Il misterioso schianto di Argo 16
50 anni fa un aereo dei servizi segreti precipitò sul Petrolchimico di Marghera: un lungo processo non riuscì a dimostrare un presunto sabotaggio israeliano
di Pietro Cabrio
Alle 7:30 del 23 novembre del 1973, il giorno dopo che il governo presieduto da Mariano Rumor aveva deciso di attuare la cosiddetta austerity come rimedio alla crisi del petrolio, un aereo militare decollò dalla pista dell’Aeroporto Marco Polo di Venezia a Tessera. Nei tre minuti successivi si portò a un’altitudine compresa tra i 700 e gli 800 metri, poi virò a sinistra. Era arrivato da Ciampino il giorno precedente con un volo di trasferimento e avrebbe dovuto proseguire fino alla base militare NATO di Aviano, in Friuli. Al momento della virata accadde però qualcosa e l’aereo cominciò a scendere in picchiata senza più cambiare direzione.
Si schiantò alle 7:35 in un parcheggio del Petrolchimico di Marghera, l’enorme complesso industriale che si affaccia sulla Laguna di Venezia, dopo aver urtato una palazzina della Montedison Fibre al cui interno lavoravano già decine di persone. Nella carambola successiva all’urto, il velivolo distrutto e incendiato si arrestò a poche centinaia di metri da un deposito di fosgene, un gas incolore estremamente velenoso che se respirato provoca la morte in meno di dieci minuti. Nel parcheggio non c’era nessuno e così a morire furono soltanto i quattro membri dell’equipaggio, due ufficiali e due sottufficiali dell’Aeronautica militare italiana: Anano Borreo, colonnello pluridecorato, il tenente colonnello Mario Grande, il maresciallo motorista Aldo Schiavone e il maresciallo marconista Francesco Bernardini.
Nei giorni successivi l’incidente non trovò molto spazio sui giornali, alle prese invece con il recente annuncio dell’austerity e con gli sviluppi del rapimento di John Paul Getty, erede dell’omonima famiglia di petrolieri ancora sotto sequestro. Il Corriere della Sera ne diede conto brevemente a pagina cinque della sua edizione pomeridiana: «L’aereo, un C47 Argo 16, è precipitato su un prato antistante lo stabilimento Montefibre di Marghera: qualche centinaio di metri ancora e sarebbe finito sui serbatoi provocando una sciagura di immense proporzioni» fu scritto in un trafiletto.
A far passare quasi inosservata la notizia contribuirono poi i suoi risvolti giudiziari. Fu istruita un’inchiesta con rito sommario che si concluse in meno di un anno: la commissione d’inchiesta dell’Aeronautica Militare archiviò il fatto come «causa imprecisata» dopo una perizia tecnica che non evidenziò nulla di strano, senza prevedere il sequestro di tutti i residui del velivolo e con una ricostruzione dei fatti che soltanto anni dopo risultò sommaria, se non sbagliata, in più punti.
Lo schianto del bimotore Argo 16 fu quindi archiviato come incidente e per i successivi dieci anni venne di fatto dimenticato o quasi, almeno fino ai primi anni Ottanta. In quel periodo il giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, che indagava sui traffici d’armi tra Italia e Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), trovò elementi in grado, secondo il suo ufficio, di dimostrare l’avvenuto sabotaggio del velivolo da parte del Mossad, l’agenzia di intelligence per gli affari esteri dello stato di Israele. A questo si aggiunsero le dichiarazioni rilasciate alla stampa dal generale Vito Miceli, all’epoca capo del Servizio di sicurezza militare italiano (SID), e dal generale Ambrogio Viviani, ex capo del controspionaggio, che parlarono di un’esplosione in volo e di un probabile coinvolgimento di Israele, paese reduce dalla guerra dello Yom Kippur e ancora in stato di massima allerta.
Tutto questo finì anche in parlamento e di lì a poco iniziarono a emergere nuovi elementi tali da legittimare la riapertura del caso, nel 1986. A indagare fu sempre Mastelloni, che per prima cosa si concentrò su uno dei principali elementi emersi, portato alla luce dalle testimonianze degli agenti dei servizi segreti e confermato in via ufficiale soltanto anni dopo. Tre giorni prima dello schianto Argo 16 era stato utilizzato per trasferire in Libia due dei cinque terroristi palestinesi che erano stati scarcerati su ordine della presidenza del Consiglio dopo essere stati arrestati a Ostia il mese precedente, mentre progettavano l’abbattimento di un aereo di linea della compagnia di bandiera israeliana El Al.
Secondo le tesi di Mastelloni e le rivelazioni degli agenti dei servizi italiani, la scarcerazione e il trasporto dei palestinesi in Libia, paese governato da Muammar Gheddafi dal quale sarebbero potuti tornare facilmente nei ranghi dell’OLP, infastidirono Israele a tal punto da organizzare come ritorsione il sabotaggio di Argo 16 approfittando della sua sosta di una notte all’Aeroporto di Venezia. Viviani disse alla stampa che l’incidente «fu un consiglio un po’ cruento per far capire al nostro paese di smetterla con Gheddafi e con il terrorismo arabo palestinese». Nell’inchiesta rientrò per forza di cose anche il cosiddetto “lodo Moro”, un accordo segreto stretto proprio in quel periodo tra il governo italiano e l’OLP che avrebbe permesso ai palestinesi di utilizzare l’Italia come punto franco di passaggio, a condizione che il paese e i suoi cittadini non venissero coinvolti nelle azioni.
Quando però fu il momento di raccogliere le deposizioni degli agenti coinvolti nel caso iniziarono reticenze, depistaggi e amnesie, anche da parte di chi aveva rilasciato in precedenza dichiarazioni pubbliche piuttosto inequivocabili. Lo stesso Viviani fu arrestato dopo un interrogatorio e successivamente rinviato a giudizio per reticenza così come altri cinque agenti dei servizi segreti. La procura di Venezia iniziò anche a scontrarsi con le resistenze delle autorità militari che per prime si erano occupate dell’incidente. Furono richiesti per esempio gli atti relativi alle prime indagini, ma fu inviata soltanto una copia del giudizio conclusivo; vennero richieste le date di arrivo e la provenienza dell’aereo in quel novembre del 1973, che arrivarono prima in forma parziale, e complete soltanto un anno dopo.
Ricordando le difficoltà nelle indagini, Mastelloni disse successivamente: «Tutti questi ufficiali facevano resistenze benché le vittime dell’incidente fossero loro commilitoni. Questa era la vera domanda: possibile che il vincolo del segreto prescindesse da un vincolo di solidarietà? Oppure c’era dell’altro?». Dal canto suo Viviani spiegò la sua posizione dicendo: «Se fossi stato sicuro che la caduta di Argo 16 fosse stata provocata da un sabotaggio israeliano, cosa peraltro impossibile da sapere, perché gli israeliani sono abilissimi nel fare queste operazioni, sarei intervenuto a suo tempo».
L’inchiesta proseguì con una nuova perizia sull’incidente del 1973 motivata dai presunti insabbiamenti all’epoca dei fatti: secondo la procura di Venezia l’Aeronautica Militare aveva «travisato i fatti» nella sua prima perizia, dove fu scritto peraltro che quel giorno Argo 16 volò a vista, cosa smentita dalle autorizzazioni concesse dalla torre di controllo di Venezia, come si accertò poi. I nuovi esami arrivarono alla conclusione che la causa dell’incidente non poteva risultare imprecisata e che l’avaria meccanica che aveva determinato la discesa in picchiata del velivolo poteva essere stata spontanea, ma anche «determinata da azione dolosa attuata attraverso la manomissione del sistema di comando». A sostegno di quest’ultima ipotesi ci fu poi la deposizione del generale Gianadelio Maletti, all’epoca dei fatti vice capo del SID, che si era occupato dalla prima inchiesta informativa. Interrogato, Maletti riferì di aver sempre avuto la certezza del sabotaggio.
Le resistenze incontrate dalla procura di Venezia continuarono ancora e Mastelloni ricordò anni dopo: «Lo strumento più subdolo fu l’attesa, il farci aspettare così a lungo. Trovai delle carte della consulenza giuridica del SID che dicevano di “aspettare”, proprio annotato a mano: “aspettare”. Più tempo passava e meglio era». Altre richieste vennero ostacolate dal segreto di stato posto a suo tempo su Argo 16, che fu confermato nel 1988 dal governo di allora.
Cinque anni dopo, però, il segreto di stato fu rimosso e si scoprì un’altra parte della storia. L’aereo era stato usato per missioni di ricognizione in Jugoslavia, ma soprattutto per il trasporto di personale civile e armamenti tra il Nord Est e il centro di addestramento sardo di Gladio, la struttura paramilitare segreta costituita nel dopoguerra per essere impiegata sia in caso di conflitto con i paesi comunisti che di sovvertimenti interni.
Si ipotizzò successivamente che l’incidente di Argo 16 potesse essere stata una ritorsione di certi membri di Gladio contrari agli smantellamenti di alcuni depositi di armi avvenuti proprio in quegli anni nel Nord Est. Questa ipotesi rientrò nelle indagini iniziate negli Ottanta ma rimase tale e non ebbe sviluppi concreti. Paolo Inzerilli, capo di Gladio tra il 1974 e il 1986, disse nei primi anni Duemila: «L’ipotesi che Argo 16 sia stato sabotato per questioni interne a Gladio è una enorme stupidaggine, non esisteva nessun motivo perché potesse succedere una cosa del genere».
Dopo una fase istruttoria durata dodici anni, nel 1998 la procura di Venezia rinviò a giudizio per il reato di strage Zvi Zamir, direttore del Mossad, «perché, manomettendo l’aereo militare Argo 16 e determinando così la sua caduta, poneva in pericolo la pubblica incolumità e causava la morte dell’intero equipaggio». Con lui furono imputate altre 46 persone, tra cui i vertici dei servizi segreti e Giulio Andreotti, quattro volte presidente del Consiglio dal 1973 al 1992, per soppressione di atti. Non andò a giudizio invece Asa Leven, responsabile del Mossad in Italia, che nel frattempo era morto.
Il processo si concluse in meno di un anno e la Corte d’Assise di Venezia assolse tutti gli imputati per insussistenza dei fatti. Nelle motivazioni la corte scrisse che l’ipotesi del sabotaggio rimaneva tale perché non trovava riscontri concreti, anche perché nel frattempo i resti di Argo 16 erano stati smaltiti. Fu detto che l’ipotesi accusatoria risultò debole e il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, Giovanni Pellegrino, aggiunse: «Nel formularla e nel sostenerla, noi e Mastelloni, non tenemmo conto della complessità della politica estera italiana, che mentre apriva questo canale di accordi con l’OLP, aveva anche rapporti estremamente collaborativi con il Mossad».
La procura di Venezia non presentò appello dopo aver riconosciuto la logicità della sentenza, suscitando grande amarezza soprattutto nei familiari delle vittime. Dal punto di vista legale la questione si chiuse lì. Rimasero però i dubbi, molti, che si ripresentarono quando, nei primi anni Duemila, il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga disse alla stampa con riferimento alla scarcerazione dei terroristi palestinesi avvenuta nel 1973: «Gli israeliani si vendicarono. Agenti del Mossad fecero saltare quell’aereo, che aveva la sigla di Argo 16, mentre era in volo». In uno speciale Rai dedicato alla vicenda negli anni Duemila, Mastelloni aggiunse: «Una cosa che mi sconcertò fu quando venni a sapere che Zvi Zamir faceva la spesa al mercato di Rialto durante il processo, mentre io chiedevo che venissero fatte ricerche sulle sue eventuali presenze in Italia».
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