Spotify se ne andrà dall’Uruguay
Per via di una legge approvata per garantire ai musicisti compensi più equi, e che la piattaforma dice non essere sostenibile
Lunedì Spotify, la più grande piattaforma per ascoltare musica in streaming online, ha annunciato che sospenderà il suo servizio in Uruguay entro il febbraio del 2024. L’azienda ha spiegato che la decisione è stata presa come reazione a un disegno di legge che il parlamento uruguaiano aveva approvato a ottobre sull’equo compenso dei musicisti, e che a suo dire renderebbe l’attività della piattaforma economicamente «insostenibile».
Il provvedimento in questione aveva introdotto due importanti modifiche alla disciplina del diritto d’autore: la prima prevede che i musicisti possano chiedere un «compenso economico» ogni volta in cui una loro canzone viene condivisa «sui social network e su internet», la seconda garantisce ai musicisti il «diritto a una remunerazione giusta ed equa» per tutti gli «accordi commerciali stipulati da autori, compositori, interpreti, registi e sceneggiatori».
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La proposta di modificare le norme sul diritto d’autore era stata portata avanti soprattutto dalla Sociedad Uruguaya de Artistas e Intérpretes (SUDEI), la principale associazione che si occupa di tutelare il diritto d’autore in Uruguay. Ad agosto la portavoce del SUDEI Gabriela Pintos aveva detto al quotidiano uruguaiano El Observador che l’associazione non era contraria alle piattaforme, che peraltro in Uruguay come in molti paesi rappresentano la maggior parte delle entrate provenienti dal settore musicale, ma che l’entrata in vigore di queste modifiche avrebbe garantito «un’equa distribuzione» delle entrate, tutelando «gli artisti, ossia la parte più vulnerabile del settore».
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Secondo Spotify però la formulazione della nuova legge è troppo vaga e imprecisa, in particolare in relazione a un aspetto: non è chiaro se a farsi carico dei costi aggiuntivi da pagare agli artisti dovranno essere le etichette discografiche che detengono i diritti sulla loro musica o le piattaforme di streaming. Un portavoce dell’azienda ha detto che, in quest’ultimo caso, «i cambiamenti che potrebbero costringere Spotify a pagare due volte per la stessa musica».
Nella maggior parte dei casi, infatti, Spotify non paga direttamente i musicisti, ma le case discografiche che li rappresentano, che hanno poi i loro accordi con cantanti e band per la ripartizione delle royalties. Per la stragrande maggioranza dei musicisti, comunque, i guadagni dovuti allo streaming sono notoriamente molto bassi: non sono semplici da calcolare, ma secondo le stime più diffuse si parla di una media di meno della metà di un centesimo di dollaro per singola riproduzione.
Il timore di Spotify, insomma, è che l’entrata in vigore della nuova legge possa costringerla a pagare non soltanto le etichette discografiche, ma anche i singoli musicisti. La piattaforma sostiene di versare a editori e case discografiche quasi 70 centesimi per ogni dollaro guadagnato con la musica, e che «eventuali pagamenti aggiuntivi renderebbero la sua attività insostenibile».
La questione degli scarsi guadagni che frutta la musica in streaming ai musicisti è probabilmente la più dibattuta e importante di questi tempi, per l’industria musicale. Da tempo Spotify, come altre piattaforme, è criticata perché il suo modello economico rende difficilissimo raggiungere introiti che permettano ai musicisti di mantenersi: con la marginalità raggiunta dal mercato dei CD, dei vinili o della musica digitale acquistata, e con gli scarsi guadagni garantiti dallo streaming, chi fa musica deve ormai fare largo affidamento su concerti, merchandising e altre forme di collaborazioni e iniziative commerciali.
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Attualmente in Uruguay lo streaming rappresenta la maggior parte dei ricavi derivanti dalla musica: secondo i dati diffusi dalla Federazione Internazionale dell’Industria Fonografica (IFPI), lo scorso anno l’Uruguay è stato il 53esimo mercato musicale al mondo. In questo contesto, lo streaming rappresenta una quota pari al 64% del totale dei ricavi (13,2 milioni di dollari).