Le conferenze dell’ONU sul clima andrebbero fatte diversamente?
Negli ultimi anni sono aumentate sia le dimensioni di questi eventi che le critiche sui loro esiti, ma non ci sono grandi alternative
La conferenza internazionale sul cambiamento climatico iniziata oggi a Dubai (COP28) dovrebbe finire il 12 dicembre, per quanto spesso le discussioni si allunghino di uno o due giorni. È in ogni caso molto verosimile che per allora saranno pubblicati degli articoli con titoli simili a “La COP28 è stata un fallimento?”. Titoli di questo genere si leggono più o meno ogni anno alla fine di questi grandi eventi per la generale sfiducia nell’efficacia di un processo di trattative che è iniziato circa trent’anni fa (la COP28 si chiama così perché è la ventottesima) e finora non ha portato a diminuzioni nelle emissioni di gas serra, la causa del riscaldamento globale, che invece sono quasi sempre aumentate di anno in anno.
Quest’anno lo scetticismo sugli esiti della conferenza è particolarmente alto per gli aspetti critici di questa specifica COP, organizzata in un paese tra i più grandi produttori di petrolio, gli Emirati Arabi Uniti, e presieduta dal capo della sua azienda petrolifera nazionale. Già per la COP27 di Sharm el-Sheikh, in Egitto, si era molto discusso della numerosa partecipazione di rappresentanti dell’industria dei combustibili fossili alla conferenza (c’erano più di 600 lobbisti del settore, è stato stimato considerando anche quelli che facevano parte di delegazioni governative), la più alta di sempre fino ad allora. Anche per questo nell’ultimo anno c’è chi ha proposto di discutere una riforma del funzionamento delle COP.
Le COP sono molto complesse e lente prima di tutto perché coinvolgono 197 stati, quasi tutti quelli del mondo: l’ultimo ad aggiungersi, nel 2022, è stato la Città del Vaticano. Insieme all’Unione Europea, questi stati sono le 198 “parti” delle COP, il cui nome per esteso è “Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC)”. Già solo per la complessità della crisi climatica e per il gran numero di interessi politici ed economici in gioco, molto vari da paese a paese, è piuttosto inevitabile che una singola COP produca progressi relativi e poco immediati. Quelle considerate come molto riuscite, come la COP21 del 2015 da cui è uscito l’Accordo di Parigi, sono state possibili grazie al lavoro preparatorio fatto negli anni e nelle COP precedenti.
Le delegazioni dei governi dei paesi del mondo, di cui fanno parte politici e loro consulenti esperti di vari temi, sono i partecipanti più importanti delle conferenze. Insieme ai rappresentanti del segretariato dell’UNFCCC e a vari tipi di osservatori, che possono essere membri di organizzazioni non governative o intergovernative o di diverse agenzie dell’ONU, o ancora giornalisti, sono le persone che hanno accesso alle cosiddetta “Blue Zone” della conferenza, l’area dove si prendono le grandi decisioni internazionali.
Nel corso degli anni alla “Blue Zone” si sono aggiunte sempre più grandi “Green Zone”, che sono il pezzo delle COP che dalla COP21 del 2015 a Parigi le ha rese vagamente simili alle esposizioni universali, le expo. Sono lo spazio dedicato alle società private, ai gruppi della società civile, agli attivisti per il clima e alle rappresentanze di popolazioni indigene di varie parti del mondo. È anche per via della “Green Zone” che ai 13 giorni della COP28, organizzata negli stessi spazi dell’Expo 2020, parteciperanno più di 70mila persone. Questo numero è comunque un record notevole: nelle edizioni precedenti generalmente erano meno della metà, con l’eccezione della COP26 di Glasgow a cui avevano partecipato quasi 40mila persone.
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A febbraio il Club di Roma, un’autorevole associazione non governativa che riunisce scienziati, economisti e dirigenti pubblici e privati internazionali, aveva scritto una lettera aperta al segretario generale dell’ONU António Guterres e al segretario generale dell’UNFCCC Simon Stiell per chiedere «un’urgente riforma del processo delle COP» per renderle più efficaci. Il principale cambiamento proposto dalla lettera è ridurre le dimensioni “da grande fiera” delle COP, eliminando la divisione tra “Blue Zone” e “Green Zone”. Piuttosto, secondo la lettera, sarebbe meglio organizzare un maggior numero di eventi intermedi tra una COP e l’altra, finalizzati a raggiungere scopi precisi e fatti coinvolgendo tutte le parti della società civile.
L’idea alla base della proposta è che si potrebbe ottenere una maggiore efficienza nel decidere iniziative internazionali di contrasto alla crisi climatica se il processo decisionale fosse da un lato continuo nel tempo e dall’altro più settorializzato. Per il Club di Roma uno dei problemi delle COP attuali è anche il fatto che attraggono una grossa attenzione mediatica in pochi giorni, spingendo molti capi di stato e di governo a fare dichiarazioni in occasione delle conferenze più per ragioni propagandistiche che per prendere impegni seri.
Tra le persone che hanno firmato la lettera ci sono l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Irlanda ed ex alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani Mary Robinson, l’economista Laurence Tubiana, che è stata una degli artefici dell’Accordo di Parigi, e Johan Rockström, direttore dell’Istituto di ricerca sull’impatto climatico di Potsdam (PIK) e ideatore della cosiddetta “carbon law”, secondo cui ogni decennio dovremmo dimezzare le emissioni totali di gas serra per arrivare alla neutralità carbonica entro il 2050.
Le varie critiche ricevute sembrano essere state prese in considerazione dall’UNFCCC. A giugno, durante un incontro intermedio tra la COP27 e la COP28 a Bonn, in Germania, Stiell aveva riconosciuto per la prima volta le preoccupazioni sull’influenza del settore petrolifero oltre a quelle sulla nomina a presidente di Dubai di Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), l’azienda petrolifera statale emiratina.
Stiell aveva detto che l’UNFCCC sta pensando a possibili riforme per evitare conflitti d’interessi e garantire trasparenza, ma aveva anche ricordato che devono essere le parti delle COP a decidere eventuali cambiamenti riguardo ai paesi in cui organizzarle e a come sceglierne i presidenti.
Altre proposte di riforma sono arrivate di recente anche dal parlamentare britannico Chris Skidmore, che da ministro del governo di Boris Johnson aveva firmato l’impegno del Regno Unito a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Skidmore è il co-autore di uno studio approfondito sulla storia delle COP e dei loro risultati. Sulla base di tale analisi ritiene a sua volta che le conferenze sul clima andrebbero ridimensionate perché il formato attuale, così come la partecipazione dei capi di stato e di governo, distraggono dagli obiettivi concreti.
Skidmore pensa inoltre che: l’UNFCCC dovrebbe pianificare meglio le agende delle COP perché attualmente portano a discutere degli stessi argomenti in diversi momenti; le aziende e le organizzazioni della società civile dovrebbero essere coinvolte a livello nazionale e non internazionale; e soprattutto le COP dovrebbero avere dei mezzi per verificare e accertare il rispetto degli impegni presi dai vari paesi nel tempo.
Al di là delle critiche e delle proposte di riforma comunque gli addetti ai lavori delle COP e delle iniziative internazionali per il contrasto del cambiamento climatico e dei suoi effetti dannosi sono concordi sul fatto che non c’è un’alternativa al sistema delle COP. E spesso ne evidenziano un importante merito, menzionato per esempio da Jennifer Morgan, inviata speciale per l’azione climatica internazionale del governo tedesco, alla giornalista del New Yorker Elizabeth Kolbert: «Le COP sono l’unico contesto in cui i paesi più vulnerabili si siedono al tavolo delle trattative. E questo è importantissimo perché cambia le dinamiche: obbliga i paesi che emettono più gas serra ad ascoltare paesi come Vanuatu [un arcipelago del Pacifico molto minacciato dall’innalzamento del livello del mare, ndr] e sentire cosa succederà se non agiamo».