L’ennesima sentenza sulle concessioni balneari
I partiti al governo e i sindacati dei balneari l'hanno presa come una vittoria, in realtà non è cambiato quasi niente
Giovedì è stata pubblicata la sentenza con cui la Corte di Cassazione accoglie il ricorso fatto dal Sindacato italiano dei balneari (SIB), insieme alla regione Abruzzo e all’Associazione nazionale approdi e porti turistici (ASSONAT) contro una sentenza del Consiglio di Stato del 9 novembre del 2021 che disapplicava, cioè rendeva nulle, le varie norme di proroga delle concessioni balneari e fissava la loro scadenza al 31 dicembre del 2023.
Breve riassunto delle puntate precedenti: quella sentenza del Consiglio di Stato era nata in seguito a un contenzioso tra il titolare di uno stabilimento balneare leccese, Andrea Caretto, e il comune di Lecce, che aveva negato a Caretto il rinnovo automatico della concessione. Caretto si era rivolto al TAR di Lecce, il tribunale amministrativo regionale, che aveva accolto il suo ricorso. A quel punto il Comune di Lecce aveva impugnato, cioè contestato, la sentenza del TAR appellandosi al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato aveva sostanzialmente accolto il ricorso del Comune di Lecce e ritenuto le proroghe in contrasto con la normativa europea, fissando così la scadenza delle concessioni a fine 2023. Dopodiché il SIB aveva fatto ricorso in Cassazione, e a quel ricorso si erano unite altre istituzioni o associazioni. La procura generale della Cassazione aveva giudicato fondato il ricorso e giovedì la Cassazione lo ha infine accolto, chiedendo al Consiglio di Stato di emettere una nuova sentenza.
Subito dopo la pubblicazione della sentenza, diversi esponenti di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno tentato di intestarsi il successo e rivendicarlo: da anni infatti i partiti di destra italiani si battono contro la direttiva europea cosiddetta Bolkestein, che impone di mettere a bando le concessioni. In verità, però, non è corretto sostenere che la sentenza della Cassazione dia ragione a chi nega la necessità di liberalizzare il settore balneare, per tre ragioni: innanzitutto perché la Cassazione non contesta il merito della sentenza del Consiglio di Stato, ma indica solo alcuni errori procedurali nel modo in cui è stata emessa (ci torniamo). Poi perché esiste un’altra sentenza del Consiglio di Stato, contestuale e del tutto analoga a quella impugnata che ribadisce la stessa scadenza delle concessioni al 31 dicembre 2023, e che ormai è passata in giudicato, cioè non è più soggetta a ricorsi. E infine perché proprio la scorsa settimana la Commissione Europea ha richiamato l’Italia su questa materia.
Quella delle concessioni balneari è una questione annosa e complicata che nessun governo è riuscito a risolvere. I proprietari degli stabilimenti balneari hanno infatti in gestione i tratti di spiaggia su cui operano in virtù di concessioni, cioè di affitti, che vengono rinnovati in modalità pressoché automatica da decenni in cambio di canoni molto bassi, spesso risibili, anche di pochi euro a metro quadro. Questi stabilimenti si tramandano in molti casi di generazione in generazione, in violazione di una direttiva europea del 2006, la Bolkestein, che impone all’Italia di fare dei bandi per mettere a gara le concessioni e aprire così il mercato alla concorrenza.
Dal 2006 a oggi, però, governi italiani di vario orientamento politico, nel timore di inimicarsi la categoria dei balneari che è molto battagliera, hanno rinviato in maniera straordinaria la scadenza di queste concessioni, prorogandole. L’ultima è stata quella voluta dal primo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, che nel 2018 decise di allungare la durata delle concessioni fino al 2033 e che venne poi di fatto resa nulla dal Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato costituisce l’ultimo grado di giudizio nella giustizia amministrativa, cioè quella che regola i rapporti tra cittadini, società o enti pubblici e la pubblica amministrazione. Le sue sentenze sono dunque molto importanti, e contro di esse si può fare ricorso in Cassazione solo «per motivi inerenti alla giurisdizione», come stabilisce l’articolo 111 della Costituzione: significa che si può ricorrere in Cassazione solo quando si ritiene che il Consiglio di Stato sia intervenuto in ambiti al di fuori della sua competenza, oppure quando invade il campo di chi dovrebbe fare le leggi, cioè il parlamento o il governo. Succede però molto di rado: anche perché nel recente passato sia la Corte Costituzionale nel 2018 sia la Corte di giustizia dell’Unione Europea nel 2021 avevano di fatto invitato la Cassazione a limitare questa sua prerogativa, offrendo un’interpretazione abbastanza restrittiva dell’articolo 111 della Costituzione.
Tuttavia stavolta il Sindacato dei Balneari e alcuni partiti di destra che ne sostenevano politicamente l’iniziativa ritenevano che il Consiglio di Stato fosse andato al di là dei suoi poteri. Il Consiglio non si era infatti limitato a stabilire che la proroga delle concessioni approvata dal governo Conte fosse in conflitto con la Bolkestein, ma aveva anche fissato un termine arbitrario oltre il quale le concessioni non sarebbero state più valide: il 31 dicembre del 2023.
Il senso della sentenza del Consiglio di Stato era: io stabilisco che le concessioni attuali non sono da considerare legittime, ma se mi limitassi a dire questo renderei gli attuali gestori abusivi e quindi, per «evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere», fisso il termine al 31 dicembre 2023 dando due anni al governo per trovare una soluzione strutturale.
Secondo chi ha voluto il ricorso questo intervento era un «eccesso di giurisdizione», quindi hanno deciso di rivolgersi alla Cassazione, che tuttavia non contesta il merito della sentenza del Consiglio di Stato, ma solo il modo in cui è stata prodotta. Nel gergo giuridico si dice che non c’è stato un error in iudicando, ma un error in procedendo: in questo caso l’errore procedurale sta nel fatto che il Consiglio di Stato non ha ammesso gli interventi del SIB e della regione Abruzzo, ritenendoli inammissibili e impedendo ai promotori del ricorso di esporre le proprie tesi prima di emettere la sentenza.
Sulla base di questa mancanza, la Cassazione ha deciso giovedì di annullare la sentenza chiedendo al Consiglio di Stato di emetterne un’altra: e di farlo da un lato sanando l’anomalia, ammettendo gli interventi del SIB e degli altri autori del ricorso, e dall’altro di pronunciarsi «anche alla luce delle sopravvenienze legislative», ovvero tenendo conto delle norme che nel frattempo sono state approvate in parlamento in questi due anni.
Qui la questione si complica ulteriormente, ma andiamo per gradi: queste nuove norme a cui la Cassazione si riferisce sono contenute nel decreto cosiddetto “Milleproroghe” entrato in vigore nel febbraio del 2023, in cui il governo Meloni aveva prolungato di un altro anno, cioè fino alla fine del 2024, la validità delle concessioni. Nel fare questo aveva introdotto tutta una serie di eccezioni e di condizioni che per certi versi sembravano indirizzare verso una proroga illimitata o comunque indefinita.
Ma la scadenza introdotta dal “Milleproroghe” era già stata dichiarata illegittima proprio dallo stesso Consiglio di Stato nel marzo del 2023. E il 16 novembre scorso la Commissione Europea ha emesso un parere motivato in cui contesta all’Italia di aver adottato una legge che «riproduce le misure precedenti e mantiene la validità delle “concessioni balneari” in contrasto con il diritto dell’Unione», cioè la famosa direttiva Bolkestein. Insomma, il governo di Giorgia Meloni non è riuscito a trovare una scappatoia con il decreto “Milleproproghe” e l’Italia avrà due mesi di tempo per dare una risposta a questo parere della Commissione, o per adeguare le proprie norme ai richiami, dopo i quali sarà avviata una procedura d’infrazione.
Infine va aggiunto un ultimo elemento che rende la scadenza del 31 dicembre del 2023 ancora valida (almeno in teoria, poi molto probabilmente il governo non la rispetterà). Il 9 novembre del 2021, quando il Consiglio di Stato si espresse sul caso che riguardava il Comune di Lecce, si pronunciò anche su un altro caso uguale a quello pugliese, un contenzioso nato in Sicilia e su cui era intervenuto il TAR di Catania, arrivando alle stesse identiche conclusioni: la sentenza su quel caso ribadisce la necessità di disapplicare le proroghe e fissare le scadenze delle concessioni balneari italiane al 31 dicembre del 2023. La sentenza emessa a partire dal caso siciliano non è stata oggetto di ricorsi o impugnazioni, quindi è passata in giudicato.