Per finanziare l’autonomia servono soldi che il governo non sa dove trovare
Il disegno di legge è in esame al Senato, ma il ministro dell'Economia Giorgetti non ha voluto rispondere sulle coperture economiche
Martedì scorso si sono concluse le procedure di voto in commissione Affari costituzionali del Senato del disegno di legge sull’autonomia differenziata. Il provvedimento potrà ora arrivare in aula, verosimilmente già la prossima settimana, e iniziare così il suo percorso definitivo di approvazione in parlamento. Il disegno di legge è fortemente voluto dalla Lega di Matteo Salvini, per cui l’autonomia regionale è una storica battaglia, ed era stato approvato dal Consiglio dei ministri nel marzo scorso su proposta del ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli, leghista anche lui, che ora ne sta seguendo il percorso in Senato.
Il parlamento può occuparsi di questo disegno di legge pur essendo in sessione di bilancio, cioè nel periodo dell’anno compreso tra fine ottobre e il 31 dicembre in cui dovrebbe occuparsi solo della legge di bilancio o dei decreti in scadenza, perché il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, altro leghista, ha deciso di inserire il disegno di legge sull’autonomia tra i provvedimenti “collegati” alla manovra. L’obiettivo dichiarato di Salvini è di vedere approvato il disegno di legge almeno in Senato entro la prossima primavera, in tempo per la campagna elettorale in vista delle elezioni europee, fissate a inizio giugno.
Il disegno di legge promosso da Calderoli non interviene direttamente sulla Costituzione. Si limita a fissare un percorso e alcune regole che le regioni intenzionate a richiedere più autonomia dovranno seguire. Ed è un percorso piuttosto articolato, che prevede negoziati tra governo e giunte locali, e poi varie delibere da parte del Consiglio dei ministri e della Conferenza unificata (quella che coinvolge ministeri, regioni ed enti locali) intervallate da dibattiti e pronunciamenti del parlamento.
Ma soprattutto il disegno di legge stabilisce che prima di avviare questi negoziati finalizzati a devolvere maggiori competenze alle regioni vengano definiti i Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cioè i servizi minimi che lo Stato deve garantire in ogni parte del suo territorio su settori fondamentali (scuola, trasporti, sanità, per esempio). Questo serve a scongiurare il rischio che l’autonomia mantenga o addirittura aumenti le divergenze territoriali.
Ovviamente garantire questi servizi ha un costo, ed è questo il maggior problema di questa riforma: trovare le risorse per finanziare i LEP. Martedì, durante la sua audizione al Senato, il ministro dell’Economia Giorgetti ha evitato di rispondere a una domanda che gli avevano fatto alcuni esponenti del Partito Democratico su questo punto. Al termine del suo intervento, in via informale, ha poi detto ai senatori presenti che della definizione dei LEP e del loro finanziamento «se ne riparla dopo l’approvazione del disegno di legge di Calderoli».
I LEP non sono materia nuova, in Italia se ne parla da oltre vent’anni. La «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» venne inserita nella Costituzione nel 2001, a seguito della riforma del Titolo V che potenziò i poteri delle regioni: l’articolo 117 fissa questa «determinazione» tra le materie su cui spetta solo allo Stato legiferare, ma da allora non sono mai stati fatti significativi progressi in questo senso.
La legge di bilancio del 2023, quella cioè approvata a fine 2022 dal governo di Giorgia Meloni, ha istituito una “cabina di regia” presieduta dalla stessa presidente del Consiglio, col compito di effettuare entro sei mesi una ricognizione preliminare per procedere poi all’avvio della definizione dei LEP. A sostegno di questa cabina di regia è stata creata anche una apposita segreteria tecnica. In seguito, nel marzo scorso, è stato creato anche un Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (CLEP), formato da 61 esperti in materia di diritto ed economia e presieduto da Sabino Cassese, influente e prestigioso giurista che fu già ministro per la Funzione pubblica tra il 1993 e il 1994 e poi giudice della Corte Costituzionale.
Martedì scorso Cassese è intervenuto alla commissione Affari costituzionali del Senato, e ha spiegato che sono stati creati due sottogruppi di lavoro all’interno del CLEP, impegnati nella definizione dei livelli dei fabbisogni di spesa per garantire l’erogazione dei servizi ritenuti essenziali nei vari settori. Cassese ha parlato dell’«avvio di un percorso» che sembra essere molto lungo per individuare i LEP e capire come realizzarli: «Richiederà un impegno necessariamente pluriennale», ha detto. «Non si può pensare che da un giorno all’altro, se si vuole mantenere l’equilibrio di bilancio dello Stato italiano, vi sarà una somma stanziata adeguata a raggiungere certi obiettivi che sono definiti nei LEP». Poi ha aggiunto: «Non si può pensare che da un giorno all’altro i LEP vengano assicurati perché per assicurarli in molti casi, non sempre, occorre che siano accompagnati da delle cifre».
Il richiamo di Cassese all’equilibrio di bilancio non è casuale. Come ha rilevato la Banca d’Italia in una sua analisi sul progetto di Calderoli, c’è infatti una contraddizione alla base del lavoro avviato dal governo. Mentre infatti la legge di bilancio dello scorso anno prevedeva che la determinazione dei LEP sarebbe dovuta avvenire solo a patto che non comportasse maggiori previsioni di spesa, il disegno di legge sull’autonomia differenziata «ammette la possibilità che dalla loro determinazione possano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica; in questo caso il trasferimento delle funzioni dovrà essere preceduto dallo stanziamento delle necessarie risorse».
Lo Stato dovrebbe insomma finanziare un fondo perequativo: significa che una volta stabilito quale sia il livello minimo dei servizi da garantire, e fissata una cosiddetta spesa standard che ritiene sia necessaria per garantirlo, dovrebbe poi intervenire finanziariamente per aiutare quelle regioni che non hanno risorse sufficienti.
Per fare questo, a meno di non voler spendere cifre considerevoli – nell’ordine di decine di miliardi all’anno – che nessuno saprebbe come reperire, il governo dovrebbe rimodulare la spesa a favore delle regioni più arretrate, e cioè quelle del Sud, prima di poter avviare l’effettivo processo di autonomia. Solo che questa operazione è politicamente molto complicata, perché significherebbe aumentare la parte di risorse ricavate attraverso le tasse riscosse nelle regioni del Nord a favore di quelle del Mezzogiorno: esattamente il contrario di ciò che le regioni del Nord sperano di ottenere dall’autonomia, ovvero poter trattenere maggiori risorse sul proprio territorio e spenderle lì per migliorare i propri livelli di vita.
L’alternativa sarebbe quella di assumere che la cosiddetta spesa storica, quella finora sostenuta dallo Stato per garantire l’erogazione dei servizi essenziali, corrisponda a quella necessaria per finanziare i LEP. Ma questo, segnala ancora la Banca d’Italia, «determinerebbe la “cristallizzazione” degli attuali divari nell’offerta di prestazioni pubbliche sul territorio». Cioè, in sostanza, consoliderebbe la distanza tra il Nord e il Sud dell’Italia.
La Commissione Europea ha espresso preoccupazioni simili nelle sue raccomandazioni all’Italia del maggio scorso, in cui c’è un intero capitolo dedicato al disegno di legge sull’autonomia che dice, tra le altre cose: «Senza risorse aggiuntive potrebbe tuttavia risultare difficile garantire i medesimi livelli essenziali di servizi nelle regioni con una spesa storica bassa, anche a causa della mancanza di un meccanismo di perequazione. Nel complesso, la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere la capacità delle amministrazioni pubbliche di gestire la spesa pubblica, con un conseguente possibile impatto negativo sulla qualità delle finanze pubbliche dell’Italia e sulle disparità regionali».
C’è poi anche una grossa incertezza sugli effetti finanziari che l’autonomia produrrebbe dopo la sua eventuale approvazione. Le materie su cui le regioni possono chiedere maggiore autonomia sono 23: si va dal commercio estero ai progetti di ricerca e sviluppo a favore dei settori produttivi, dall’energia al sistema tributario, dai trasporti alle infrastrutture. Alcune regioni, come il Veneto o la Lombardia, da anni chiedono la competenza su tutte queste materie, l’Emilia-Romagna su quasi tutte. Toscana, Piemonte e Liguria su un numero più limitato. Le regioni del Sud riusciranno verosimilmente a chiederne assai meno.
Per questo la Banca d’Italia ha avvertito che bisogna tenere presente «che introdurre tali asimmetrie potrebbe anche comportare delle inefficienze. Un assetto istituzionale estremamente differenziato potrebbe risultare poco trasparente per i cittadini, accrescendo i costi di coordinamento». Non solo, «una cornice normativa più complessa e disomogenea sul territorio rischia di distorcere – e in ogni caso di rendere più difficoltose – le scelte delle imprese, per esempio richiedendo a quelle che operano su scala sovraregionale di adeguarsi a quadri regolamentari, per le materie devolute, che potrebbero essere anche molto diversi».
Tutte queste complessità sul piano economico e legislativo si riflettono ovviamente anche nella politica. Sia Fratelli d’Italia sia Forza Italia si sono più volte dimostrati scettici sull’ipotesi di accelerare i lavori di approvazione del disegno di legge. Il senatore di FdI Alberto Balboni, presidente della commissione Affari costituzionali, martedì ha detto che a suo avviso «l’iter di questo provvedimento deve andare di pari passo con quello della riforma costituzionale». Che però, essendo appunto una riforma costituzionale, ha tempi molto più lunghi di quelli che in teoria potrebbe avere un disegno di legge ordinario.
Martedì, durante i voti conclusivi nella stessa commissione Affari costituzionali ci sono state forti tensioni: Mario Occhiuto, dopo aver proposto di approvare delle modifiche che allungassero i tempi, e dopo essersi visto respingere questa richiesta dalla maggioranza, ha votato su alcuni emendamenti insieme alle opposizioni. La senatrice leghista Daisy Pirovano a quel punto gli ha detto: «Vergognati». «Ma io le ho risposto che non ho nulla di cui vergognarmi, perché essere un parlamentare significa rispondere anzitutto alla propria coscienza, e non mandare il cervello all’ammasso», dice Occhiuto.
Mario Occhiuto è il fratello del presidente della Calabria e dirigente di Forza Italia Roberto Occhiuto, che domenica scorsa ha duramente criticato Calderoli per la sua volontà di procedere con l’approvazione dell’autonomia senza prima definire e finanziare i LEP.