Il governo ha ridimensionato i suoi obiettivi sul Patto di Stabilità
Pur di approvare la riforma delle regole sui bilanci dei paesi europei ha deciso di rinunciare a molte richieste fin qui ritenute imprescindibili
Martedì il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha spiegato in parlamento come stanno andando le trattative in ambito europeo sulla riforma del Patto di Stabilità, cioè l’insieme di complesse regole fiscali a cui gli stati membri dell’Unione Europea sono sottoposti. L’audizione di Giorgetti era molto attesa perché programmata a pochi giorni da un incontro potenzialmente decisivo per la riforma, dopo più anni di trattative più o meno informali: giovedì e venerdì i ministri dell’Economia e delle Finanze dell’Unione Europea si incontreranno a Bruxelles per discutere, tra le altre cose, proprio del nuovo Patto di Stabilità.
Davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato Giorgetti ha parlato delle difficoltà della trattativa in corso e ha rivendicato alcuni risultati del tutto parziali fin qui ottenuti dal governo. Ma ha soprattutto ridimensionato in modo netto le pretese che il governo di Giorgia Meloni aveva avanzato per mesi, arrivando a minacciare di far saltare ogni accordo sulla riforma, visto che per approvarla è necessario il voto favorevole di tutti i 27 stati membri dell’Unione.
Non è detto che il negoziato si risolva già nei prossimi giorni, ma il nuovo Patto di Stabilità dovrebbe entrare in vigore in ogni caso a partire da gennaio del 2024: le vecchie regole erano state sospese nel 2020 a causa della pandemia, poi negli anni successivi la sospensione era stata prorogata per via della guerra in Ucraina e della conseguente crisi energetica. In periodi di emergenza, in sostanza, la Commissione Europea aveva dato agli Stati la facoltà di adottare politiche di bilancio che andassero oltre gli stringenti parametri fissati dal regolamento.
Della riforma del Patto di Stabilità si parla da più di un anno. È un negoziato molto importante: dalla definizione delle nuove regole dipenderà infatti quanto e come i vari Stati possono spendere, in che misura devono ridurre il proprio deficit e il proprio debito, quali riforme e quali investimenti devono privilegiare, e così via.
La novità sostanziale del nuovo Patto di Stabilità, proposta nell’aprile scorso dalla Commissione Europea, sta nel fatto che non saranno più previste regole fisse valide per tutti gli stati membri: ciascun paese dovrà concordare con la Commissione un piano specifico cha va dai 4 ai 7 anni durante il quale si impegnerà a fare certe riforme e certi investimenti, impegnandosi contestualmente a ridurre il proprio deficit e il proprio debito. Il deficit è l’eccesso di spesa annuo rispetto alle entrate, mentre il debito è l’accumulo di deficit sul lungo periodo.
Sul debito poi la riforma propone di abolire la regola precedente, secondo cui i paesi che avevano un grosso debito pubblico dovevano ridurlo di un ventesimo all’anno fino a raggiungere la soglia ritenuta ragionevole (il 60 per cento in rapporto al PIL). Era una regola particolarmente stringente, che molti paesi semplicemente non sono mai stati in grado di rispettare. Dovrebbe invece restare il vincolo di non superare un rapporto tra deficit e PIL (Prodotto Interno Lordo) del 3 per cento.
La proposta della Commissione – a cui hanno lavorato soprattutto due commissari: l’italiano Paolo Gentiloni e il lettone Valdis Dombrovskis – è considerata un compromesso abbastanza favorevole per i paesi più indebitati: supera in parte le regole più arbitrarie e promuove un approccio più politico e di mediazione tra la Commissione e i singoli Stati membri. Eppure l’Italia ha fin da subito osteggiato questa proposta, sostenendo che il superamento dei vecchi parametri non fosse abbastanza netto.
Allo stesso tempo i cosiddetti paesi rigoristi, cioè quelli che come la Germania invocano regole più rigide contro la spesa e il debito pubblici, si sono lamentati dell’esatto contrario: cioè che la proposta della Commissione fosse troppo accomodante coi paesi del Sud Europa, quelli tradizionalmente più indebitati.
Per diversi mesi l’Italia si è rifiutata di accettare la proposta puntando sul rinvio a oltranza della riforma: sperava insomma che il Patto di Stabilità venisse sospeso anche per il 2024, dopo la sospensione dal 2020 al 2023. Poi, quando era diventato chiaro che questa ipotesi non era contemplata dalla Commissione Europea, alcuni esponenti del governo avevano anche evocato una soluzione più drastica, e cioè il ritorno al vecchio Patto di Stabilità, almeno per il 2024. Anche questa richiesta però è stata accantonata: in particolare dopo un incontro avvenuto a fine ottobre tra Giorgia Meloni e la presidente della Banca centrale europea (BCE), Christine Lagarde.
L’ultima grossa pretesa che era rimasta al governo Meloni, ripetuta più volte negli ultimi mesi da vari esponenti del governo, era quella legata al metodo con cui calcolare il debito pubblico: il governo chiedeva di escludere dal calcolo le spese legate ad alcuni investimenti, come quelli per le spese militari e la transizione ecologica e digitale, in modo da poter continuare a spendere in questi settori senza che la spesa venisse computata nel debito. Sono spese che valgono nel complesso decine di miliardi, e non tenerne conto influenzerebbe notevolmente il calcolo del deficit.
Era una richiesta piuttosto ambiziosa, e su cui molti analisti si erano detti scettici, ma il governo fino a questo momento aveva continuato a considerarla credibile. Ora Giorgetti dopo mesi ha detto chiaramente che questa ipotesi non è più considerata dal governo, ammettendo che non rientra più tra gli obiettivi che l’Italia intende raggiungere nel negoziato sul Patto di Stabilità.
L’Italia chiederà piuttosto di inserire quelle spese tra i cosiddetti “fattori mitiganti”, cioè quelli a cui uno Stato membro può appigliarsi per giustificare il mancato rispetto dei parametri di bilancio europei, fermo restando l’obiettivo di rispettarli. Sarebbe però una concessione assai più blanda rispetto a quella di escludere le spese dal calcolo del debito.
Il governo, ha detto Giorgetti, è inoltre intenzionato a chiedere alcune concessioni sui tagli alla spesa e sulle riforme, facendo leva sul fatto che l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza è già un impegno molto gravoso per l’Italia (che ha di gran lunga il piano più consistente di tutti gli Stati membri dell’Unione). È una richiesta che vari paesi considerano ragionevole, e su cui anche la Commissione Europea ha mostrato una certa disponibilità.
Ad ascoltare Giorgetti, al momento l’obiettivo fondamentale dell’Italia sembra essere diventato quello di evitare che nella riforma vengano inseriti parametri rigidi sull’obbligo di ridurre il debito di anno in anno: più che per vedersi riconosciute delle concessioni nuove, insomma, il governo proverà a evitare che siano accolte le istanze dei paesi “rigoristi”, e della Germania in particolare.
Giorgetti però è stato piuttosto cauto sulla possibilità che l’Italia ponga un sostanziale veto sulla riforma, cioè che decida di non votare in modo favorevole bloccandone l’approvazione: un’ipotesi su cui nelle ultime settimane si era speculato molto, a partire dalle dichiarazioni dei membri della maggioranza. Una decisione del genere isolerebbe politicamente il governo italiano negli ultimi mesi della legislatura del Parlamento europeo e della Commissione, quelli in cui cioè diverse norme concludono il proprio percorso legislativo e vengono approvate in via definitiva.
Il ministro dell’Economia ha inoltre escluso in modo netto un ritorno al vecchio Patto di Stabilità e Crescita, che era stata invocata sempre da esponenti della maggioranza. Il ritorno al vecchio Patto di Stabilità sarebbe la conseguenza inevitabile di un mancato accordo, se l’Italia decidesse di mettersi contro la riforma, ma per Giorgetti sarebbe poco auspicabile: «Le regole precedenti sono assolutamente peggiori» di quelle contenute nella riforma, ha detto.