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  • Venerdì 17 novembre 2023

La complicata questione delle accuse di “genocidio” contro Israele

Per capirci qualcosa bisogna partire dalla definizione di “genocidio” e dall’uso improprio che spesso si fa del termine

Un bambino palestinese a Rafah, nella Striscia di Gaza (AP Photo/Hatem Ali)
Un bambino palestinese a Rafah, nella Striscia di Gaza (AP Photo/Hatem Ali)

Nelle scorse settimane, in riferimento alla guerra nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas, è stata utilizzata molto di frequente la parola “genocidio”. Alcuni funzionari israeliani hanno parlato di “genocidio” per descrivere il massacro di civili compiuto da Hamas il 7 ottobre. Ma soprattutto si è fatto riferimento a un genocidio in relazione alla campagna di bombardamenti massicci e all’invasione di terra dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, in cui sono stati uccisi più di 11 mila palestinesi, in gran parte civili.

La parola genocidio per descrivere quello che sta succedendo alla popolazione di Gaza è molto usata sui social network, ma anche da alcuni esperti di diritto e membri delle istituzioni internazionali. Altri, invece, sono decisamente più esitanti a usare questa definizione, per tutta una serie di ragioni. Per avere gli strumenti adeguati a comprendere il dibattito in corso serve partire dalle definizioni: sapere cosa sia un genocidio e perché l’attribuzione certa di questo crimine è molto complicata dal punto di vista del diritto internazionale.

Genocidio
Uno dei problemi principali quando si parla di genocidio è che molto spesso la definizione del fenomeno è piuttosto confusa. Nel linguaggio politico e giornalistico si fa spesso riferimento a “genocidio” per indicare un grande massacro, un’uccisione di massa o altri eventi di questo tipo: è un termine cioè che viene usato come indicatore della violenza o brutalità o gravità di un certo crimine, al di là del tipo specifico di crimine. In realtà, esiste una definizione giuridica che è molto stringente e prevede criteri e condizioni determinate.

Un’impronta insanguinata nel kibbutz Nir Oz, in Israele (AP Photo/Bernat Armangue)

La definizione di genocidio codificata dal diritto internazionale è contenuta nella cosiddetta Convenzione sul genocidio, un trattato internazionale approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948. La Convenzione del 1948 fornisce la definizione formale di genocidio, sulla base della quale gli organismi internazionali stabiliscono la presenza o meno di un atto di genocidio, e le eventuali responsabilità e punizioni, che sono stabilite dai tribunali internazionali. La definizione è questa:

Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a
provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Le condizioni decise dalla Convenzione per parlare di genocidio sono piuttosto precise e non sembrano lasciare molto spazio a dubbi, ma c’è un elemento che rende tutto più complicato, che è «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». In pratica significa che per parlare di genocidio deve essere provato che chi ha commesso l’atto avesse l’intenzione di sterminare un gruppo di persone in quanto tale. Per questo la Shoah è definita un genocidio (l’obiettivo del regime nazista era sterminare sistematicamente il popolo ebraico in quanto tale), mentre è molto più difficile attribuire questa definizione a un grande massacro di civili compiuto nel corso di una guerra.

Anche per questo, dall’approvazione della Convenzione del 1948 (quindi dopo la Shoah) a oggi, i casi in cui il crimine di genocidio è stato riconosciuto e perseguito da tribunali internazionali sono soltanto tre: il genocidio cambogiano compiuto dai Khmer Rossi alla fine degli anni Settanta, il genocidio in Ruanda del 1994 e il massacro di Srebrenica in Bosnia nel 1995.

Nel corso degli ultimi decenni, dal 1948 a oggi, ci sono stati ovviamente molti altri casi di massacri che potrebbero far pensare a un genocidio, ma nessuno è stato definito come tale perché non è stato possibile stabilire con sufficiente certezza nei tribunali internazionali che i crimini sono stati compiuti con «l’intenzione» di distruggere un gruppo.

Per esempio nel 2003 in Darfur, una regione separatista del Sudan, le milizie fedeli all’allora presidente Omar al Bashir misero in atto una campagna di pulizia etnica in cui furono uccise circa 300 mila persone. Molti paesi, compresi gli Stati Uniti, parlarono di genocidio, e ancora oggi è piuttosto comune sentir parlare del “genocidio in Darfur”. Ma nel 2005 una commissione dell’ONU stabilì che il governo del Sudan non aveva «perseguito una politica di genocidio», anche se alcuni individui, compresi funzionari del governo, avevano agito con «intenti genocidari».

Qui è necessario considerare un elemento importante, che gli esperti e la giurisprudenza internazionale sottolineano: non esiste una gerarchia formale di gravità tra i diversi crimini internazionali. Questo è un ulteriore problema del dibattito pubblico, in cui si tende a considerare il genocidio come il peggiore e il più infamante di tutti i crimini, lasciando intendere implicitamente che, per esempio, crimini contro l’umanità come lo sterminio siano meno gravi. Dal punto di vista del diritto internazionale non è necessariamente così, ma questa percezione fa sì che attorno all’accusa di genocidio si generino una retorica e un dibattito molto polarizzati e confusi.

– Leggi anche: Cosa è legale e cosa no nella guerra a Gaza

Gaza
Nelle scorse settimane molte persone hanno fatto riferimento ai bombardamenti e all’invasione israeliana della Striscia di Gaza come a un genocidio. Se ne parla molto sui social network, ma anche alcuni leader di paesi islamici, come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, lo hanno detto esplicitamente. In tutti questi casi, però, si è sempre fatto riferimento alla definizione politica e non giuridica di genocidio, quella che viene usata per esprimere un particolare orrore nei confronti dell’uccisione di massa di civili.

Il dibattito è vivace anche tra gli esperti e tra le persone che si occupano di diritto internazionale o lavorano per organizzazioni internazionali. Il caso più notevole è quello di Craig Mokhiber, il direttore dell’ufficio di New York dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, che a inizio novembre ha annunciato le sue dimissioni per protesta contro l’atteggiamento prudente dell’ONU, sostenendo che quello che sta avvenendo nella Striscia di Gaza è un «caso da manuale» di genocidio.

Sono circolati anche appelli pubblici, per esempio di alcuni consulenti indipendenti dell’ONU o di studiosi di legge internazionale, che però non parlano direttamente di genocidio, ma di “rischio di genocidio” o di “potenziale genocidio”. Questa è ovviamente una posizione differente e più cauta, che implica il fatto che potrebbero esserci alcuni estremi per parlare di genocidio, ma che sono ancora tenui e soprattutto non sono stati identificati in maniera indipendente.

Gli esperti che ritengono che possano esserci gli estremi per parlare quanto meno di «rischio di genocidio», e che dunque nelle azioni dell’esercito israeliano si possa riscontrare «l’intenzione di distruggere» un gruppo come i palestinesi, fanno riferimento al fatto che diversi esponenti del governo e delle istituzioni di Israele hanno parlato in maniera estremamente violenta della guerra a Gaza. Il presidente di Israele, Isaac Herzog, ha detto che «là fuori [nella Striscia di Gaza] c’è un’intera nazione che è responsabile», riferendosi a tutti i palestinesi che avrebbero responsabilità nell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che ridurrà «in macerie» la Striscia di Gaza e il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha detto che «stiamo combattendo con animali umani, e agiamo di conseguenza».

Molti esperti però esitano a dire che queste dichiarazioni siano sufficienti a stabilire l’intenzione di commettere un genocidio, anche perché sono state più numerose le dichiarazioni in cui l’esercito e il governo hanno detto di lavorare per salvaguardare la vita dei civili, benché lo stesso Netanyahu di recente abbia ammesso che questi tentativi non stanno ottenendo risultati (il fatto solo di dire di voler salvaguardare le vite dei civili non significa nulla, ovviamente, se poi si intraprendono azioni che vanno nella direzione opposta). Insomma, al momento è molto complicato provare che il governo israeliano abbia un’intenzione di genocidio.

Un’altra ragione di cautela riguarda il fatto che al momento non è possibile fare una ricostruzione dei fatti indipendente.

Solitamente, quando nei tribunali internazionali viene aperta un’indagine per genocidio (semplificando all’estremo, nei casi che riguardano i crimini internazionali la Corte penale internazionale si occupa della responsabilità degli individui, mentre la Corte internazionale di giustizia si occupa della responsabilità degli stati) il procuratore che si occupa del caso fa lunghe indagini sul posto, ha accesso ai luoghi, ispeziona le eventuali fosse comuni e le salme, interroga i testimoni. Attualmente l’accesso alla Striscia di Gaza è completamente bloccato, e non è possibile formulare un’accusa sulla base di indagini indipendenti.