Anche le teorie bizzarre possono essere utili
Un dibattito nelle neuroscienze su una nota teoria della coscienza ha stimolato alcune riflessioni sul valore delle ipotesi controintuitive per i fenomeni difficili da spiegare
A settembre un gruppo di 124 studiosi di neuroscienze in diverse università e istituti nel mondo ha pubblicato sulla piattaforma di condivisione di articoli in formato preprint PsyArXiv una lettera in cui definisce «pseudoscienza» una teoria molto nota tra chi si occupa del problema della coscienza, formulata nei primi anni Duemila: la teoria dell’informazione integrata (Integrated Information Theory of Consciousness, IIT). Secondo gli autori e le autrici della lettera alcuni esperimenti recenti utilizzati per verificare la validità della teoria non erano strutturati in un modo che ne mettesse seriamente in discussione i princìpi fondamentali, e molte delle affermazioni solitamente associate alla teoria non sono verificabili e sono quindi non scientifiche.
La lettera ha stimolato una serie di riflessioni epistemologiche sulla definizione, sul valore e sui limiti delle teorie scientifiche, in un dibattito esteso e molto raccontato a cui hanno preso parte diversi studiosi che lavorano nel campo della ricerca sulla coscienza, chiedendosi quali organismi o sistemi fisici ne siano provvisti e quali no, e sulla base di cosa sia possibile stabilirlo. La principale obiezione alla lettera è che la teoria dell’informazione integrata, per quanto strana e inverosimile possa apparire, ha favorito negli ultimi vent’anni un’espansione significativa della ricerca su una delle questioni più trasversali e complesse nelle scienze umane e in quelle naturali.
Inoltre, secondo le persone che contestano gli argomenti della lettera, il fatto che non esistano prove sufficienti né per confermare né per smentire la teoria, a causa di limiti contingenti che impediscono di verificarla, non la rende di per sé pseudoscientifica. Alcuni studiosi considerano molto grave questa accusa perché pensano che screditi una teoria complicata e ambiziosa, trascurando quanto sia invece utile – e probabilmente necessario – un pensiero creativo e in una certa misura folle per arrivare a una spiegazione scientifica di un fenomeno sfuggente come la coscienza.
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L’idea alla base della teoria dell’informazione integrata risale a un articolo pubblicato nel 1998 sulla rivista Science, in cui i due autori – il neuroscienziato e psichiatra italiano Giulio Tononi e il biologo statunitense Gerald Edelman (premio Nobel per la medicina nel 1972 per le sue ricerche sul sistema immunitario) – associarono la coscienza a un certo grado di complessità di un sistema fisico, teoricamente misurabile in termini matematici. Tononi formulò poi la teoria in un articolo uscito nel 2004 e la perfezionò nel corso degli anni successivi lavorando insieme ad altri neuroscienziati, tra cui lo statunitense Christof Koch.
Qualunque cosa sia, secondo Tononi, la coscienza ha a che fare con la capacità di un sistema di integrare le informazioni. Nello specifico è una certa quantità – espressa tramite la lettera greca Φ (phi) – presente in qualsiasi sistema che sia in grado di generare più informazioni di quante potrebbero generarne le parti di cui il sistema è composto, lavorando indipendentemente l’una dall’altra. La coscienza negli esseri umani, come negli altri organismi o anche in entità non biologiche, si spiegherebbe quindi con la loro capacità di trasmettere, integrare e generare grandi quantità di informazioni a partire da diversi input sensoriali.
Quando mangiamo un gelato, per esempio, ne percepiamo allo stesso tempo sia la dolcezza che la consistenza: due informazioni distinte. Secondo la teoria dell’informazione integrata, Φ è la misura della capacità di un certo sistema – per esempio un circuito cerebrale – di integrare più informazioni: sia la dolcezza che la consistenza, nel caso del gelato (ma anche la temperatura e tutto il resto). Quante più informazioni particolari e dettagliate un sistema è in grado di integrare, tanto più alto sarà il suo valore Φ, che per Tononi è una misura diretta della coscienza: più alto è il valore, più il sistema è cosciente.
Come spiegato dal neuroscienziato inglese Anil Seth sulla rivista Nautilus, la principale ragione del successo e dell’influenza della teoria dell’informazione integrata – da lui definita controintuitiva e abbastanza folle – è che capovolge l’approccio neuroscientifico standard al problema della coscienza, sostanzialmente incentrato sul cervello. Anziché considerare già in partenza la coscienza una proprietà che emerge dall’attività neurale nel cervello, la teoria parte dall’individuazione di alcune caratteristiche che devono essere condivise da tutte le esperienze coscienti, e poi si chiede quali proprietà un qualsiasi sistema fisico – non per forza il cervello – debba avere affinché quelle caratteristiche siano presenti.
Una delle ragioni per cui la teoria è solitamente presa molto sul serio in diversi ambiti accademici è che a differenza di altre teorie offre l’opportunità di considerare la coscienza un fenomeno misurabile, presente in sistemi diversi e in gradi diversi, anziché una proprietà che può essere solo o presente o assente. Animali non umani come topi e gatti, sulla base di questa teoria, potrebbero avere un certo grado di coscienza, anche se inferiore a quello degli esseri umani.
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La teoria potrebbe inoltre spiegare perché alcune strutture neurali, per quanto complesse, non sembrano implicare che ci sia coscienza nel sistema, scrisse nel 2013 sul New Yorker lo scienziato cognitivo e psicologo statunitense Gary Marcus. Il cervelletto codifica le informazioni relative alle funzioni motorie e contiene un numero enorme di neuroni, per esempio, ma non integra la quantità e varietà di informazioni elaborate nella corteccia prefrontale, che svolge invece un ruolo fondamentale per i comportamenti cognitivi complessi.
Una conseguenza logica della teoria dell’informazione integrata, per come è stata sviluppata nel corso degli anni, è che in linea di principio qualsiasi sistema con un Φ maggiore di zero ha un certo grado minimo di coscienza. Potrebbero essere coscienti molti organismi e persino sistemi non biologici – anche relativamente semplici come un dispositivo informatico – a cui non saremmo normalmente portati ad attribuire alcun grado di coscienza. Questo risvolto è ciò che ha portato molti critici della teoria a definirla una forma di panpsichismo, cioè l’idea secondo cui la coscienza sarebbe presente dappertutto nell’universo: «come marmellata spalmata su un pezzo di pane», scrisse il filosofo statunitense John Searle.
Secondo altri studiosi il principale limite della teoria dell’informazione integrata è soltanto tecnico: riguarda il modo di calcolare il valore Φ, che secondo Tononi riflette quanta informazione i meccanismi di un sistema sono in grado di generare. L’unico modo per saperlo con precisione è calcolare il numero esponenzialmente alto di modi in cui un certo sistema neurale può essere organizzato, tenendo in considerazione ogni possibile configurazione delle sue parti: più il sistema è complesso, più il calcolo sarà difficile. Questa difficoltà è ciò che rende la teoria suggestiva e in linea di principio anche molto precisa, ma al momento poco utile nella pratica.
Considerando che nel cervello umano sono presenti circa 86 miliardi di neuroni, per esempio, non esiste al momento un modo per calcolare il numero di configurazioni possibili in un sistema di questo tipo, e nemmeno in un sistema meno complesso come il cervello di un gatto. Che un essere umano abbia un Φ molto più alto rispetto a quello di un gatto è qualcosa che riusciamo facilmente a intuire senza bisogno di calcoli, ma è molto difficile dire con precisione quanto più alto sia il valore di uno rispetto a quello dell’altro.
Una delle critiche espresse nella lettera è che la teoria dell’informazione integrata sia da tempo oggetto di un eccessivo interesse dei media, a scapito di altre teorie della coscienza. Per esempio, un’altra teoria – la teoria dello spazio di lavoro neuronale globale (Global Neuronal Workspace Theory, GNWT) – paragona la coscienza a una sorta di luce che illumina il palco di un teatro. Ipotizza che emerga da un insieme di informazioni provenienti dai sensi e da altri processi cognitivi e moduli specializzati che operano in parallelo, perlopiù a livello inconscio, e competono per l’attenzione. Agli elementi che vincono la competizione viene dato accesso al pensiero cosciente (lo «spazio di lavoro globale»).
La paura condivisa dai firmatari della lettera – tra i quali il filosofo statunitense Daniel Dennett, uno dei più citati autori di studi di scienze cognitive – è che l’attenzione mediatica verso una sola teoria possa indurre gli studiosi più giovani a ritenere quella teoria più solida di quanto non sia, sopravvalutando i risultati di prove sperimentali al momento ancora molto limitate e poco significative.
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Può essere difficile cogliere al di fuori dell’ambito accademico il senso della polemica sul valore della teoria dell’informazione integrata rispetto ad altre teorie della coscienza, considerato quanto è complicato in generale riflettere sulla coscienza. Vista dall’esterno, ha scritto il neuroscienziato inglese Paul Fletcher, sembra una disputa tra persone in piedi su scale a pioli di varie altezze che litigano su chi tra loro sia più vicino alla Luna. Ma i toni molto accesi diventano subito più comprensibili, ha detto Seth all’Atlantic, se si considera che il campo della ricerca sulla coscienza è stato a lungo trascurato e spesso delegittimato nella psicologia e nelle scienze cognitive tradizionali, ed è ancora scarsamente finanziato.
Lo scrittore e neuroscienziato statunitense Erik Hoel, che fu allievo di Tononi durante il dottorato alla University of Wisconsin–Madison, ha definito «irresponsabile» la lettera indipendentemente dal contenuto specifico. Rendere note all’esterno le discussioni che avvengono all’interno di un campo di ricerca così fragile e recente, secondo Hoel, potrebbe portare a «un altro “inverno della coscienza” in cui il solo parlarne sia considerato una sciocchezza pseudoscientifica», come lo è stato per gran parte del XX secolo.
Hoel ha anche definito pesante e pericolosa l’accusa di «disinformazione scientifica» rivolta dagli autori e dalle autrici della lettera ai giornali e alle riviste che si sono occupati recentemente della teoria dell’informazione integrata, tra cui Science, New York Times ed Economist. A meno che non sia vietato in assoluto dire niente della teoria, ha scritto, è disonesto descrivere quegli articoli utilizzando un’espressione solitamente usata nel dibattito pubblico per descrivere teorie come la negazione del cambiamento climatico.
La critica più contestata tra quelle contenute nella lettera è l’equiparazione tra la teoria dell’informazione integrata e le pseudoscienze, che secondo diversi studiosi significa avere un’idea molto limitata delle teorie scientifiche. Il fatto che una teoria porti a intuizioni e previsioni controintuitive, secondo Hoel, non la rende necessariamente pseudoscientifica. Gli organoidi cerebrali, per esempio, sono frammenti di cervello umano clonato coltivati in piastre di Petri e usati come modelli per studiare malattie neurodegenerative. «Dire che potrebbero avere una coscienza non è affatto esagerato», ha scritto Hoel, dal momento che le stesse agenzie di regolamentazione hanno considerato questa possibilità.
Del resto l’idea che i feti possano avere un flusso di coscienza per molte persone è accettabile, fa notare Hoel, ed è alla base di un esteso dibattito politico. Anche l’idea che le piante possano essere coscienti, per quanto impopolare, non è di per sé non verificabile né antiscientifica.
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Secondo Hoel uno dei principali limiti della teoria dell’informazione integrata è allo stesso tempo proprio la ragione per cui è un buon modello: è una teoria «ben formalizzata», nel senso che può essere applicata a qualsiasi sistema – il cervello umano, quello di un alieno, un laptop – per stabilire se quel sistema è cosciente oppure no, e in che misura. Il che non implica che sia una teoria corretta: significa soltanto che è in grado di dare sempre una risposta, e «nessun’altra teoria della coscienza può farlo». Se una qualsiasi tra queste arrivasse mai allo stesso livello di formalizzazione della teoria dell’informazione integrata, ne erediterebbe probabilmente molti dei problemi.
Sia la riflessione di Hoel che altre sembrano infine suggerire che esista una relazione tra quanto un certo fenomeno sia difficile da spiegare scientificamente e quanto debba essere ambiziosa una teoria che cerchi di farlo. Definendo pseudoscientifica «l’unica teoria popolare della coscienza abbastanza ambiziosa da consentire una vera critica dei suoi dettagli si ottiene un solo risultato: seppellire le teorie scientifiche della coscienza per altri cento anni», ha scritto Hoel.
Per quanto controversa sia la teoria dell’informazione integrata, ha scritto Seth su Nautilus, definirla pseudoscientifica pone una serie di problemi. La scienza è lo studio sistematico dei fenomeni naturali attraverso l’osservazione, la descrizione, la teoria e l’esperimento, e le teorie sono scientifiche se sono verificabili, se sono sensibili rispetto alle prove e se hanno potere predittivo ed esplicativo, ha scritto Seth. La pseudoscienza è invece qualcosa che sembra scientifico, ma non lo è per alcuni aspetti significativi: sono pseudoscienze l’omeopatia e l’astrologia, per esempio, perché non sono sostenute da prove sperimentali e mancano di qualsiasi meccanismo plausibile di funzionamento.
Il fatto che una teoria possa portare a conclusioni strane, magari non ancora verificabili, non significa che sia pseudoscientifica. Per definirla scientifica potrebbe bastare che altri aspetti della teoria siano verificabili, come succede normalmente in molti ambiti della scienza. La relatività generale, fa notare Seth, implica cose non direttamente verificabili, come le singolarità (l’oggetto massiccio al centro dei buchi neri, di cui non conosciamo le caratteristiche), che sono verificabili in altri modi.
Nel definire la teoria dell’informazione integrata una teoria «non verificabile nel suo insieme» i firmatari della lettera sembrano fare in parte riferimento alla falsificabilità descritta nel XX secolo dal filosofo ed epistemologo austriaco Karl Popper come criterio di demarcazione tra la scienza e ciò che non lo è. Secondo Popper una teoria è verificabile e quindi scientifica soltanto se confutabile, cioè soltanto se ammette la possibilità di essere smentita da esperimenti o osservazioni. Ciò non implica tuttavia che una teoria che abbia condotto a una predizione falsa non possa essere corretta e debba necessariamente essere scartata.
Attribuire scientificità o meno a una teoria sulla base di questo paradigma «pone l’asticella molto in alto», secondo Seth: perché i metodi sperimentali sono in continuo miglioramento e le teorie possono adattarsi e cambiare nel tempo, oppure possono avere valore esplicativo e predittivo anche se alcuni aspetti non sono ancora verificabili sperimentalmente. Seth fa l’esempio della teoria dell’evoluzione, i cui aspetti fondamentali – come i meccanismi alla base dell’ereditarietà – diventarono verificabili soltanto molto tempo dopo il primo sviluppo della teoria.
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Seth contrappone alla prospettiva di Popper la metodologia del matematico ed epistemologo ungherese Imre Lakatos, secondo il quale un programma di ricerca (un insieme di teorie) è «progressivo» e scientifico se serve a generare previsioni che hanno valore esplicativo e sono verificabili. Al contrario, un programma è «degenerante» e pseudoscientifico se non serve a prevedere nuovi fatti, o se nessuno dei fatti che prevede può essere verificato.
Da questa prospettiva, secondo Seth, la teoria dell’informazione integrata è una teoria pienamente scientifica: i suoi principi fondamentali sono molto difficili da verificare – e la stessa cosa si potrebbe dire per altre teorie della coscienza – ma molte previsioni che genera sono verificabili. «Man mano che queste previsioni saranno messe alla prova in esperimenti sempre più sofisticati, capiremo se la teoria è produttiva o degenerante», ha scritto, ricordando che i risultati di una serie di esperimenti recenti che mettevano alla prova diverse teorie della coscienza contrapposte non ne hanno confermata nessuna ma nemmeno permettono, al momento, di scartarne nessuna.
Ribadire lo status di scientificità della teoria dell’integrazione dell’informazione è importante indipendentemente dal valore e dai limiti della teoria, conclude Seth citando una frase dello statistico inglese George Box: «Ricorda che tutti i modelli sono sbagliati; il punto nella pratica è quanto devono essere sbagliati per non essere utili». È abbastanza probabile che la teoria dell’integrazione dell’informazione sia sbagliata, così come è possibile che sia più sbagliata di altre teorie sulla coscienza: ciononostante può comunque essere «utilmente sbagliata», perché può ispirare altre teorie correlate.
Considerare idee controintuitive, o anche teorie empiricamente sbagliate, potrebbe inoltre essere ancora più utile in un ambito in cui, nonostante i progressi più recenti, «persiste un profondo senso di mistero sulla natura della coscienza e sulla sua relazione con il cervello, i corpi e il mondo fisico in generale». Potremmo anche scoprire un giorno che la risposta a molte delle domande sulla coscienza è più semplice di quello che solitamente le persone immaginano, sostiene Seth, ma «sembra improbabile che arriveremo a una spiegazione scientifica soddisfacente della coscienza senza un pensiero radicalmente creativo».