Come si è arrivati alla tregua tra Israele e Hamas
I negoziati sono iniziati poco dopo l'inizio della guerra, ma per mettere d'accordo le parti ci è voluto un mese e mezzo e lo sforzo diplomatico di diversi paesi
I negoziati che hanno portato a una tregua di quattro giorni nei combattimenti tra Israele e il gruppo armato palestinese Hamas erano cominciati già a pochi giorni dall’inizio della guerra, circa una settimana dopo il feroce attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre. Ci è voluto però un mese e mezzo e lo sforzo diplomatico di diversi paesi per soddisfare le richieste di entrambe le parti e arrivare infine a un accordo, che tuttora è comunque descritto come fragile e a rischio di saltare in ogni momento se qualcosa non dovesse andare secondo i piani.
Per portare avanti le trattative nella massima segretezza le discussioni hanno dovuto coinvolgere solo poche persone. A Doha, in Qatar, è stato creato un gruppo di lavoro molto ristretto per coordinare le discussioni (una “cellula” speciale per la negoziazione degli ostaggi, come è stata definita), composto da funzionari statunitensi, qatarioti ed egiziani, oltre che israeliani. La “cellula” di Doha serviva a stabilire una via di comunicazione diretta con i funzionari di Hamas. Il Wall Street Journal ha definito le trattative «uno dei negoziati sugli ostaggi più complicati della storia moderna».
L’accordo è stato confermato ufficialmente mercoledì. Se reggerà, dovrebbe portare a partire da venerdì pomeriggio alla liberazione di 50 ostaggi rapiti in Israele il 7 ottobre da Hamas e di 150 prigionieri palestinesi detenuti in Israele, oltre all’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, che Israele bombarda dal 7 ottobre e che ha invaso militarmente. Intorno a questi punti fermi però ci sono moltissimi dettagli sulle modalità e sulle condizioni per realizzare la tregua che hanno reso necessarie discussioni fino all’ultimo, facendo persino ritardare di un giorno l’inizio dell’accordo quando era già stato annunciato (da giovedì a venerdì). Lo svolgimento dei combattimenti ha influito moltissimo sulle difficoltà dei negoziati, che si sono interrotti più volte.
Alcuni giornali internazionali, tra cui il Wall Street Journal e Associated Press, hanno parlato con diversi funzionari dei vari paesi coinvolti nelle discussioni per ricostruire come si sia arrivati all’accordo e quali siano stati i problemi più difficili da superare.
La parte più difficile dei negoziati era dover mettere d’accordo due parti profondamente nemiche e agguerrite come Israele e Hamas, che al momento non hanno alcun canale di comunicazione diretto. Gran parte di questo compito era affidato alla presenza tra i negoziatori del Qatar, un paese che ha solidi rapporti con entrambi e che era già stato decisivo in passato in mediazioni di questo genere.
Semplificando molto, la divisione degli sforzi diplomatici all’interno della “cellula” di Doha funzionava più o meno così: i funzionari del Qatar dovevano fare pressione sui leader politici di Hamas, la maggior parte dei quali vive proprio in Qatar col benestare dello stato; gli Stati Uniti dovevano fare pressione su Israele, loro storico alleato a cui forniscono grandi aiuti economici; l’Egitto invece doveva mantenere una linea di comunicazione con i leader di Hamas dentro la Striscia di Gaza, di cui si è guadagnato la fiducia in precedenti negoziazioni durante altre guerre con Israele. In particolare l’Egitto doveva parlare con Yahya Sinwar, il leader di Hamas nella Striscia che nel 2011 fu coinvolto in prima persona in un grande scambio di prigionieri, quando Israele liberò più di mille palestinesi per ottenere il rilascio di un singolo soldato israeliano detenuto da Hamas, Gilad Shalit.
Il primo successo ottenuto dal gruppo per i negoziati era stato il rilascio da parte di Hamas di due donne americane che erano tenute in ostaggio, avvenuto il 20 ottobre: in quel momento però non si sapeva niente del fatto che fossero in corso trattative di questo genere e non si capì bene il motivo della liberazione dei due ostaggi. Un funzionario statunitense ha detto al Washington Post che quella operazione doveva servire come prova per capire se il dialogo tra Israele e Hamas potesse davvero funzionare e come sarebbe potuta avvenire la liberazione di altri ostaggi in termini pratici. Una volta andato a buon fine quel tentativo, le trattative si sono intensificate.
Il 21 ottobre Hamas aveva proposto di liberare un nutrito gruppo di donne e bambini se Israele avesse abbandonato il piano di invadere la Striscia di Gaza, cosa che sarebbe avvenuta il 27 ottobre. Quella proposta, più volte rivendicata da Hamas nei giorni successivi a scopi propagandistici, venne rifiutata da Israele perché Hamas non aveva fornito prove che gli ostaggi fossero vivi, né una lista dettagliata delle persone che intendeva liberare. Questa condizione è stata invece inclusa nell’accordo sulla tregua di questi giorni: la lista degli ostaggi e dei prigionieri da liberare è stata condivisa in anticipo tra le parti.
Nei giorni successivi il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim al Thani, propose agli Stati Uniti di organizzare il rilascio di donne e bambini israeliani in cambio di prigionieri palestinesi e dell’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia che comprendessero anche il carburante. I mediatori qatarioti ed egiziani riferirono la proposta ad Hamas e in particolare a Sinwar, che accettò: disse di poter liberare 50 donne e bambini, ma di non poterli identificare tutti, e presentò solo una lista di 10 nomi. Gli Stati Uniti rifiutarono.
In quei giorni cominciò l’invasione di terra della Striscia da parte di Israele. I funzionari israeliani dissero agli altri mediatori di essere convinti che l’operazione avrebbe messo pressione ad Hamas per rendersi più disponibile nei negoziati. Con l’inizio dell’invasione però Sinwar interruppe le comunicazioni con i negoziatori egiziani.
Mohammed al Khulaifi, negoziatore qatariota, ha detto al Wall Street Journal che gli sviluppi della guerra sul campo hanno «influenzato enormemente i negoziati», soprattutto dopo l’invasione. Dopo essere riprese per qualche giorno, per esempio, le discussioni si interruppero di nuovo bruscamente dopo l’attacco israeliano del 31 ottobre nel campo profughi di Jabalia: Israele disse di aver colpito alcuni leader di Hamas che si nascondevano nella zona, ma il bombardamento uccise più di 100 civili palestinesi e distrusse molti edifici. Non solo Hamas, ma anche l’Egitto e il Qatar bloccarono le negoziazioni per protesta contro quel bombardamento israeliano.
– Leggi anche: Il bombardamento israeliano sul campo profughi di Jabalia
I giorni che seguirono furono quelli di minori progressi per i negoziati, così intervennero il direttore della CIA, l’agenzia di intelligence americana per l’estero, e quello del Mossad, l’agenzia di intelligence per gli esteri di Israele, che andarono a Doha per provare a sbloccare la situazione.
In queste settimane il governo israeliano e i leader dell’esercito hanno detto più volte di essere determinati a eliminare del tutto Hamas a qualsiasi costo, ma allo stesso tempo il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato messo sotto pressione dalle proteste interne con cui una parte consistente della popolazione lo ha accusato di non fare abbastanza per gli ostaggi. Più i combattimenti vanno avanti e più si fa concreto il rischio che gli ostaggi vengano uccisi, da Hamas o negli stessi bombardamenti israeliani.
Dopo diversi giorni di intense discussioni, il 12 novembre Hamas fornì per la prima volta una lista completa di ostaggi che avrebbero potuto essere liberati. Dopo poco però i negoziati si bloccarono di nuovo per via dell’assedio dall’esercito israeliano all’ospedale al Shifa, il più grande della Striscia di Gaza, sotto al quale Israele ritiene che si trovi il principale centro di comando di Hamas. Sinwar disse ai negoziatori egiziani che Hamas avrebbe rinunciato del tutto a qualsiasi accordo se Israele non avesse interrotto l’operazione nell’ospedale.
Sempre il 12 novembre intervenì in prima persona il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che chiamò l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, per chiedere maggiori informazioni sui 50 ostaggi che Hamas era disposto a liberare: Biden chiedeva almeno l’età, il genere e la nazionalità, e disse che senza quei dettagli i negoziati sarebbero falliti una volta per tutte. Il 16 novembre si arrivò a una lista più completa: a quel punto è stato il turno di Biden di fare pressione su Israele perché accettasse un accordo.
Nei giorni successivi si è cominciato a discutere più concretamente dei termini dell’accordo, con le due parti che avevano idee diverse sulla durata della tregua e sul rapporto dello scambio tra ostaggi e prigionieri. Alla fine la tregua stipulata nell’accordo dovrebbe durare 4 giorni, e per ogni ostaggio israeliano dovrebbero essere liberati 3 prigionieri palestinesi. Hamas chiedeva anche che durante la tregua Israele interrompesse la sorveglianza aerea su Gaza: un punto particolarmente delicato per Israele, che inizialmente non voleva cedere per non permettere ai leader di Hamas di nascondersi, fuggire dalla Striscia e riorganizzarsi. La situazione si è sbloccata, Israele ha accettato di interrompere la sorveglianza aerea nel sud della Striscia per tutta la durata della tregua, mentre al nord solo per 6 ore al giorno.
Hamas ha accettato ufficialmente l’accordo martedì 21 novembre, Israele il giorno successivo dopo un incontro del governo. A sorpresa, però, nella notte tra mercoledì e giovedì Israele aveva annunciato che la tregua sarebbe stata ritardata di un giorno, da giovedì a venerdì: secondo i negoziatori Hamas aveva chiesto una lista dei prigionieri palestinesi che Israele aveva intenzione di liberare, ma Israele si era rifiutato di darla. Alla fine si è trovato un accordo per cui giorno per giorno le due parti si scambieranno le liste con i nomi delle persone che verranno liberate nelle successive 24 ore.
Giovedì sera si stava ancora discutendo su quale strada avrebbero dovuto percorrere gli ostaggi israeliani liberati dalla Striscia di Gaza, alle 7 di venerdì è iniziata la tregua.