorf, in Germania.
Nonostante questo, molti critici hanno letto la sfilata soprattutto come una critica al “sogno americano”. Andrea Batilla su Instagram ha parlato di sguardo «ferocemente satirico», sostenendo che Demna sia l’unico a «usare la moda come strumento di critica sociale», mentre Antonio Mancinelli ha definito la sfilata «abrasiva, irritante e parodica contro il capitalismo cieco», un «American Dream trasformato in horror»; ha anche riproposto il tema che salta sempre fuori quando si tratta di Balenciaga: «è legittimo criticare il sistema se di quel sistema fai parte e ci guadagni (e fai guadagnare) montagne di denaro? Demna è convinto di fare statement politici o si diverte? […] Questo show è un gigantesco dito medio. Ma infilato dove, esattamente?»
Non tutti però hanno posizioni così nette, come per esempio il giornalista di moda Jacopo Bedussi: «si dice che quello che Demna fa è una critica: nì, non lo so, quello che lo affascina è il sistema capitalistico del lavoro. È cresciuto nella Georgia post sovietica e guarda a questo sistema da fuori, non c’è cresciuto dentro: capire cos’è fascinazione, sincero stupore e critica è meno semplice di quanto non sembri, è facile derubricarla a critica del capitalismo». Lo stesso Demna ha detto recentemente a Vogue America che «il punto per me è sempre stato divertirmi e non prendere la moda troppo sul serio». Forse il suo successo è dovuto anche a questo: alla voglia di scherzarci su e produrre vestiti simili a meme e contemporaneamente all’ambiguità di fondo del suo lavoro, che permette a ognuno di interpretarlo come vuole.
Tra le trovate provocatorie di Balenciaga che più hanno fatto il giro di internet ci sono le magliette con il simbolo dell’azienda di trasporto merci DHL, realizzate nel 2015 quando Demna faceva parte del collettivo di moda francese Vetements; la borsa FRAKTA, nel 2017, ispirata a quella blu di Ikea in pelle di vitello e dal costo di 2.000 euro; le sneaker Triple S dalla tripla suola che hanno riportato di moda le scarpe da ginnastica chunky, cioè grosse; e più recentemente la Gonna Towel, di fatto un asciugamano di cotone che si lega in vita, al costo di 695 euro. Sono prodotti che elevano marchi o oggetti comuni e ben lontani dal mondo del lusso, che vengono riproposti a prezzi molto alti, e sono naturalmente anche delle provocazioni: mettono in ridicolo le tendenze e chi è disposto a spendere cifre sproporzionate al valore reale di qualcosa solo perché se ne parla o perché ha stampato un logo sopra.
Come spiega sempre Bedussi, «sono quelli che nel marketing vengono chiamati talking o conversation pieces, creati apposta perché se ne parli» e che adesso «hanno un po’ stancato perché tutti ormai se li aspettano: all’inizio la gente si arrabbiava ma ora mi sembra un po’ naïf indignarsi per un asciugamano, costasse pure 20mila euro: è chiaramente un gioco, anche intelligente e interessante, sul ruolo che ha il prezzo nel sistema della moda: non è il risultato matematico di quanto una cosa può e deve costare, ma può essere una scelta autoriale».
L’operazione che Demna fa nelle sfilate è simile ma un po’ più sottile e, appunto, ambigua: prende dei mondi, li esaspera, li distorce e mostra quanto siano stratificati e più complessi di quanto si pensi. Nel 2019, ancora con Vetements, ne mise in scena una in un McDonald’s per criticare il capitalismo, poi con Balenciaga ne ambientò una nella riproduzione della sede del Parlamento europeo per parlare di burocrazia e potere, mentre la sua prima sfilata negli Stati Uniti fu nella sede della Borsa di New York, a Wall Street, per prendere in giro il rampantismo della finanza. Ne ha anche proiettata una virtuale nel mondo dei Simpson.
Infine ha dedicato una trilogia alle conseguenze del cambiamento climatico: le modelle e i modelli si sono fatti largo una volta nell’acqua di futuristiche alluvioni, una volta nel fango e infine in una bolla dove infuriava una tempesta di neve.
Quest’ultima sfilata si tenne a inizio marzo 2022 e coincise con l’invasione russa in Ucraina: all’ultimo momento Demna la trasformò in un commento sulla guerra dove i corpi affilati che avanzavano in un clima ostile, avvolti in una coperta e impacchettati con nastro adesivo facevano pensare a chi stava scappando per cercare salvezza in un altro paese, come aveva fatto lui da piccolo.
Demna non è l’unico direttore creativo che commenta il presente attraverso le sfilate. In Italia per esempio Miuccia Prada, direttrice creativa di Prada e Miu Miu, lo fa da anni, soprattutto attraverso i vestiti: le brevi note che accompagnano le collezioni chiariscono il messaggio e la scelta di una stampa, di un tessuto o di un accessorio; il suo approccio è più sottile e intellettuale, meno immediato di quello di Demna. Anche Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo di Valentino, ha utilizzato le sfilate per mandare dei messaggi; per esempio nel marzo del 2021 la spostò da Parigi, dove si tiene tradizionalmente, al Teatro Piccolo di Milano, che era chiuso per le restrizioni dovute al Covid: l’obiettivo era dare un messaggio di speranza alla città e ai lavoratori di molti settori creativi, in difficoltà durante la pandemia.
Alessandro Michele, ex direttore creativo di Gucci prima dell’attuale Sabato De Sarno, più che criticare il mondo ne ha creati tanti ma anche lui ha ironizzato sulla scarsa trasparenza e sull’eccessiva velocità del mondo della moda attraverso una sfilata: la passerella era trasformata in una giostra trasparente dominata da un gigantesco metronomo, al centro c’erano i vestiti sulle relle e gli addetti ai lavori che vestivano e truccavano le modelle e i modelli che, una volta pronti, si spostavano sul bordo esterno, immobili come manichini.
Lo stesso hanno fatto aziende più piccole ma identitarie, con mezzi più limitati ma ingegnosi. Per esempio il marchio italiano Cormio ha raccontato la caotica vita familiare e l’emancipazione femminile facendo sfilare modelle e modelli con in braccio bambini piccoli su una colonna sonora di urla e pianti e ancora organizzando una passerella in un campetto da calcio con bambine che giocavano a pallone.
Il marchio milanese Sunnei ha preso in giro la frenesia della moda e della vita urbana mostrando modelle e modelli che scendono da un taxi e corrono per strada per precipitarsi a un appuntamento; all’ultima sfilata, tenutasi a Milano a settembre, ha distribuito al pubblico delle palette con sopra i numeri da 1 a 10 e lo ha invitato a votare ogni look: la trovata è piaciuta molto e la celebre critica di moda Cathy Horyn l’ha raccontata in un pezzo intitolato Everybody is a critic.
Queste operazioni non sono così semplici e non tutti i direttori creativi hanno sempre qualcosa da dire sul presente: a volta si tratta solo di mostrare e vendere dei vestiti. Come ha detto Prada, «molti temi politici in qualche modo sono fuori luogo nel contesto del lusso» e «con la moda puoi essere incisivo fino a un certo punto: puoi riflettere sull’emancipazione femminile, commentare il momento, ma non puoi discutere della complessità del mondo».
Demna invece sembra convinto della sua strada, come ha ribadito a Los Angeles: «volevo tornare indietro a quel genere di sfilate cinematografiche perché penso che non abbia senso mostrare soltanto dei bei vestiti». Secondo Bedussi, però, il gioco di scardinare le cose «potrebbe non funzionare per sempre: se lo fai cinque volte magari è interessante, poi stanca»: come ha scritto la nota critica di moda del New York Times Vanessa Friedman «ritornare è una cosa. Andare avanti è un’altra».