Gli shutdown del governo esistono solo negli Stati Uniti
Quando il Congresso non trova l'accordo sulla legge di bilancio le attività del governo federale si bloccano: ne è appena stato evitato uno
Una decina di anni fa, nell’ottobre del 2013, la foto di un bambino di un anno con un cappello con orecchie da scimmia finì su molti giornali e homepage dei siti degli Stati Uniti. Poi identificato in Whit Whitmel Earley, il bambino era aggrappato al cancello dello zoo di Washington: sopra di lui un cartello annunciava “Lo zoo è temporaneamente chiuso”. La foto scattata dal padre fu pubblicata all’insaputa dei genitori su diversi social network e poi sui grandi media: il «bambino triste allo zoo», come fu chiamato ripetutamente Whit Whitmen Earley, divenne il simbolo degli effetti dello “shutdown”, la parziale chiusura delle attività del governo federale. Allora, durante la presidenza di Barack Obama, lo shutdown durò 16 giorni. Tra il 2018 e il 2019, con Donald Trump presidente, ebbe la durata più lunga di sempre, 35 giorni.
Mercoledì è stato evitato, o almeno rinviato fino a inizio febbraio, grazie a una proroga temporanea dei finanziamenti al governo.
Lo shutdown, letteralmente “spegnimento”, avviene quando alla fine di un anno fiscale il governo statunitense si trova senza una legge finanziaria approvata dal Congresso, o meglio senza che vengano approvati gli stanziamenti dei fondi (Appropriations bills) per dodici diversi settori dell’attività di governo, che non ha così l’autorità per spendere denaro per servizi non essenziali. In caso di shutdown totale tutto il settore pubblico federale che non è polizia, vigili del fuoco, forze armate e gestione del traffico aereo e delle infrastrutture di base deve fermare ogni attività e lasciare a casa i dipendenti. Nelle ultime due occasioni circa 800mila dei 2 milioni di impiegati federali rimasero temporaneamente senza lavoro o senza stipendio.
Il blocco delle attività federali è una peculiarità americana, non avviene in nessun altro paese al mondo. Nei sistemi parlamentari europei e asiatici il capo del governo ha bisogno dell’approvazione parlamentare per restare in carica: se non passa la legge di bilancio, di solito cade il governo. Nei sistemi presidenziali diversi dagli Stati Uniti, il capo dell’esecutivo ha invece il potere di finanziare l’attività di governo anche senza un bilancio approvato.
Negli Stati Uniti lo shutdown è uno degli effetti imprevisti della divisione e del bilanciamento dei poteri voluto dai “padri fondatori” che scrissero la Costituzione e definirono il funzionamento dello stato: l’azione del potere esecutivo dipende dalle leggi di bilancio approvate dal potere legislativo, ovvero il Congresso, e queste leggi devono essere firmate dal presidente, che ha diritto di veto. Le cose si complicano in caso di coabitazione, cioè quando presidente e maggioranza parlamentare non appartengono allo stesso partito politico, o quando Repubblicani o Democratici controllano ciascuno un ramo del parlamento, la Camera o il Senato.
Gli shutdown durati più di un giorno nella storia americana sono stati quattro e due sono avvenuti nell’ultimo decennio. Il motivo è che negli ultimi anni le collaborazioni fra i due partiti sono diventate sempre più rare e faticose. In passato le differenze tra Democratici e Repubblicani erano limitate e un compromesso era quasi sempre a portata di mano, oggi i primi si sono spostati verso sinistra, i secondi decisamente verso destra. I rapporti sono sempre più conflittuali e anche assicurare il funzionamento dello stato è diventata una questione politica, che spesso si risolve solo dopo ricatti e trattative: le componenti più radicali e minoritarie dei partiti utilizzano la minaccia dello shutdown per provare a ottenere – quasi sempre senza successo – risultati politici a dispetto della maggioranza.
Prima del 1980 gli shutdown non esistevano nemmeno negli Stati Uniti, perché senza un bilancio i governi potevano continuare a spendere anche per le attività non essenziali, sebbene non potessero avviare progetti nuovi.
Nel 1980 e 1981 Benjamin Civiletti, primo italoamericano ad assumere la carica di procuratore generale degli Stati Uniti (corrispondente del nostro ministro della Giustizia), cambiò le cose: pubblicò due nuove interpretazioni dell’Antideficiency Act, una legge approvata la prima volta nel 1884 che stabilisce che il governo non possa firmare alcun contratto che non sia “pienamente finanziato”. Le interpretazioni di Civiletti erano più restrittive rispetto al passato e implicavano la cessazione delle attività degli enti governativi in assenza di una legge di finanziamento per l’anno successivo.
Quelle interpretazioni diventarono la norma e da allora l’assenza di un accordo porta a uno shutdown, totale o parziale (nel caso che vengano approvati gli stanziamenti per uno o più dei 12 settori di attività del governo). Gli effetti del blocco possono essere pesanti, e non solo per i molti dipendenti pubblici che rimangono senza stipendio. Chiudono i parchi e i monumenti nazionali, vengono tagliati i servizi ai veterani di guerra, si fermano gli uffici che forniscono passaporti e visti turistici, si riducono o fermano le ispezioni su sicurezza e pulizia in ristoranti e locali pubblici.
Nel 1995 si bloccarono i lavori di bonifica in oltre 600 aree inquinate, nel 2013 le strutture militari dovettero fare a meno di quasi tutto il personale civile. I dipendenti del governo che restano senza lavoro hanno il divieto anche di controllare le email da casa, tanto che molte agenzie governative in caso di shutdown chiedono la restituzione di computer e telefoni aziendali. I casi sono molti e differenti, tanto che i piani per gestire il blocco delle attività di tutte le diverse agenzie governative sono contenuti in un manuale con 51 pagine di domande e risposte.
La legge definisce anche i settori che non possono essere fermati perché essenziali: fra questi il controllo delle frontiere, le cure mediche ospedaliere, il controllo del traffico aereo, la sicurezza, la manutenzione delle reti elettriche. I parlamentari e i loro staff sono inseriti nelle categorie essenziali, così come i giudici federali: gli assegni dei servizi sociali continuano a essere emessi e il dipartimento del Tesoro può continuare a pagare gli interessi sul debito.
I primi due shutdown si verificarono a breve distanza nell’inverno tra il 1995 e il 1996. I principali protagonisti furono l’allora presidente Bill Clinton e lo speaker Repubblicano della Camera, Newt Gingrich. Lo scontro era su alcuni programmi di assistenza medica e sul finanziamento di alcuni progetti per l’ambiente e l’educazione: i Repubblicani si opponevano a questi programmi e votarono al Congresso delle leggi finanziarie che non includevano il denaro necessario ad avviarli. Clinton pose il veto sulle leggi e innescò lo shutdown, che durò in tutto 16 giorni, in due fasi. Quando la situazione si sbloccò, Clinton ne guadagnò in termini di popolarità, mentre i Repubblicani furono accusati di aver generato una crisi inutile.
Nel 2013 lo shutdown fu avviato dall’opposizione Repubblicana della Camera che si oppose a una legge di bilancio che avrebbe dovuto finanziare parte di Obamacare, la riforma sanitaria fatta approvare dall’amministrazione Obama nel 2010: particolarmente attivi nello scontro furono il senatore Ted Cruz e l’ala più radicale del partito Repubblicano, allora rappresentata dal movimento Tea Party. Durante quei 16 giorni di shutdown si arrivò a un massimo di 850mila dipendenti statali non pagati, per un totale di 6,6 milioni di giorni di lavoro persi.
Alla fine la situazione si sbloccò con minimi compromessi da parte dell’amministrazione Obama: i giornali statunitensi parlarono di una “sconfitta” dei Repubblicani.
Fra il dicembre 2018 e il gennaio 2019 furono i Democratici a bloccare i finanziamenti del governo, in cui il presidente Donald Trump aveva chiesto di inserire 6 miliardi di dollari destinati alla costruzione del muro con il Messico per fermare l’arrivo dei migranti, forse la principale delle sue promesse elettorali: il blocco fu parziale ma molto lungo, anche a causa delle vacanze natalizie e del cambio di maggioranza parlamentare, diventata Democratica dopo le elezioni di metà mandato di quel mese di novembre. L’accordo si trovò su 1,3 miliardi di dollari di fondi per il controllo delle frontiere: il muro non fu mai costruito.
Molte altre volte, come mercoledì, il blocco delle attività governative è stato evitato da un accordo di compromesso, definito Continuing resolution, una proroga temporanea dei finanziamenti che di solito riprende i budget stanziati in precedenza per un determinato periodo di tempo (da pochi giorni a 6 mesi): questa soluzione è sempre più frequente ed è stata utilizzata per 9 degli ultimi 15 bilanci. A inizio ottobre il penultimo di questi accordi è costato la carica di speaker al Repubblicano Kevin McCarthy, sfiduciato dalla minoranza più radicale del suo partito per aver trovato un’intesa con i Democratici.
Le componenti più agguerrite di entrambi i partiti sembrano sempre più disposte a correre il rischio di uno shutdown, nonostante le conseguenze siano molto impopolari e i costi economici non trascurabili. La banca d’investimento Goldman Sachs ha stimato che ogni settimana di chiusura costi lo 0,2 per cento del prodotto interno lordo (PIL) del paese, e nel 2019 fonti governative valutarono che l’intero shutdown costò 3 miliardi di dollari all’economia statunitense.
Nonostante le attività si fermino, la chiusura non è un risparmio neppure per i conti del governo: molti dei dipendenti, anche quelli sospesi, ricevono compensazioni o pagamenti degli stipendi arretrati, ci sono penali su interessi non pagati e ai costi si aggiungono le mancate entrate per gli ingressi ai parchi, ai monumenti e ad altre strutture federali.