Di cosa si parlerà alla COP28 di Dubai
I temi principali sono la riduzione delle emissioni (al solito) e il fondo per compensare i paesi più danneggiati dal riscaldamento globale
Il 30 novembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, inizia la 28esima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, in breve COP28, la grande riunione internazionale che si tiene ogni anno in un paese diverso e ha l’obiettivo di cercare di contrastare gli effetti del riscaldamento globale.
Le COP sono eventi complessi che hanno un proprio gergo tecnico e i cui accordi si basano sulle sottigliezze dei rapporti diplomatici, e si ha spesso l’impressione che non abbiano conseguenze effettive. In parte è una sensazione corretta, perché ognuna di queste conferenze è sostanzialmente un aggiornamento di una complessa e lenta trattativa che va avanti da quasi trent’anni per mettere d’accordo quasi duecento paesi con interessi vari e diversi. Solo raramente raggiunge obiettivi davvero significativi, e anche questi finora sono sempre stati molto limitati rispetto alle maggiori ambizioni di intervento: un esempio è l’Accordo di Parigi raggiunto alla COP21 del 2015. In quell’occasione si fissò come obiettivo comune il mantenere l’aumento di temperatura media globale rispetto all’epoca pre-industriale inferiore a 2 °C.
Sebbene facciano progressi molto lentamente e senza mai risolvere definitivamente nessun aspetto del cambiamento climatico, le COP restano il contesto in cui la comunità internazionale nel suo insieme si occupa di questa crisi, che è la più grande che l’umanità deve affrontare e, forse, abbia mai affrontato. In particolare, i tre temi principali della COP28 saranno come e quando ridurre l’uso dei combustibili fossili, una valutazione su cosa è stato fatto finora e l’istituzione di un fondo per compensare i paesi più minacciati dal cambiamento climatico per danni e perdite.
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Riduzione dell’uso dei combustibili fossili
L’obiettivo principale della COP28 è fare progressi nei negoziati che riguardano i tempi e i modi della transizione energetica, cioè il passaggio dall’uso di combustibili fossili come carbone, petrolio e gas naturale come principali fonti di energia all’uso di fonti che non causano emissioni di gas serra.
Nell’accordo finale approvato alla COP26, tenutasi due anni fa a Glasgow, in Scozia, era stato menzionato esplicitamente il carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, e si era stabilito di «ridurne gradualmente» l’uso. Da un lato era stato un successo inserire la parola «carbone» nel documento: fino al 2021, anche se può apparire paradossale, non era mai successo che un combustibile fossile fosse citato espressamente in un accordo finale di una COP. Dall’altro non era stato possibile prendere un impegno maggiore: la prima bozza del documento parlava esplicitamente di «eliminare gradualmente l’uso del carbone e i finanziamenti per i combustibili fossili», ma questa formulazione era stata abbandonata nel corso delle trattative.
L’anno dopo, la COP27 di Sharm el-Sheikh si concluse con un impegno vago a ridurre le emissioni, senza specificare alcun combustibile.
Alla COP28 di Dubai l’Unione Europea, che è uno dei gruppi di paesi più interessati a eliminare gli usi più inquinanti dei combustibili fossili, cercherà di ottenere un impegno a chiudere entro il 2050 le centrali elettriche alimentate con carbone, petrolio e gas che non sono dotate di tecnologie per la cattura e il sequestro (CCS) dell’anidride carbonica (CO2), il principale gas serra, al momento della sua emissione. L’Unione Europea proporrà anche una riduzione dei sussidi pubblici all’industria dei combustibili fossili, che comprendono sia finanziamenti per la ricerca di nuovi giacimenti e per lo sviluppo di tecnologie per sfruttarli, sia le iniziative per calmierare i prezzi di carburante ed energia nelle case.
Questa proposta probabilmente sarà osteggiata dai paesi in via di sviluppo, che vorrebbero poter sfruttare i combustibili fossili per far crescere la propria economia come hanno fatto per decenni i paesi più sviluppati.
Secondo fonti dell’agenzia di stampa Reuters, l’India, uno dei più grandi paesi in via di sviluppo, chiederà un maggiore impegno a ridurre le proprie emissioni di gas serra da parte dei soli paesi sviluppati. Nello specifico proporrà che arrivino a emetterne meno di quanti ne sottraggono dall’atmosfera (nel gergo di questo ambito si parla di “negatività carbonica”) entro il 2050. L’idea è che se i paesi più sviluppati produrranno meno emissioni, quelli in via di sviluppo potranno continuare a produrne in misura maggiore per più tempo. Alla COP26 l’India si era impegnata ad arrivare alla “neutralità carbonica”, cioè a emettere gas serra in misura pari a quanti ne assorbe, entro il 2070.
Per quanto riguarda il petrolio e il gas naturale, alla COP28 la discussione si concentrerà su un tipo di emissioni molto specifico: quelle che l’industria petrolifera produce quando estrae e lavora questi combustibili, ma non quelle che si producono bruciandoli per ottenere energia. È una differenza sostanziale, di cui si dovrà tenere conto nel giudicare gli esiti della COP di Dubai, perché la stragrande maggioranza delle emissioni dovute a petrolio e gas sono diffuse nell’atmosfera al momento del loro consumo e non prima.
Infine si discuterà sicuramente anche di impegni ad aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili nei prossimi decenni e su questo tema è verosimile che venga trovato un accordo internazionale.
Cosa abbiamo fatto finora
L’Accordo sul clima di Parigi tra le altre cose prevede un impegno a controllare i progressi compiuti ogni cinque anni nel contrasto al riscaldamento globale, in un processo di controllo e verifica che si chiama “Global Stocktake” o GST, cioè “Inventario globale”. A Dubai si concluderà il primo di questi controlli, in sostanza una specie di grosso studio per misurare e stimare gli effetti delle politiche climatiche. È stato fatto coinvolgendo la comunità scientifica, numerose istituzioni e società private del mondo e ha lo scopo di permettere di valutare gli effetti delle iniziative concrete intraprese finora e degli impegni di riduzione delle emissioni prese dai paesi del mondo.
In molta sintesi le conclusioni del primo GST sono che quanto è stato fatto dal 2015 a oggi non è sufficiente per mantenere l’aumento della temperatura media globale rispetto all’epoca preindustriale al di sotto di 1,5 °C, l’obiettivo più ambizioso indicato nell’Accordo di Parigi. Il primo dicembre i leader di molti paesi interverranno alla COP e commenteranno i risultati del GST. Poi nei prossimi due anni i paesi dovranno aggiornare le proprie promesse di riduzione delle emissioni, prendendone di più impegnative, per allinearle con gli obiettivi di Parigi.
Le compensazioni per i paesi più minacciati dal cambiamento climatico
Il principale risultato dell’ultima COP, quella di Sharm el-Sheikh, era stato un accordo per istituire un fondo di compensazione per i paesi in via di sviluppo più esposti agli effetti del cambiamento climatico (in inglese si usa l’espressione “loss and damage”, “perdite e danni”). Si parla di compensazione perché la responsabilità del riscaldamento globale non è condivisa equamente da tutta l’umanità: è principalmente dei paesi con economie più sviluppate, come gli Stati Uniti e alcuni paesi europei, che storicamente hanno prodotto maggiori emissioni di gas serra e continuano a farlo.
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Il mese scorso, in occasione di un incontro ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, è stato messo a punto un accordo sulle caratteristiche che dovrà avere il fondo di compensazione. Il testo non parla di responsabilità storiche, che né i paesi dell’Unione Europea né gli Stati Uniti vogliono ammettere per evitare contenziosi legali, ma dovrebbe comunque essere un passo avanti su una questione che preoccupa molto tanti paesi.
La bozza di accordo potrebbe subire delle modifiche durante la COP di Dubai perché non tutti i paesi ne sono soddisfatti. Ad esempio perché prevede che la Banca Mondiale, l’istituzione internazionale che comprende la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo e l’Agenzia internazionale per lo sviluppo, faccia da intermediaria per i negoziati e stabilisca le tempistiche di distribuzione delle risorse raccolte nel fondo. Molti paesi in via di sviluppo temono che il coinvolgimento della Banca Mondiale, molto legata agli Stati Uniti, possa favorire i paesi sviluppati.
C’è poi un certo disaccordo su quali siano i paesi da considerare più minacciati dal cambiamento climatico e aventi diritto ai fondi: questo aspetto non è ancora stato chiarito. D’altra parte l’Unione Europea e gli Stati Uniti vorrebbero che partecipassero al fondo come finanziatori anche paesi che all’epoca delle prime COP non erano considerati economie sviluppate ma che di fatto sono responsabili di una grande quantità di emissioni, come Cina e Arabia Saudita.
Un altro tema su cui ci sono posizioni diverse è se i paesi sviluppati siano obbligati a versare risorse nel fondo oppure se possano contribuirvi in maniera volontaria.
Viste le divergenze di posizioni su tutti questi aspetti è possibile che durante la COP28 non si riesca a raggiungere un accordo sull’istituzione del fondo per le compensazioni: se succederà sarà un grosso fallimento per la conferenza.
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