Gli uomini nel dibattito sul femminicidio, secondo le femministe
Sui giornali e sui social network molti maschi stanno provando a riflettere sulla violenza di genere: cosa ne pensa chi lo fa da sempre?
La grande attenzione mediatica data al femminicidio di Giulia Cecchettin, eccezionale rispetto a quella riservata a molti altri casi simili, ha avuto una conseguenza evidente: sui giornali e sui social ci sono stati molti più uomini del solito che hanno riflettuto sulla violenza maschile contro le donne, partendo dalla considerazione che si tratti di un fenomeno che riguarda tutti gli uomini – non solo quelli che la commettono – in quanto parte di una stessa cultura.
Sulla Stampa ad esempio, Mattia Feltri ha scritto: «la colpa è per forza individuale e individuali le conseguenze, soprattutto penali. Ma la “responsabilità collettiva” è politica, e ognuno deve assumersela, anche per quello che non ha fatto, per la semplice ragione di appartenere a un gruppo o a una società. E cioè – la rilettura è mia – sono sicuro di essere irreprensibile?».
Una prospettiva analoga è stata adottata anche su Repubblica da Francesco Piccolo e sul Corriere della Sera da Paolo Giordano, due scrittori che negli ultimi anni hanno cominciato a ragionare molto sui rapporti di genere anche nei loro libri autobiografici, rispettivamente L’animale che mi porto dentro (2018) e Tasmania (2022). Ma pure da altri giornalisti come Michele Serra di nuovo su Repubblica (e Ok Boomer!, la newsletter del Post), e Antonio Polito e Marco Imarisio sul Corriere.
«Lo ripetiamo da anni scontrandoci contro un muro di silenzio lesionato solo da poche eccezioni», ha osservato su Internazionale Ida Dominijanni, giornalista e filosofa femminista. «La violenza contro le donne è una questione maschile; devono risolverla i carnefici, non le vittime. Stavolta il muro s’è rotto, fra scrittori, artisti, attori, uomini di sport, intellettuali, attivisti di sinistra».
Il Post ha parlato con alcune femministe ed esperte di violenza di genere che hanno ragionato su questi commenti di giornalisti e scrittori maschi. Si sono concentrate sul fatto che l’attenzione degli uomini dovrebbe essere più costante nel tempo, e non legata solo a fatti di cronaca specifici, e hanno sottolineato come il tema della colpa collettiva, molto presente nei commenti degli ultimi giorni, sia in realtà marginale nel dibattito complessivo. Molte hanno ribadito come i commenti si siano tenuti abbastanza alla larga da un ragionamento più generale sul sistema di potere che deriva dal patriarcato, che se affrontato seriamente implicherebbe per gli intellettuali mettere in discussione i propri privilegi a partire dalla propria esperienza personale.
Antonella Veltri, scienziata, femminista e presidente di D.i.Re, la rete nazionale dei centri antiviolenza, dice che un dibattito di questo tipo tra uomini arriva tardi: «La presa di parola pubblica da parte appunto di uomini intellettuali può servire ad aprire un dibattito che purtroppo sarebbe dovuto iniziare già da molto tempo. Siamo davvero in ritardo, come movimento delle donne è dagli anni Settanta che stiamo dicendo quello di cui si parla adesso».
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Tale manchevolezza (in alcuni casi consapevole: Serra ad esempio ha detto di avere «l’impressione che i maschi, in questo senso, siano all’anno zero») si riflette nella percezione che queste ultime riflessioni proposte dagli uomini siano incomplete o già messe in discussione da altri e più lunghi studi. E che anche nei casi migliori siano semplicemente le basi da cui partire. «Secondo me faticano un po’ a centrare il punto perché la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani non ha fatto un percorso dentro i femminismi», dice la scrittrice e femminista Giulia Blasi, che negli ultimi anni ha contribuito ad avvicinare molte donne alle battaglie femministe attraverso internet. «Senza, è impossibile fare un discorso serio e strutturato che vada al di là delle dichiarazioni di intenti o delle dichiarazioni generiche».
In generale, partecipare a un dibattito che inizia dal riconoscimento della dimensione collettiva della violenza maschile sulle donne è giudicato in modo positivo dai punti di vista femministi, che però individuano aspetti criticabili anche negli interventi di questi giorni e pensano che l’impegno maschile nella questione dovrebbe andare oltre. Per Blasi è normale dire cose sbagliate e le critiche da parte delle donne possono essere per molti uomini un’occasione positiva. Anche perché, stando in una situazione di «scomodità e disagio» legata a questi dibattiti, si possono cominciare a capire delle cose.
Carlotta Cossutta, ricercatrice in filosofia politica e attivista all’interno del movimento femminista Non Una Di Meno, osserva un problema preliminare: «le prese di parola maschili spesso arrivano o dopo un fatto di cui si parla molto, come in questo caso, o su richiesta di donne che chiedono un parere maschile. È molto raro che ci sia una reazione autonoma. Solitamente viene detto implicitamente alle donne di farsi carico del problema e di educare i propri oppressori».
Secondo Cossutta, il fatto che normalmente gli uomini si occupino meno delle questioni relative ai rapporto tra i generi fa sì che quando poi intervengono il discorso resti molto legato al concetto della «colpa» maschile, che sia accettata o rifiutata, oppure al tema dell’importanza dell’educazione, e non si spinga molto oltre.
«È chiaro che l’educazione debba cambiare, ma finché non cambiano le strutture materiali che fanno sì che ancora oggi le donne in Italia e nel mondo siano subalterne, la sola cultura non può bastare», sostiene Cossutta. «La cultura e l’educazione discendono anche da condizioni materiali nelle quali viviamo e da strutture di potere. E il discorso maschile si muove sempre poco intorno al concetto di potere e al sistema patriarcale di cui gli uomini, volenti o nolenti, beneficiano».
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Per il femminismo la questione della violenza di genere è infatti strettamente legata a tutti gli altri aspetti dei rapporti tra uomini e donne, all’assenza di parità all’interno della società, agli stereotipi sui presunti ruoli sociali di entrambi e alle forme di discriminazione che esistono tuttora. «Alla base di tutto ci sono gli stereotipi», pensa la giornalista Luisa Betti Dakli, giornalista direttrice di DonnexDiritti Network e responsabile della Commissione Pari opportunità dell’Ordine dei giornalisti del Lazio. «E in Italia gli uomini sono estremamente indietro nel parlare di stereotipi e quindi anche di femminicidio. Come mostra la storia di Giulia Cecchettin, molti adulti non hanno gli strumenti per identificare la pericolosità di un comportamento maschile perché gli atteggiamenti che sono “campanello d’allarme” per la violenza, come la possessività e le sue forme, sembrano normali».
Per Betti Dakli questi limiti riguardano in particolare gli uomini, anche nei contesti in cui ci dovrebbe essere maggiore consapevolezza, come la magistratura e le redazioni dei giornali, che ancora oggi danno notizie su femminicidi, stupri e altre forme di violenza subite dalle donne usando vecchi preconcetti scorretti, come l’idea che un uomo possa uccidere una donna «per amore».
Un tema che invece compare spesso negli articoli di riflessione scritti da uomini sui femminicidi e sulla violenza di genere è poi la cosiddetta “crisi del maschio”, cioè l’idea che l’avvicinamento alla parità tra uomini e donne avvenuto nell’ultimo secolo abbia causato una sorta di crisi di identità maschile, rendendo gli uomini fragili. In questi giorni ne hanno parlato ad esempio Francesco Piccolo e Antonio Polito, che vi hanno ricondotto i femminicidi contemporanei. Piccolo in particolare ha scritto: «Quanto più al maschio verranno sottratte arroganza e supremazia, sicurezza e predominio, tanto più si sentirà fragile; e quanto più si sentirà fragile, tanto più combatterà disperatamente. La fragilità ci rende spaventosi, noi maschi; tanto quanto ci rende spaventosi la violenza».
Dai punti di vista femministi il concetto di “crisi del maschio” è discutibile. «È dall’800, dai volantini contro le suffragiste, che i maschi dicono di essere in crisi, è una crisi farlocca, una scusa per non fare niente e non mettersi in discussione», dice Blasi, che si domanda anche cosa si chiede di fare alle donne di fronte alle presunte difficoltà maschili nel relazionarsi alle posizioni che hanno oggi nella società. «Il suggerimento è dare al maschio un altro modo di essere dominante. Parte dall’idea che i maschi non sappiano vivere al di fuori della dominanza, che la loro identità giri intorno a quello, allora per evitare che facciano danni bisogna dargliene un’altra».
Cossutta concorda che il cambiamento sociale portato dalle lotte femministe possa essere «difficile da metabolizzare per gli uomini, anche perché non hanno scelto di stare dalla parte della rivoluzione femminile», ma ridimensiona il problema citando uno slogan usato nelle manifestazioni di Non Una Di Meno: «Gli uomini hanno paura di piangere. Noi abbiamo paura di essere uccise». Per Cossutta la fragilità maschile esiste, ma dovrebbe essere vista come un’opportunità per portare avanti il discorso del rapporto tra i generi attorno al concetto di potere, e non un problema.
«Gli uomini dovrebbero fare quel percorso di autocoscienza che hanno fatto le donne», continua Betti Dakli. «Quando si va a toccare la mascolinità e la virilità si dice che l’uomo diventa fragile perché non ha più i punti di riferimento. E proprio a quello serve l’autocoscienza: a farsi due domande e imparare a relazionarsi con chi è diversa».
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L’autocoscienza, cioè l’atto di riflettere e confrontarsi collettivamente sulle proprie esperienze vissute per raggiungere una migliore comprensione di sé e degli altri in termini di genere, viene praticata dalle donne all’interno del movimento femminista dagli anni Settanta. Oggi in un certo modo avviene anche attraverso le piattaforme online, oltre che di fatto nei gruppi di amiche e colleghe. In questi giorni, molte stanno dicendo che per risolvere il problema di genere della violenza maschile anche gli uomini dovrebbero portare avanti percorsi di questo tipo, e più in generale riflettere di più sulle questioni di genere di cui sono di solito le donne a parlare. «Le donne hanno fatto un percorso di decostruzione per decenni», dice Blasi, «ora anche gli uomini devono fare fatica».
Vale anche per gli intellettuali che si sono espressi in questi giorni. «Non so quanti di loro si siano messi in discussione su questo, per esempio all’interno delle loro relazioni private», dice Veltri. «Benissimo prendere parola per interrogarsi sul maschile», aggiunge Cossutta, «ma poi, visto che conosciamo lo stato dell’informazione in Italia e la difficoltà che le donne fanno ad accedere a qualsiasi posizione di rilievo, forse diventa più interessante costruire all’interno della redazioni spazi in cui le voci femminili e femministe possono emergere».
Cossutta racconta che capitano «a tutte le donne che anche vagamente si occupano di femminismo» richieste di uomini che chiedono indicazioni su come fare per contribuire a cambiare le cose. «Credo che nel mondo di oggi, dopo un paio di secoli di femminismo, ci siano a disposizione tutti gli strumenti per poter fare un percorso, che si trovano ovunque». Cossutta non vuole dire cosa dovrebbero fare gli uomini, perché quella femminista è una lotta di autodeterminazione (delle donne), e per questo parte dall’idea che qualunque altra debba partire da sé stessa. Tuttavia a chi lo chiede consiglia di partire dall’accettare il valore della cultura femminista, che esiste da secoli e ha prodotto molto ma è ancora ritenuta secondaria in molti contesti culturali.
«Il secondo passo è provare a leggere quello che le donne hanno scritto su questi temi, o quello che ne hanno scritto degli uomini», aggiunge. «Per esempio Il dominio maschile di Pierre Bourdieu, se si preferisce leggere un uomo. Leggere è utile perché permette di vedere cose che magari non si vedevano, perché nessuno di noi vede bene il privilegio in cui è immerso».
Infine si può provare a «costruire degli spazi di discussione che non partano dal senso di colpa, ma dal senso politico di combattere un’oppressione»: Cossutta fa notare infatti che tantissimi uomini combattono oppressioni che non subiscono in prima persona, ad esempio quando cittadini italiani chiedono maggiori diritti e trattamenti migliori per i migranti. E lo fanno pur appartenendo allo stesso gruppo di persone responsabile dell’oppressione: potrebbero quindi farlo anche combattendo per i diritti delle donne.
Il vero cambiamento però può esserci quando alla partecipazione al dibattito si unisce un contributo pratico: «Non c’è ad esempio un movimento di massa di uomini che rivendica un più lungo congedo di paternità obbligatorio. Finché non cambiamo i rapporti di potere all’interno della famiglia le donne vivranno sempre una condizione di maggiore ricattabilità: allora perché gli uomini, che si stanno giustamente interrogando su come cambiare nelle loro relazioni, non si interrogano anche su come cambiare le strutture materiali?».