Dove si riflette sull’identità di genere maschile

I “men’s studies” si occupano da tempo delle influenze culturali esercitate dalla società sugli uomini, ma le riflessioni e il dibattito in Italia sono ancora limitati

India Jonbeel Festival
(AP Photo/Anupam Nath)

L’omicidio della ventiduenne Giulia Cecchettin, di cui è accusato il coetaneo ed ex fidanzato Filippo Turetta, stimola da giorni in Italia un esteso dibattito sulla frequenza dei femminicidi e di altre forme di violenza degli uomini contro le donne. Su alcuni giornali questo dibattito è stato affrontato dal punto di vista delle esperienze maschili in generale, con riflessioni sulle diverse forme di maschilità. Sono discorsi che riemergono di frequente ma in modo discontinuo, e per questo potrebbero dare l’impressione che le riflessioni che li compongono siano perlopiù occasionali, incerte e poco strutturate.

Nelle scienze umane esiste tuttavia una lunga tradizione, principalmente anglosassone, di studi sistematici interdisciplinari sulle esperienze maschili: i men’s studies (letteralmente “studi sugli uomini”, ma è diffusa anche la traduzione “studi sui maschi”). Attraverso sondaggi, esperimenti e ricerche in sociologia, psicologia, scienze politiche, filosofia, antropologia ed economia, i men’s studies si occupano da decenni delle influenze sociali, storiche e culturali esercitate sul genere maschile nella società contemporanea. L’assenza di una tradizione italiana di studi di questo tipo è considerata dalle persone che se ne occupano in Italia un fatto significativo. Da un lato è vista come il segno storico di una scarsa consapevolezza e inclinazione a riflettere sui modelli di maschilità dominanti e sulle sopraffazioni e violenze che possono generare, anche ai danni degli uomini. Dall’altro è un fattore che ha contribuito e contribuisce ancora a rafforzare l’egemonia di quei modelli.

In anni recenti l’interesse per i men’s studies è cresciuto rispetto al passato, in funzione di un’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica riguardo agli studi di genere, storicamente più concentrati sulle esperienze delle donne e delle persone con identità di genere non conformi a quella che è stata a lungo considerata la norma. Non esiste in Italia un percorso accademico riconosciuto e specifico di studi sulle maschilità, spiega Matteo Botto, dottorando in sociologia all’Università di Genova, che si occupa di men’s studies.

A differenza di quanto succede in altri paesi europei, tra cui Svezia, Spagna e Portogallo, dove esistono università e istituti di ricerca con specifici dipartimenti di gender studies, molte delle riflessioni sulle maschilità in Italia emergono spesso «dal basso» e in modo non strutturato, ha detto Botto. Da tempo esistono organizzazioni, alcune delle quali nate online, che stimolano le riflessioni tra gli uomini sulle trasformazioni dei modelli tradizionali di maschilità. Ed è aumentata nel tempo la quantità di associazioni e gruppi di aiuto che permettono agli uomini di parlare delle loro pulsioni alla violenza e alla prevaricazione, delle proprie vulnerabilità, delle loro relazioni: delle diverse “maschilità”.

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Alla base delle ricerche nel campo dei men’s studies, i cui primi testi accademici di riferimento risalgono agli anni Settanta e Ottanta, è presente in varie declinazioni l’idea che anche le esperienze maschili – come quelle femminili – siano modellate da forze culturali e politiche che contribuiscono a erigere un sistema di aspettative sociali. Rintracciabili in espressioni familiari e diffuse fin dall’infanzia come «fai l’uomo» o «non fare la femminuccia», quelle aspettative definiscono ciò che ci si aspetta socialmente da un uomo: come debba muoversi, parlare, vestirsi, e quali preferenze e gusti sessuali – e persino alimentari – debba avere per essere riconosciuto come un uomo all’interno di un gruppo, sulla base di norme e convenzioni sociali e stereotipi di virilità.

L’avvio dei men’s studies negli Stati Uniti, come ricordato dal giornalista e saggista Claudio Vedovati in un’analisi delle differenze con l’evoluzione di queste riflessioni in Italia, non fu il risultato di un interesse accademico. Arrivò dopo un lungo periodo di mobilitazioni che si erano sviluppate tra le prime occupazioni dei campus universitari, negli anni Sessanta, e la sconfitta statunitense in Vietnam, negli anni Settanta. Quelle esperienze personali di mobilitazione e di riflessione avevano fatto emergere sia in gruppi femminili che maschili un’estesa critica all’autoritarismo e dato rilevanza politica ai temi dei vissuti individuali, delle relazioni interpersonali e del rapporto tra pubblico e privato.

Favoriti da una decostruzione dei ruoli di genere avviata dalle riflessioni femministe, i men’s studies emersero come un’opportunità per gli uomini di mettere in discussione a loro volta i ruoli sociali tradizionali, contestare gli stereotipi di genere maschile e scoprire la molteplicità delle identità di genere. Anche in Italia, come nel mondo anglosassone, il femminismo stimolò negli anni Ottanta varie riflessioni sull’identità maschile in termini di differenza tra le varie soggettività, ma gran parte dei movimenti politici, sociali e intellettuali rimase per molto tempo ancorata a un’idea tradizionale dei ruoli di genere.

Sono di conseguenza mancate in Italia anche quelle relazioni e contrapposizioni, a volte molto accese, tra i men’s studies e altri studi di genere che caratterizzarono i primi sviluppi della ricerca negli ambienti anglosassoni. Nella prima metà degli anni Ottanta, negli Stati Uniti, la nascita dei primi gruppi di lavoro – il Men’s Studies Task Group della National Organization for Men Against Sexism, poi diventata Men’s Studies Association (Msa) – indusse una parte dei ricercatori e delle ricercatrici già impegnate negli studi di genere a considerare i men’s studies un tentativo degli uomini di sottrarre potenziali finanziamenti ad altre ricerche.

Inoltre, dal momento che gli uomini cisgender (cioè che si riconoscono nel genere corrispondente al proprio sesso biologico) ed eterosessuali erano inquadrati negli studi di genere esistenti come i principali oppressori all’interno delle strutture di potere patriarcali, attribuire ai men’s studies una rilevanza pari a quella di altri ambiti di ricerca sul genere avrebbe rischiato di creare ambiguità e confusione tra esperienze molto differenti di oppressione sociale. «C’è una certa tensione tra gli uomini antisessisti e le donne femministe» disse Harry Brod, sociologo della University of Northern Iowa e uno dei membri più noti dell’allora nascente Msa: «Molte sono sospettose delle nostre motivazioni, si chiedono perché un gruppo che ha così tanto potere e privilegio in una società sarebbe disposto a rinunciarvi».

Brod e altri suoi colleghi della Msa motivarono la necessità dei men’s studies sostenendo che lo studio delle esperienze maschili e delle norme di genere maschile – che sono socialmente, storicamente e culturalmente variabili – potesse completare e approfondire gli studi femministi, a loro avviso concentrati su una generalizzazione delle esperienze maschili. Ma l’ambiguità implicita delle posizioni maschili favorì lo sviluppo contestuale di altri movimenti maschili statunitensi – tra cui la Men’s Rights Association di Richard Doyle – che, diversamente dall’Msa, non accolsero le riflessioni degli studi di genere per mettere in discussione il rapporto degli uomini con il potere e il loro ruolo nelle relazioni tra i generi, ma reclamarono diritti di cui si sentivano privati.

Seguendo un approccio vittimistico e aggressivo, i gruppi maschili antifemministi riproposero sostanzialmente ruoli maschili tradizionali, rovesciando radicalmente l’approccio delle prime mobilitazioni. Sostennero che il pensiero femminista avesse enfatizzato i privilegi e i comportamenti violenti degli uomini bianchi ed eterosessuali, favorendo fenomeni di discriminazione sociale nei loro confronti. E opposero quindi alle politiche promosse dalle donne e dalle minoranze una rivendicazione compensatoria dei propri diritti.

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Secondo la sociologa australiana Raewyn Connell, una delle prime e più influenti autrici nell’ambito dei men’s studies, le posizioni all’interno del dibattito storico sulle sovrapposizioni tra i men’s studies e gli studi femministi sono essenzialmente due. Una è basata sull’idea che gli uomini condividano l’interesse delle donne per il cambiamento delle relazioni di genere, e l’altra è basata sull’idea che gli uomini in quanto gruppo dominante non abbiano alcun interesse al cambiamento. «La situazione reale è più complessa» sostenne Connell nell’articolo Understanding Men: Gender Sociology and the New International Research on Masculinities, pubblicato nel 2002 sulla rivista Social Thought and Research.

Connell non negò che gli uomini traessero vantaggi dal sistema di relazioni di genere, come per esempio il divario retributivo tra uomini e donne presente in quasi tutto il mondo. Allo stesso tempo, secondo Connell, «alcuni uomini pagano un prezzo pesante per vivere nel sistema attuale», e certi uomini o gruppi di uomini «condividono con certe donne un interesse per la sicurezza sociale, per la prevenzione delle discriminazioni, e per economie più inclusive e meno gerarchiche». Per questo motivo, secondo Connell, i men’s studies possono servire a individuare «un interesse da parte degli uomini per il cambiamento».

Connell definì uno dei concetti più citati e centrali in tutta la tradizione dei men’s studies, quello di «mascolinità egemone». Lo descrisse come l’insieme delle pratiche culturali e delle dinamiche psicosociali che legittimano la posizione dominante degli uomini nelle società e giustificano la subordinazione delle donne e delle persone con identità sessuali emarginate, incluse quelle di uomini che nelle gerarchie sociali non sperimentano gli stessi privilegi di altri. La mascolinità egemone, secondo Connell, trova espressione in tutte le società e definisce contesti in continua evoluzione e in cui si intersecano molteplici modelli di maschilità e diverse gerarchie.

Agli anni Novanta risalgono anche le prime riflessioni sulla cosiddetta «mascolinità tossica», termine usato per indicare espressioni di aggressività e dominio prettamente maschili, spesso accompagnate da un senso di frustrazione legato ai rapporti di genere. Il sociologo statunitense Michael Kimmel, in particolare, descrisse il ruolo di sentimenti come la paura e la vergogna nella costruzione dell’identità di genere tra gli uomini. La virilità è generalmente intesa tra gli uomini come una qualità «senza tempo», «astorica», una cosa che si ha o non si ha, scrisse Kimmel nell’articolo del 1994 Masculinity as homophobia: Fear, shame, and silence in the construction of gender identity. Ma i nostri comportamenti non sono «soltanto natura umana», aggiunse: «l’assorbimento» della mascolinità tra i ragazzi è un fenomeno culturale, legato tra le altre cose all’osservazione delle interazioni tra gli adulti e dei comportamenti dei coetanei a scuola.

«Noi siamo sotto il costante e attento controllo da parte di altri uomini», scrisse Kimmel, e che la dimostrazione di virilità passi attraverso l’approvazione di altri uomini che ci valutano «è sia una conseguenza del sessismo che uno dei suoi principali sostegni». In questo contesto culturale, «le donne diventano una sorta di valuta che gli uomini utilizzano per migliorare la loro posizione nella scala sociale maschile» e per assicurarsi che non ci sia modo di essere percepiti come qualcosa di diverso dall’essere eterosessuali.

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Da questo punto di vista, la maschilità è un atto sempre esposto al rischio di fallimento, sempre da dimostrare e sempre motivo di competizione. Fin da adolescenti, «apprendiamo che i nostri coetanei sono una sorta di polizia del genere che minaccia costantemente di smascherarci come femminucce». E l’omofobia, secondo Kimmel, trae origine dalla paura che altri uomini possano «smascherarci», mettere in discussione la nostra maschilità, «rivelare al mondo e a noi stessi che non siamo all’altezza del nostro ruolo, che non siamo veri uomini».

Come chiarito dalla scrittrice statunitense Andi Zeisler, co-fondatrice della rivista femminista Bitch, in relazione ai frequenti equivoci generati dall’uso del termine “mascolinità tossica”, questo termine «non significa “tutti i maschi sono tossici”: si riferisce alle norme culturali che equiparano la mascolinità al controllo, all’aggressività e alla violenza, e che etichettano commozione, compassione ed empatia come “poco virili”». Le ricerche di altri sociologi statunitensi noti nell’ambito dei men’s studies, tra cui quelle di Eric Anderson, stabiliscono una relazione tra la diminuzione dell’omofobia e lo sviluppo di maschilità più aperte, che non limitano i comportamenti degli uomini perché non più condizionati dalla paura di essere percepiti come omosessuali.

I modelli di maschilità più aperti e inclusivi sono inoltre ritenuti un esempio di sviluppo dell’identità meno esposto al rischio di rabbia, frustrazione e depressione collegate a esperienze di insuccesso e che possono tradursi in un’aspettativa di vita ridotta. Uno studio pubblicato nel 2015 sulla rivista Archives of Suicide Research da Daniel Coleman, docente di psichiatria alla Fordham University a New York, mise in relazione i progetti di suicidio con la maschilità tradizionale e con l’interazione tra questo tipo di maschilità e vari fattori di stress. In un campione di 2.431 uomini di 18 e 19 anni, quelli che si identificavano attraverso convinzioni rigide, come l’idea che gli uomini debbano provvedere al sostentamento della propria famiglia, essere invulnerabili o autosufficienti, avevano maggiori probabilità di sviluppare pensieri relativi al suicidio e mostrare segni di depressione.

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Il tentativo di favorire una comprensione più flessibile e aperta della maschilità, che permetta agli uomini di affrontare meglio eventi e condizioni avverse nella vita e di riflettere sul rapporto tra maschile e femminile, è anche alla base dei contribuiti più citati nel dibattito italiano sull’identità di genere maschile: dibattito per molti versi ancora limitato. A promuoverlo contribuisce in modo significativo l’associazione nazionale Maschile plurale, cui fanno capo diversi gruppi di uomini impegnati nella ricerca sui ruoli e sulle relazioni di genere, e vicini alle posizioni e alle esperienze maschili antisessiste diffuse in ambito anglosassone.

«In Italia è mancata una presa di posizione, una parola credibile. Ma anche una rete di relazioni maschili che potesse produrre questa stessa parola e il bisogno di mettere in discussione se stessi come uomini, le rappresentazioni di genere con cui agiamo, pensiamo, comunichiamo, elaboriamo», scrisse Vedovati riguardo all’assenza di una tradizione italiana sui men’s studies. Oltre a Maschile plurale esistono attualmente in Italia altre associazioni e gruppi di autocoscienza che organizzano incontri, letture e workshop tra cui Cerchio degli uomini, sostenuto dal Comune di Torino e dalla Regione Piemonte, Osservatorio Maschile e Mica Macho, un collettivo online nato nel 2020.

La crescita delle riflessioni anche in Italia è in parte l’effetto di una crisi dei riferimenti tradizionali per la costruzione dell’identità maschile, come scrive nel libro del 2019 Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore il biologo e sociologo Stefano Ciccone, coordinatore di Maschile plurale. L’esperienza maschile «non passa più dal “portare i soldi a casa”, insegnare un mestiere, spiegare come va il mondo, verificare la propria virilità a letto, dimostrare la propria autosufficienza, affermare la propria autorevolezza attraverso l’autorità».

Anche se gli stereotipi di genere tendono a riemergere in forme sempre aggiornate, secondo Ciccone «è irrimediabilmente entrata in crisi l’illusione che attitudini e ruoli di genere consolidati siano “naturali”». E questo cambiamento ha permesso che si diffondesse progressivamente tra molti uomini la consapevolezza che aggressività, prevaricazione e violenza siano inclinazioni alla base di un genere costruito socialmente.

A proposito dei frequenti fatti di cronaca relativi ai comportamenti violenti maschili contro le donne, in un articolo pubblicato ad agosto su Repubblica Ciccone descrisse come illusorie e ipocrite le risposte che lasciano che a occuparsi di questo problema siano soltanto la polizia in termini repressivi e la scuola in termini di educazione. Sono ipocrite perché non implicano una riflessione tra gli uomini sulle loro relazioni interpersonali e sul loro immaginario. E sono illusorie perché appaltano ad altre istituzioni un cambiamento che occorre produrre nel linguaggio e nella quotidianità.

Il cambiamento culturale non è un processo linearmente evolutivo a cui affidarsi: vuol dire confliggere. Vuol dire litigare e fare fatica: litigare con il parente che azzittisce la compagna, fare la fatica di non risolvere col sorriso di maniera le battute nello spogliatoio di calcetto. La fatica di pensare se stessi senza bisogno di pensare la dipendenza e la vulnerabilità dell’altra.
E non per un richiamo politicamente corretto ma, al contrario, per il coraggio di rompere con la “trasgressione conformista” dei tanti uomini che in televisione, o nelle chiacchiere a cena, come bambini che scoprono le “parolacce”, contrabbandano come coraggiosa disubbidienza la riproposizione trita e ritrita della battuta omofoba o misogina, figlia di un immaginario sessista che già i nostri nonni sentivano desueto.

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