Le birre IPA non se ne andranno a breve
Sono le birre artigianali più vendute e apprezzate, ma alcuni appassionati sono infastiditi dalla loro onnipresenza
Da almeno un decennio l’interesse intorno alle birre artigianali è aumentato, così come il numero di locali specializzati nella loro vendita. Si tratta di birre prodotte da birrifici indipendenti (ossia non legati a un gruppo industriale e dotati di impianti di produzione di propria proprietà), di dimensioni più piccole (non possono superare i 200mila ettolitri di produzione annua) e che non subiscono un processo di “pastorizzazione”, ossia una cottura che serve a sterilizzare la birra, dopo una microfiltrazione che rimuove lieviti e proteine.
Il successo che le birre artigianali hanno avuto negli ultimi anni è legato soprattutto alla diffusione di un particolare “stile” (termine usato per differenziare e categorizzare le birre secondo varie caratteristiche, come il colore, il sapore e l’aroma), ossia l’IPA, acronimo di India Pale Ale. Si tratta di birre ad alta fermentazione (cioè ottenute impiegando lieviti che, lavorando a temperature maggiori, finiscono per concentrarsi nella parte alta del fermentatore), con un contenuto alcolico solitamente compreso tra il 6 e l’8 per cento, caratterizzate dal colore chiaro e da un sapore piuttosto amaro dato dall’utilizzo di una grande quantità di luppolo durante il processo produttivo.
Praticamente ogni pub o birreria che proponga una varietà minima di etichette diverse ha delle IPA tra quelle disponibili alla spina. Negli anni è diventato lo stile preferito da molti, e soprattutto nel mercato statunitense si sono sviluppate una moda e un’attenzione verso le IPA che hanno assunto caratteristiche quasi ossessive. Anche in Italia hanno acquisito una porzione di mercato maggioritaria, tra le birre artigianali: secondo Pietro Di Pilato, fondatore del birrificio Brewfist e consigliere di Unionbirrai (l’associazione di categoria che rappresenta i birrifici indipendenti italiani), «il successo delle IPA è legato alla loro capacità di attrarre tipologie di clientela differenziata, da quella meno esperta e “occasionale” a quella più “colta” e interessata all’artigianato».
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Dopo diversi anni la posizione di mercato delle IPA sembra ancora piuttosto solida, e destinata a durare. Allo stesso tempo, tra appassionati sta emergendo una crescente insofferenza verso questo stile, da parte di chi non lo ha mai apprezzato o di chi è più che altro infastidito dalla sua onnipresenza, e vorrebbe che i produttori si dedicassero maggiormente ad altri stili, come le lager (le bionde tipicamente tedesche) o le stout (quelle scure tipiche di Regno Unito e Irlanda, tipo la Guinness).
Lo stile IPA fu inventato dagli inglesi nel Diciottesimo secolo: secondo la teoria più diffusa, la scelta di usare un quantitativo di luppolo più alto rispetto agli standard del periodo fu dovuta a ragioni molto pragmatiche, come la necessità di proteggere la birra dai cambiamenti di temperatura e dalla proliferazione dei batteri durante i lunghi viaggi in nave verso l’India. La persona che viene solitamente citata quando si parla delle origini dell’IPA è George Hodgson, un birraio londinese che verso la metà del Settecento riuscì a conquistare il mercato indiano esportando la sua “October beer” (“Birra di ottobre”), chiamata così perché prodotta in autunno e contraddistinta proprio da una luppolatura più consistente. In realtà questa versione è molto contestata: ad esempio, in un articolo pubblicato sul suo blog Zythophile, il giornalista Martyn Cornell ha fatto notare che la birra veniva esportata in India già decenni prima che Hodgson aprisse il suo stabilimento, e che i produttori di birra che lo precedettero erano consapevoli della necessità di impiegare una dose generosa di luppoli per produrre le birre destinate a quei mercati.
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Tra tutte le birre artigianali, le IPA sono di gran lunga le più conosciute e apprezzate: secondo un’indagine realizzata da Nielsen (una delle più importanti società di ricerca e monitoraggio di mercato al mondo), negli Stati Uniti rappresentano più del 45% delle vendite dei birrifici artigianali, e su Untappd (un social network che permette di valutare in tempo reale le birre che si stanno consumando) lo stile IPA è stato il più recensito degli ultimi 12 anni.
Nonostante il successo attuale, fino a non troppo tempo fa le IPA venivano considerate dei prodotti di nicchia, ed era difficile prevedere che potessero raggiungere volumi di clientela così grandi. Intervistata da Salon, la podcaster irlandese Lisa Grimm (che conduce “Beer Ladies”, un apprezzato podcast dedicato alla birra) ha detto che, agli inizi degli anni Duemila, le IPA erano ancora considerate delle birre «da nerd», soprattutto per via del loro sapore amaro, considerato ricercato e poco accessibile. «Gli intenditori sottolineavano quanto [le IPA] fossero estreme e quanto solo le persone veramente “hardcore” fossero in grado di gestire la loro amarezza». Grimm ha raccontato anche che, ai tempi, apprezzare o meno una IPA era una «questione di “noi” contro “loro”. O facevi parte di quella nicchia di persone considerate capaci di apprezzarle, oppure ne eri escluso».
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Le cose cambiarono a partire dal 2005 con la fondazione della Brewers Association, il sindacato dei produttori di birra statunitensi, che proprio su questo stile fondò una nuova cultura delle birre artigianali: in quel contesto, le IPA divennero un «sinonimo della rivoluzione della “craft beer revolution” (la “rivoluzione delle birre artigianali”, ndr)», ha spiegato Grimm.
Alcuni addetti ai lavori sostengono che la crescita di interesse verso le IPA stia inducendo i birrifici a dedicarsi quasi unicamente alla produzione di questo particolare stile. Su Punch, una rivista statunitense specializzata nella cultura del bere, Courtney Iseman ha scritto che «l’aumento della domanda di queste birre, spinto dalle sponsorizzazioni su Instagram, sta costringendo i produttori a concentrarsi sulle hazy [la varietà di IPA più diffusa], spingendo l’artigianato verso una monocultura». Iseman ha raccontato anche che, per assaggiare una nuova varietà di IPA, gli appassionati sono disposti ad affrontare ore di fila solo per poi «sfoggiarla su Instagram come status symbol».
Per descrivere il fanatismo che è venuto a crearsi attorno a questo stile di birre, è stato coniato un termine specifico: “IPA Guy”, parola che indica quelle persone che bevono unicamente IPA, ignorando a priori tutte le altre varietà possibili. Su Twitter è stato creato anche l’hashtag #ipaburnout per sottolineare quanto le IPA abbiano monopolizzato le discussioni sulle birre artigianali. Em Sauter, una fumettista che realizza vignette e storie dedicate al mondo della birra, ha detto che negli ultimi vent’anni l’offerta di IPA è aumentata così tanto che «altri stili come la Bitter, la Saison e la Gentle, sono molto più difficili da trovare rispetto a dieci anni fa».
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Anche secondo Di Pilato, che ha lavorato in diversi birrifici statunitensi e inglesi, «nella cultura anglosassone, e negli Stati Uniti in particolare, si è sviluppato un certo fondamentalismo attorno alle IPA: la gente è disposta a dormire fuori da un birrificio perché il giorno dopo esce una birra nuova. Forse un approccio così maniacale ed esclusivo ha finito per infastidire qualcuno». In Italia, invece, «il consumo è molto più consapevole, e non è mai esistita un’attenzione così morbosa verso il settore: di conseguenza le IPA non hanno mai avuto modo di “annoiare” i consumatori». Inoltre, «negli ultimi anni accanto alle IPA i birrifici hanno iniziato a intensificare l’offerta di altri stili, come lager e birre a bassa fermentazione. Le persone hanno a disposizione una varietà di scelta abbastanza ampia, anche se le IPA continuano a rappresentare il grosso della domanda».
Andrea Turco, fondatore e direttore del sito Cronache di Birra, spiega che «in Italia l’interesse continua ad essere alto, ma le persone sono tornate ad apprezzare birre più “classiche” e tradizionali, che conservano tutte quelle caratteristiche che una IPA dovrebbe avere, come il gusto intenso e amaro». Turco racconta anche che «fino a qualche anno fa avevano preso piede delle mode che finivano per inficiare la bevibilità delle IPA. Ad esempio, avevano conosciuto una certa diffusione le cosiddette “hazy”, delle varietà di IPA molto torbide, morbide, fruttate e dolciastre. Sono birre molto interessanti a livello di aroma, ma che dopo due o tre sorsi cominciano a diventare stucchevoli». Un’altra variante di IPA che ha iniziato a diffondersi negli ultimi anni è la cosiddetta “Milkshake IPA”, una «birra contenente lattosio alla quale viene aggiunto un miscuglio di frutta tropicale in fase di fermentazione, che però in Italia non ha mai attecchito».
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In generale, conclude Turco, «nel nostro paese si continuano a preferire IPA un po’ più secche e bevibili, simili a quelle che vengono prodotte nei birrifici della West Coast statunitense: chiare, secche, con un amaro pronunciato ma non invadente, e soprattutto che si bevono semplicemente. Non amiamo i bibitoni, insomma».