Gli scioperi generali sono sempre più politici
Ottengono maggiore risonanza rispetto alle proteste mirate, ma fanno richieste generiche principalmente per mandare un messaggio al governo
Negli ultimi mesi sono state organizzate decine di scioperi, tra cui quello generale del prossimo 17 novembre. Alcuni avevano rivendicazioni puramente sindacali e puntavano a migliorare le condizioni contrattuali di specifiche categorie di lavoratori, mentre altri erano proteste contro misure politiche approvate dal governo o dal parlamento, come la legge fiscale o la legge di bilancio. Molti si sono svolti nei giorni contigui al fine settimana, il lunedì o il venerdì, e la maggior parte è durata solo poche ore: è una differenza importante rispetto ad altri scioperi particolarmente sentiti, come quello dei lavoratori che consegnano i mobili di Mondo Convenienza.
In Italia il diritto allo sciopero, garantito dall’articolo 40 della Costituzione, è ancora considerato il perno dell’azione sindacale e lo strumento più importante con cui i lavoratori possono fare pressione sui propri datori di lavoro. Sempre più spesso però le rivendicazioni alla base dei grandi scioperi generali sono indirizzate più al mondo politico che a quello industriale, con richieste in alcuni casi ampie e piuttosto vaghe: si protesta contro il governo, contro le spese militari o contro il cambiamento climatico, problemi su cui di fatto le aziende possono fare poco o nulla. Allo stesso tempo, tramite scioperi più mirati e spesso meno raccontati i dipendenti di alcuni settori fanno richieste che in molti casi ottengono risultati.
Secondo l’enciclopedia Treccani, per “sciopero” si intende l’«astensione organizzata dal lavoro di un gruppo più o meno esteso di dipendenti del settore pubblico o privato, per la tutela di comuni interessi e diritti di carattere economico, politico o sindacale». La sospensione del lavoro crea un disservizio all’azienda, che può portare a un calo della produttività, a danni economici o reputazionali. In questo modo i lavoratori spingono l’azienda a trattare, e possono ottenere condizioni e salari migliori.
Fino agli anni Novanta non esistevano leggi che regolassero il diritto allo sciopero, che quindi poteva essere esercitato senza particolari restrizioni. Solo nel 1990 fu approvata una legge per conciliare il diritto allo sciopero con quello della popolazione di accedere ai servizi pubblici essenziali, come i trasporti, le poste e gli ospedali. Vennero quindi introdotti vari limiti, tra cui la possibilità per il governo di “precettare” uno sciopero, ossia decidere di limitarne la durata se ritiene che possa compromettere in modo eccessivo «i diritti della persona costituzionalmente tutelati».
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La norma però non limitò la frequenza degli scioperi, né fece diminuire i disservizi per gli utenti, soprattutto nel settore dei trasporti. Nel 2000 furono quindi introdotte ulteriori limitazioni: per esempio fu imposto un limite massimo alla durata degli scioperi, stabilito dai contratti collettivi nazionali, che generalmente va dalle 4 alle 24 ore. Un altro limite è quello della “rarefazione oggettiva”, secondo cui deve passare un intervallo di tempo minimo tra la convocazione di due scioperi dello stesso settore. Tutto questo vale per i settori che forniscono servizi pubblici essenziali, mentre continuano invece a non esserci limitazioni per gli altri settori, in cui gli scioperi possono essere indetti senza preavviso e non hanno una durata massima.
Capita spesso che a uno sciopero aderiscano solo alcune associazioni sindacali, e che quindi i servizi del settore in questione vengano interrotti solo parzialmente. Inoltre gli scioperi possono riguardare un solo settore, come quello dei trasporti, dei metalmeccanici o della scuola, oppure coinvolgerli tutti: in questo caso si parla di “sciopero generale”. Nel 2023 erano in programma 11 scioperi generali di portata nazionale: 10 si sono già svolti, e l’ultimo dovrebbe essere quello del 17 novembre.
Non sempre è facile venire a sapere i motivi precisi dietro a uno sciopero. Ogni settore e ogni sindacato può avere richieste diverse, che possono essere circoscritte – un certo aumento della paga oraria, o una riduzione dell’orario di lavoro – o generiche, per esempio chiedendo condizioni di lavoro “dignitose” o “l’adeguamento dei salari al costo della vita”, due motivazioni citate spesso dai sindacati negli ultimi mesi.
In base alle motivazioni gli scioperi possono essere divisi tra “economici”, “economici-politici” o “politici”. I primi sono quelli che più di frequente associamo a uno sciopero: i dipendenti si astengono dal lavoro per ottenere miglioramenti contrattuali. Spesso questi attirano meno l’attenzione della stampa perché non sono organizzati dalle sezioni nazionali dei grandi sindacati confederali come CISL, UIL o CGIL e coinvolgono un numero relativamente piccolo di lavoratori, ma sono comunque importanti e spesso permettono di ottenere miglioramenti rilevanti per la vita dei lavoratori e delle lavoratrici.
In alcuni casi gli scioperi economici possono riguardare una sola azienda, o addirittura solo alcuni stabilimenti produttivi. Giancarlo Pelucchi, che oggi cura la comunicazione per CGIL in Lombardia e ha una lunga carriera da sindacalista, spiega che prima di organizzare uno sciopero in una fabbrica vengono fatte molte assemblee, nelle quali si discute dei problemi, della possibilità di scioperare e delle modalità con cui farlo. Per molti può essere una scelta non facile, dato che le ore di astensione dal lavoro non vengono retribuite: «Dopo la proposta dello sciopero c’è un momento di silenzio, in cui le persone calcolano quanto gli costerà e a cosa dovranno rinunciare per parteciparvi. È questo il vero lavoro del sindacalista», dice Pelucchi.
Negli ultimi decenni in Italia sono diventati più frequenti gli scioperi “economici-politici”, con cui i lavoratori protestano contro alcune misure approvate dal governo o dal parlamento che li riguardano in modo indiretto, come la legge fiscale o la legge di bilancio. Ci sono poi gli scioperi puramente “politici”, che invece rivolgono al governo richieste non necessariamente legate al mondo del lavoro, ma relative al contesto internazionale o a vicende di attualità. Per esempio, tra il 2022 e il 2023 ci sono stati scioperi che chiedevano di fermare l’invio di armi in Ucraina o di ridurre le spese militari, oppure erano di sensibilizzazione sul cambiamento climatico.
«Gli scioperi nazionali, soprattutto quelli generali, hanno un valore principalmente politico: sono fatti quasi sempre per mandare un messaggio al governo», dice Armando Tursi, docente di Diritto del lavoro all’Università Statale di Milano. Spesso in occasione degli scioperi generali i sindacati aderenti organizzano anche grosse manifestazioni o cortei per attirare l’attenzione e dare voce alle richieste dei settori partecipanti.
La distinzione tra motivazioni economiche e politiche non sempre è netta, e spesso queste si mescolano in un’unica manifestazione che accoglie istanze provenienti da diversi settori e sindacati. Anche per questo, le richieste degli scioperi politici o politico-economici rimangono sul vago. Per esempio, CGIL e UIL hanno indetto lo sciopero del 17 novembre «per alzare i salari, per estendere i diritti e per contrastare una legge di bilancio che non ferma il drammatico impoverimento di lavoratrici, lavoratori, pensionate e pensionati e non offre futuro ai giovani. A sostegno di un’altra politica economica, sociale e contrattuale, che non solo è possibile ma necessaria e urgente».
Negli ultimi anni gli scioperi generali grandemente partecipati e con richieste chiare e puntuali sono diventati sempre più rari. In altri paesi non funziona così. In Francia tra gennaio e aprile sono stati organizzati grandi scioperi nazionali per protestare contro la riforma delle pensioni, che tra le altre cose prevedeva di alzare l’età pensionabile da 62 a 64 anni. Coinvolse molti settori, tra cui i trasporti ferroviari, aerei e cittadini, la scuola e l’energia. Ci furono grossi disagi: oltre ai blocchi alla circolazione, a causa dello sciopero dei netturbini i rifiuti si accumularono per giorni sui marciapiedi delle città. A marzo re Carlo III del Regno Unito sarebbe dovuto andare a Parigi, ma la visita fu posticipata.
Nell’ultimo anno ci sono stati grossi scioperi economici anche negli Stati Uniti. Gli attori e le attrici di Hollywood hanno scioperato per 118 giorni e gli sceneggiatori per 148 giorni, prima di trovare accordi con le case di produzione che soddisfacessero le richieste dei sindacati. A fine ottobre è finito anche uno sciopero dei dipendenti di General Motors, Ford e Stellantis – tre dei principali produttori di automobili – che aveva coinvolto oltre 45mila persone ed era durato diverse settimane. Anche in questo caso le aziende hanno trovato un accordo con i sindacati di rappresentanza.
Con il passare del tempo e il trasformarsi delle abitudini lavorative, anche le modalità e i risultati degli scioperi sono cambiati. «Nelle grandi fabbriche integrate e con una forte catena di montaggio, anche lo sciopero di un piccolo gruppo di dipendenti poteva avere effetti dirompenti», dice Maria Teresa Carinci, docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano. «Nel sistema attuale, dove c’è una presenza forte del lavoro autonomo e della precarietà, l’impatto dello sciopero è minore».
“Sciopero” non significa necessariamente astensione del lavoro: la Costituzione tutela il diritto allo sciopero, ma non ne dà una definizione. Secondo Carinci, un esempio di sciopero non tradizionale sono le azioni dimostrative organizzate negli ultimi anni dai rider che lavorano per le piattaforme digitali di consegna a domicilio, che invece dell’astensione hanno organizzato presidi, proteste e azioni collettive per portare le proprie richieste all’attenzione delle autorità cittadine e delle aziende, ottenendo in alcuni casi vittorie sindacali.
Un altro esempio è lo sciopero virtuale, con il quale i dipendenti di un’azienda continuano a lavorare, ma decidono che una parte dello stipendio guadagnato in una certa fascia oraria debba essere versato a un fondo o a un’associazione di beneficenza: «Lo sciopero virtuale non danneggia gli utenti, ma permette ai lavoratori di segnalare comunque le proprie richieste e i problemi contrattuali», dice Carinci.
Secondo Armando Tursi, oggi in Italia il livello di conflittualità sindacale «non ha raggiunto soglie di allarme sociale», e quindi non c’è bisogno di un nuovo intervento legislativo: «Le leggi del 1990 e del 2000 stanno funzionando», dice, aggiungendo che anche gli scioperi di poche ore, se indetti con frequenza, possono fare pressione sulle aziende e portare a miglioramenti contrattuali per i lavoratori, soprattutto nel settore dei servizi pubblici. Ne è convinto anche il sindacalista Giancarlo Pelucchi: «Se gli scioperi non servissero, non se ne discuterebbe così tanto», dice.
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