La disinformazione è un problema diverso da come lo immaginiamo
Secondo studi recenti la facciamo troppo semplice, specie nel valutare la sua influenza diretta sui comportamenti delle persone
La disinformazione è da anni, e in particolare dalla pandemia in poi, uno degli argomenti più discussi e trasversali sia nel dibattito pubblico che all’interno della comunità accademica. La preoccupazione riguardo alla possibilità che informazioni inesatte o imprecise condizionino i comportamenti della collettività ha ispirato e continua a ispirare vari e spesso complicati e infruttuosi tentativi istituzionali di contrastare la loro diffusione. Ma alcune riflessioni e ricerche recenti si sono concentrate sulla fragilità di molte opinioni comuni sulla disinformazione, e la descrivono come una questione non nuova, da sempre molto scivolosa e oggetto di frequenti semplificazioni e strumentalizzazioni.
Uno dei principali limiti della discussione sulla disinformazione, secondo alcuni medici, linguisti, sociologi e psicologi che se ne sono occupati, riguarda la confusione sulla definizione stessa della parola e di altre utilizzate come sinonimi ma che indicano sfumature diverse. Un altro riguarda il rischio di interpretare la disinformazione come un fenomeno storico del tutto nuovo, sovrastimando le responsabilità e l’influenza dei nuovi media e delle tecnologie. E un altro limite ancora è la tendenza a stabilire sbrigativamente nessi causali diretti tra la disinformazione da una parte e le false credenze e i comportamenti dannosi dall’altra, semplificando una relazione multifattoriale che si sviluppa in modi più complessi.
Una certa confusione sul significato dei termini nel dibattito sulla disinformazione deriva dal fatto che si usa spesso la stessa parola per definire sia le informazioni inaccurate o inesatte diffuse in buona fede, sia quelle diffuse con consapevolezza della loro imprecisione o infondatezza. È una distinzione significativa, che in ambito anglosassone motiva l’uso di due parole diverse: misinformation (quella in buona fede) e disinformation (quella consapevole). La confusione dipende almeno in parte da un problema di prospettiva: per chi riceve l’informazione imprecisa o inesatta non è sempre facile né immediato intuire le intenzioni del mittente.
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In un ampio studio di revisione pubblicato ad agosto sulla rivista Journal of Medical Internet Research un gruppo composto da ricercatori e ricercatrici delle facoltà di medicina di diverse università e istituti negli Stati Uniti, in Canada e in Libano ha analizzato e valutato l’uso e le definizioni della parola disinformazione (e delle altre parole correlate) negli articoli di revisione in campo medico pubblicati tra gennaio 2017 e marzo 2023. La selezione tiene conto della popolarità crescente del dibattito: come notato da un altro gruppo di studio inglese e tedesco, una ricerca della parola misinformation su un motore di ricerca accademico restituisce circa 100mila risultati tra il 1970 e il 2015 e oltre 150mila solo negli ultimi sette anni.
I risultati dello studio indicano un’ampia variabilità sia nell’uso che nella connotazione di diverse parole associate al dibattito sulla disinformazione, tra cui anche fake news e “infodemia”, usata solitamente per definire la circolazione eccessiva di informazioni, anche quelle poco accurate. Diversi articoli di vari argomenti – tra cui la pandemia – citavano la caratteristica dell’intenzionalità in riferimento a più parole, inclusa misinformation, che in teoria dovrebbe invece indicare informazioni false o inesatte ma non intenzionalmente fuorvianti.
L’ambiguità delle parole, secondo altri ricercatori e ricercatrici, è una conseguenza dell’incertezza e della scivolosità che contraddistinguono tutto il dibattito pubblico sulla disinformazione. Da un lato, in contesti di incertezza delle informazioni e in cui i dati disponibili sono ancora molto limitati, come nella prima fase della pandemia, può essere difficile stabilire a priori quali informazioni siano intenzionalmente imprecise e quali lo siano a causa di un’interpretazione dei dati sbagliata ma in buona fede.
Dall’altro lato, anche tenendo in considerazione soltanto questa seconda accezione di disinformazione, ogni definizione rimanda in una certa misura alla difficoltà di valutare e stabilire i confini tra un’informazione imprecisa, una incompleta e una sbagliata: confini che sono a volte molto sfumati e possono, sul piano epistemologico, anche spostarsi nel tempo. Le ambiguità e difficoltà del dibattito sulla disinformazione sono anche l’argomento di un articolo pubblicato a febbraio sulla rivista Perspectives on Psychological Science da un gruppo di ricercatori e ricercatrici della University of Cambridge, della University College e la Queen Mary University di Londra, e del Max Planck Institute for Human Development di Berlino.
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La distinzione tra ciò che è disinformazione e ciò che non lo è può variare a seconda dei diversi criteri di valutazione e dei contesti: in molti casi l’approccio «riduzionista» che distingue soltanto tra informazioni vere e false può non essere quello appropriato, ha scritto il gruppo di ricerca. Questa distinzione tende infatti ad appiattire il dibattito portandolo a un livello in cui non esistono sfumature. Possono teoricamente rientrare nella categoria di “disinformazione” molte cose diverse: un articolo che riporta un dettaglio inesatto (il colore della maglietta di una persona, per esempio), o una previsione meteorologica che indica una temperatura massima prevista di 30 °C quando poi ce ne sono 31, o un’ipotesi scientifica plausibile che viene poi rapidamente scartata man mano che nuovi dati diventano disponibili.
L’estensione notevole del dibattito in anni recenti ha inoltre indotto una parte dell’opinione pubblica a credere, sbagliando, che la disinformazione sia un fenomeno nuovo. Sebbene ci sia un generale consenso sul fatto che Internet e i social media abbiano reso possibile la circolazione di informazioni false o imprecise in tempi e su scale effettivamente impensabili prima, la disinformazione esiste da moltissimo tempo: la capacità stessa di mentire è considerata negli studi sul linguaggio un tratto distintivo e radicato del genere umano.
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Da sempre gli esseri umani hanno una certa familiarità con racconti, circostanze e contesti in cui coesistono e spesso si sovrappongono storie di fantasia, mezze verità, inesattezze e teorie del complotto: dai bestiari medievali, che tenevano insieme animali veri e altri inesistenti, ai movimenti no vax dell’Ottocento. Con il tempo i criteri e gli strumenti per distinguere le informazioni vere da quelle false, nei discorsi in cui è fondamentale distinguerle, sono diventati via via più rigorosi e affidabili, intanto che cresceva la fiducia delle persone nel valore collettivo della conoscenza.
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Gli stessi criteri non sono però applicati uniformemente in qualsiasi contesto. È improbabile, per esempio, che durante una conversazione informale a tavola una persona tiri fuori un’enciclopedia per verificare ogni informazione di cui sta parlando il suo interlocutore o la sua interlocutrice. Dal momento che una grande parte delle discussioni intersoggettive di questo tipo si è spostato online, ha scritto il gruppo di ricerca dello studio pubblicato su Perspectives on Psychological Science, misurare la quantità di disinformazione in quegli spazi è praticamente impossibile: perché ogni cosa che diciamo presenta un grado più o meno ampio di imprecisione, come ha detto alla rivista Undark la ricercatrice inglese Magda Osman, tra le autrici dello studio.
Problemi simili a questi sono storicamente emersi anche dai tentativi di migliorare la qualità delle informazioni online tramite strumenti di fact-checking. Oltre che con limiti di tempestività delle conferme o delle confutazioni, quei tentativi si sono misurati con la frequente necessità di valutare le affermazioni lungo scale di verità, più che in termini assoluti di fondatezza o infondatezza, che si escludono a vicenda. La capacità del fact-checking di “correggere” la disinformazione tende inoltre a essere molto attenuata dalle convinzioni preesistenti delle persone, come emerso anche da ricerche e sondaggi citati in un recente approfondimento del New York Times.
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Uno dei sondaggi indica che attualmente tre persone su dieci negli Stati Uniti credono che la vittoria di Biden alle elezioni presidenziali del 2020 sia stata il risultato di brogli. La stessa quantità di persone credeva a questa versione dei fatti subito dopo le elezioni, prima che le verifiche da parte di giornali e fact-checker portassero a chiare e ripetute smentite di questa tesi. Una possibile interpretazione di questi risultati è che la disinformazione sia in una certa misura più convincente – e quasi sempre più veloce – di qualsiasi successiva correzione. Del resto anche nella ricerca in psicologia sociale cambiare e formare un comportamento sono considerati due fenomeni diversi.
Ma anche l’idea intuitiva che la disinformazione abbia un impatto diretto sulle convinzioni e sui comportamenti socialmente dannosi delle persone trova riscontri ancora molto limitati nella letteratura scientifica. «Se non c’è accordo su una definizione di disinformazione, non sorprende che non esista un modo chiaro per determinare il suo ruolo nel modellare le convinzioni e, di conseguenza, il modo in cui tali convinzioni influenzino il comportamento», scrissero a febbraio sul sito The Conversation gli autori e le autrici dello studio pubblicato su Perspectives on Psychological Science.
Molti dei ragionamenti che portano l’opinione pubblica a considerare la disinformazione uno dei più grandi problemi della società, secondo il gruppo di ricerca, partono dal presupposto che esista una relazione causale diretta tra la disinformazione a monte e le credenze a valle, e che le credenze basate su quella disinformazione causino in modo altrettanto lineare comportamenti irrazionali e dannosi. Ma questo tipo di ragionamento, oltre che avere prove empiriche spesso insufficienti, tende a trascurare sia le dinamiche che portano alla formazione delle convinzioni, sia i normali cambiamenti dello status delle affermazioni che secondo il consenso pubblico possono essere considerate legittime o illegittime nel corso del tempo.
Un esempio abbastanza frequente è la disinformazione sui vaccini, più volte considerata la ragione della ritrosia di molte persone a vaccinarsi durante la pandemia. Sebbene esistano diversi studi che mostrano una correlazione tra l’esposizione alla disinformazione e lo scetticismo sui vaccini, questo non implica di per sé che quella correlazione sia di tipo causale. Altri studi condotti in anni recenti suggeriscono che la fiducia nelle vaccinazioni sia in tutto il mondo un dato estremamente variabile, che fosse in calo in determinate minoranze già prima della pandemia e che rifletta tendenze più ampie di tipo politico, sociale e religioso.
Per questa ragione molti esperti che si occupano di campagne di vaccinazione nel mondo contestano che il cosiddetto modello dell’“alfabetizzazione sanitaria”, cioè l’idea che fornire alle persone scettiche le informazioni giuste, trascurando altri fattori alla base delle loro decisioni, sia sufficiente a orientare decisioni diverse e socialmente più utili.
Un’altra frequente argomentazione a sostegno della presunta relazione causale tra la disinformazione e i comportamenti aberranti, secondo il gruppo di ricerca, è fare riferimento a eventi di grande risonanza: per esempio, il ruolo della disinformazione prima dell’attacco al Campidoglio di Washington a gennaio del 2021. Secondo lo studio ogni caso di questo tipo dovrebbe però essere documentato e analizzato singolarmente e con attenzione, e non essere considerato una base di prove sufficientemente solida per orientare le decisioni politiche.
«Proprio come i casi di effetti collaterali negativi dopo una vaccinazione richiedono ulteriori esami e studi su larga scala per valutare l’entità del problema, chiediamo una ricerca più sistematica sulla relazione tra l’esposizione alla disinformazione e i comportamenti che ne derivano», concludono gli autori e le autrici dello studio. La mancanza di sufficienti prove empiriche della relazione causale tra la disinformazione e i comportamenti dannosi, secondo lo studio, non significa che la diffusione della disinformazione online sia un bene o che non sia necessario tentare di contrastarla: significa che per valutare la gravità del problema è necessario studiarne le dinamiche fondamentali, in modo da adottare misure adeguate per limitarne le conseguenze.