Un secolo fa nel disastro del Gleno morirono 359 persone
Una diga in val di Scalve, in provincia di Bergamo, crollò dopo appena quattro mesi: era stata costruita male e in fretta
Alle 7:15 del 1° dicembre 1923 Francesco Morzenti, guardiano della diga del Gleno, era al lavoro per sistemare un piccolo tubo che raccoglieva acque di scolo, rotto da alcuni operai. Il sole non era ancora sorto completamente e ai 1.534 metri di altitudine della piana del Gleno cadeva nevischio, dopo giorni di piogge. Morzenti sentì un sasso cadergli vicino, poi un altro. Accese un fiammifero per aumentare la luce e vide nella parete della diga una crepa larga tre dita che – raccontò poi – dava l’impressione di allargarsi continuamente. Morzenti a quel punto iniziò a correre.
Esattamente cento anni fa nel giro di meno di un minuto una parte importante della diga del Gleno crollò, 6 milioni di metri cubi d’acqua si riversarono sulla valle sottostante, travolgendo case, intere frazioni di paesi, una chiesa, un cimitero e cinque centrali idroelettriche. La massa di acqua, fango e detriti causò 359 morti accertati, in una tragedia che precedette di 40 anni quella forse più nota del Vajont.
Oggi quel che resta della diga del Gleno è ancora presente e visitabile con un’escursione non troppo complessa dal comune di Vilminore, in Val di Scalve: è la valle bergamasca più vicina alla provincia di Brescia e in particolare alla Val Camonica. Per la giustizia italiana non esistono colpevoli di quel disastro, le cui cause vennero individuate con ragionevole certezza in difetti di costruzione: la diga crollò appena quattro mesi dopo il completamento dei lavori. Il disastro del Gleno fece ovviamente grande sensazione all’epoca ed è molto noto a livello locale, ma la sua memoria si è un po’ persa nelle altre zone d’Italia, anche perché avvenne in un periodo senza televisione e in cui il regime fascista, che si era instaurato da poco, non amava raccontare fallimenti e disgrazie.
La prima richiesta per costruire una diga che sfruttasse le acque dei torrenti Nembo e Povo, con uno sbarramento alla piana del Gleno che prende il nome dal vicino monte, fu fatta nel 1907. Le cose andarono per le lunghe, quando nel 1917 arrivò l’autorizzazione era oramai subentrata nella richiesta la ditta cotoniera dei fratelli Viganò, con stabilimenti in Brianza. L’obiettivo della ditta era rendersi energeticamente indipendente grazie alla diga, che avrebbe avuto una capacità di 3,9 milioni di metri cubi d’acqua. Il progetto prevedeva una struttura “a gravità”, in cui cioè la diga si oppone alla spinta dell’acqua attraverso il proprio peso.
La progettazione e la costruzione vennero fatte di fretta, nel 1917 e 1918 cominciarono i lavori accessori e nel 1919 iniziarono quelli veri e propri per la diga, con un progetto passato a 5 milioni di metri cubi di capacità. La prima parte fu la realizzazione del cosiddetto “tampone”, che tappava la gola nella vallata per creare una base in muratura su cui poggiare i piloni e la diga vera e propria: il tampone raggiunse anche 20 metri di altezza, più di ogni altra diga dell’epoca. Nel frattempo l’ingegnere responsabile dei progetti morì e venne sostituito da un altro, Giovan Battista Santangelo. Il nuovo ingegnere cambiò i progetti, la diga del Gleno diventò una diga ad archi multipli, una struttura differente che venne “appoggiata” nella parte centrale sopra un tampone a gravità in muratura di pietrame e malta.
Nell’agosto del 1921 un sopralluogo del genio civile portò alla luce tutti i cambi di programma non denunciati e quindi le irregolarità, e informò il ministero dei Lavori pubblici: i lavori vennero sospesi in attesa della presentazione di progetti aggiornati. Furono presentati, ma si scoprì in seguito che aspettando un responso i lavori continuarono: vennero anzi accelerati per recuperare il tempo perduto, affidandoli a un’impresa che lavorava a cottimo. Le testimonianze degli operai nel processo che seguì il disastro raccontarono di lavori frettolosi e pratiche scorrette, di materiali di bassa qualità e di «piloni in cui finì un po’ di tutto».
Nella valle sottostante la diga iniziò a essere vista con una certa preoccupazione, ma non erano anni in cui si potessero organizzare comitati. Inoltre la Val di Scalve era al tempo un luogo ancora piuttosto scollegato, molto lontano dai centri di interesse politici ed economici. La principale risorsa della zona era costituita da miniere di ferro, conosciute già in epoca romana.
Le autorizzazioni arrivarono e i lavori furono completati alla fine dell’estate del 1923. A metà ottobre la diga raggiunse per la prima volta la sua massima capacità per via delle forti piogge. Testimonianze successive raccontarono che il sistema degli sfioratori che dovevano smaltire l’acqua in eccesso mostrò subito problemi, così come si segnalarono perdite: tutte cose che vennero minimizzate dai responsabili.
Si arrivò così alla mattina del 1° dicembre e alla corsa del guardiano Francesco Morzenti. Riuscì a mettersi in salvo nella casupola presente ancora oggi e fece in tempo a vedere prima uno, poi quattro piloni crollare. La diga era lunga nel complesso 260 metri, ne crollarono circa 80, in corrispondenza del luogo dove il tampone era più alto e aveva mostrato già alcune perdite. Varie analisi e inchieste successive indicarono con ragionevole certezza che fu la scarsa solidità del tampone la ragione del crollo, anche se nel corso degli anni sono state proposte teorie alternative, legate ad altri difetti strutturali, a piccole scosse sismiche o persino a un attentato dinamitardo. Quest’ultima ipotesi è stata particolarmente pubblicizzata, ma non ha mai avuto grandi riscontri nei fatti: le testimonianze raccolte nel processo sembrano confermare un progressivo deteriorarsi delle strutture nei quattro mesi in cui rimasero operative.
Il bacino si svuotò in meno di un quarto d’ora, riversandosi sulle frazioni di Bueggio, il Dezzo, Angolo con Mazzunno e Corna di Darfo (le ultime due in Val Camonica), che vennero spazzate via quasi completamente. L’ondata raggiunse anche i 25 metri di altezza, l’acqua poi proseguì la sua discesa fino al fiume Oglio e da lì al lago d’Iseo, in cui il livello dell’acqua si alzò di sei centimetri in meno di due ore.
Il giorno dopo il disastro a Darfo (la cittadina più vicina) arrivarono anche il re Vittorio Emanuele III e il poeta Gabriele D’Annunzio, uno dei personaggi più noti dell’epoca e residente non lontano, a Gardone Riviera. Il 30 dicembre la procura del Re incriminò Virgilio Viganò, proprietario della ditta costruttrice, il progettista Santangelo e Luigi Vita, impresario costruttore. Il processo di primo grado durò quasi quattro anni, furono ascoltati più di 300 testimoni, e alla fine si arrivò alla condanna per disastro colposo di Viganò e Santangelo: tre anni e quattro mesi, ridotti a un anno e quattro mesi in seguito, e nessuna pena pecuniaria (Vita fu assolto). Il processo di appello, che si tenne a Milano, ribaltò nel novembre del 1928 il verdetto, assolvendo Viganò e Santangelo per insufficienza di prove: il primo intanto era morto a 46 anni per un’emorragia cerebrale.
La storia processuale del disastro del Gleno si concluse così, nonostante le polemiche per gli indennizzi insufficienti e distribuiti in modo approssimativo ai parenti dei morti e a chi aveva subito danni. La memoria dei fatti si è mantenuta nelle zone intorno alla piana del Gleno ed è stata recuperata più ampiamente nel 2023, anno del centenario, con varie manifestazioni. Venerdì ha ricordato gli oltre 350 morti anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.