Non abbiamo sempre immaginato il tempo come una linea
Mappe e illustrazioni antiche mostrano in quali altri affascinanti modi è stato rappresentato graficamente
di Antonio Russo
Nella maggior parte del mondo l’immagine più comune associata al tempo è una linea orizzontale in cui un punto o uno spazio centrale, il presente, separa il passato dal futuro. Questa rappresentazione lineare è per molti aspetti la più pratica, comprensibile e facile da immaginare, ma per quanto diffusa e radicata non è l’unica possibile. Esempi di rappresentazioni diverse dimostrano come anche il modo in cui visualizziamo il tempo – una dimensione che tendiamo a considerare oggettiva e universale – sia influenzato da fattori storici, geografici e culturali. Dipende infatti dagli strumenti con cui lo misuriamo, dal linguaggio che usiamo per parlarne, dallo scopo per cui serve rappresentarlo e dall’impatto dei progressi scientifici e tecnologici sulla nostra vita.
Tutte le culture hanno in una qualche misura un senso del tempo ordinato tra passato, presente e futuro, ma per gran parte della storia umana la concezione del tempo è stata fondamentalmente ciclica. Nelle civiltà con questa impostazione, come scritto dallo studioso e divulgatore di filosofia inglese Julian Baggini, «il passato è anche il futuro, il futuro è anche il passato, il principio è anche la fine». Questo modo di pensare al tempo è per certi versi anche il più comodo, dal momento che evita alcuni dei dilemmi della rappresentazione lineare: chiedersi come una linea possa continuare senza fine, per esempio, o cosa ci fosse prima che cominciasse.
Diffusa anche nelle civiltà precolombiane, la concezione ciclica del tempo aveva senso soprattutto nelle società premoderne, secondo Baggini, perché le innovazioni erano meno frequenti e le vite delle persone molto simili a quelle delle generazioni precedenti: l’idea stessa di un progresso era inimmaginabile. Molti elementi riconducibili a questa concezione sono generalmente presenti e più evidenti nelle tradizioni non occidentali: la filosofia dell’Asia orientale, in particolare quella taoista, è profondamente radicata nel ciclo delle stagioni, per esempio.
L’idea di una ciclicità è presente anche in molti degli strumenti che utilizziamo ogni giorno per programmare e gestire le nostre attività, dal calendario agli orologi. Ma in queste rappresentazioni sono comunque presenti delle linee temporali: quelle circolari tracciate dalle lancette dell’ora e dei minuti sugli orologi analogici, per esempio. Come scritto dai linguisti statunitensi George Lakoff e Mark Johnson nel libro Philosophy In The Flesh: The Embodied Mind And Its Challenge To Western Thought, la metafora della linea è presente anche quando nessuna linea è effettivamente visibile, come negli orologi digitali: in quel caso la linea è una «metafora intermedia» che permette di capire il significato dei numeri solo «traducendoli» in punti immaginati su una linea.
La linea è tipicamente associata alle cronologie, cioè i documenti di vario tipo che espongono i fatti storici in successione e chiariscono i rapporti temporali tra l’uno e l’altro, privando quindi il tempo della sua dimensione ciclica e rappresentandolo su scala più ampia. Proprio l’osservazione delle cronologie permette di cogliere i segni di epoche in cui, anche nella tradizione occidentale, il modo di concepire e visualizzare il tempo non somigliava quasi per niente a quello lineare che tendiamo oggi a considerare universale.
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Il problema di dare forma visiva alle informazioni di tipo cronologico fu condiviso dalle civiltà fin dall’Età antica. Come raccontato dagli storici statunitensi Daniel Rosenberg e Anthony Grafton in un apprezzato volume pubblicato nel 2010 ma attualmente fuori produzione, Cartographies of Time: a history of the timeline (edito in Italia da Einaudi nel 2012), ogni cultura ideò e sviluppò un proprio sistema per selezionare ed elencare gli eventi significativi. I Persiani avevano le loro liste di re, i Romani quelle dei consoli. Uno dei più antichi documenti con un’impostazione cronologica, il Marmor Parium, è un’iscrizione greca su marmo risalente alla metà del III secolo a.C., che riporta un elenco di governanti, eventi e invenzioni.
Tra gli storici antichi e medievali in Europa emersero alcune tecniche di illustrazione sincronica, che senza utilizzare linee implicavano comunque una qualche idea di linearità. Lo scrittore greco del IV secolo Eusebio di Cesarea, biografo dell’imperatore romano Costantino I, sviluppò una sofisticata struttura tabellare per organizzare e mettere insieme nei manoscritti informazioni storiche tratte da fonti diverse (ebraiche, pagane e cristiane), sistemandole in colonne parallele.
In molti di questi documenti – incluse le successive “cronache diagrammatiche” del teologo francese Pietro di Poitiers, genealogie che circolarono su manoscritti fin dalla fine del XII secolo – la linea era presente sia come figura implicita che come metafora linguistica. Ma la linea retta continua, regolare e misurata, a cui pensiamo quando pensiamo alla rappresentazione intuitiva del tempo ha una storia relativamente recente: meno di tre secoli.
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Molti innovatori delle prime cronologie moderne, da cui il formato della cronologia lineare emerse soltanto nel XVIII secolo, non erano chierici ma persone comunque molto devote, raccontano Rosenberg e Grafton. Ed è indubbio che la concezione lineare del tempo, nella prospettiva dell’occidente cristiano, si adattasse bene a una visione del mondo «escatologica», in cui tutta la storia umana si sviluppa verso un giudizio finale. Quei primi innovatori contribuirono a sviluppare cronologie che però non si occupavano soltanto di questioni millenarie, e per raffigurare ordinatamente i rapporti tra le varie epoche e tra i personaggi storici utilizzarono visualizzazioni complesse e vivaci: lineari, ma in un senso molto indiretto e implicito.
Nei primi anni della stampa a caratteri mobili circolarono cronologie che occupavano anche interi volumi. L’umanista tedesco Hartmann Schedel compose le Cronache di Norimberga, una storia illustrata del mondo pubblicata nel 1493, che seguiva la narrazione biblica e raccontava in lingua latina anche la storia di molte grandi città dell’Occidente. Per rappresentare ordinatamente i patriarchi della tradizione ebraica e i governanti dell’antica Grecia e dell’Impero romano, Schedel li raffigurò come frutti di contorti alberi genealogici. Utilizzò cioè un modello simile a quello delle genealogie di Pietro di Poitiers e utilizzato anche nella rappresentazione delle discendenze reali e nobiliari.
In altre pagine delle Cronache Schedel aggiunse l’illustrazione di esseri mitologici e mostruosi, cannibali e cinocefali, citati in alcune fonti greche ma non nelle genealogie bibliche, e quindi non inclusi negli alberi genealogici. Nella parte finale del libro, prima del racconto dell’origine delle città, lasciò anche tre pagine bianche per permettere ai lettori di annotare gli eventi che avrebbero avuto luogo nel periodo compreso tra la pubblicazione del libro e l’Apocalisse.
Nel corso del XVI e XVII secolo redigere cronologie diventò via via più impegnativo man mano che aumentarono le informazioni da integrare graficamente, tratte dalla storiografia, dalla paleografia, dalla numismatica, dall’astronomia e da altri campi. Non limitate alle tradizioni europee e cristiane, comprendevano anche lunghi elenchi di governanti egiziani, persiani, cinesi e delle Americhe. Le origini di alcune dinastie risalivano peraltro a tempi che precedevano la Genesi, fatto che indusse diversi pensatori e artisti, tra cui il filosofo italiano Giordano Bruno e il drammaturgo inglese Christopher Marlowe, a rifiutare del tutto la cronologia biblica.
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In questo stesso periodo, anziché cercare di integrare e ordinare informazioni sempre più numerose e sfuggenti, alcuni autori di cronologie concentrarono i loro sforzi nella semplice produzione di materiale didattico. La necessità di raccogliere le date storiche in formati grafici che semplificassero la memorizzazione da parte degli scolari contribuì ad accrescere una certa fantasia.
Una cronologia del 1585, Anatomia statuae Danielis dello studioso sassone Lorenz Faust, riprende in una serie di illustrazioni una nota immagine biblica, tratta dal secondo capitolo del Libro del profeta Daniele: una statua d’oro, argento, bronzo, ferro e argilla, sognata dal re babilonese Nabucodonosor. Secondo l’interpretazione tradizionale del sogno ciascuna parte della statua corrisponde a un diverso impero: la testa quello assiro, il busto quello persiano e i regni ellenistici, le cosce l’Impero romano, una gamba l’Impero romano d’Oriente e l’altra gamba quello d’Occidente.
Le illustrazioni nel libro – tra cui il disegno di una mano con elenchi testuali in colonne disposte lungo le articolazioni delle dita – permettevano di ricordare più facilmente molte informazioni puntuali su genealogie e successioni di re e monarchi, antichi e moderni. Altri esempi di rappresentazione del tempo nei secoli della stampa ripresero in parte questo stesso approccio, tipico della mnemotecnica: uno tra questi fu la Idea Historia Universalis scritta nel 1672 dal teologo e pedagogo sassone Johannes Buno, precettore presso diverse famiglie nobili.
Buno utilizzò alcune figure allegoriche per rappresentare ciascuno dei diciassette secoli dell’era volgare (d.C.) e dei quattro millenni prima della nascita di Cristo. Ogni oggetto e animale utilizzato come sfondo dell’illustrazione – un vaso per l’olio, un orso, un drago – riprendeva stampe famose dell’epoca e aveva un qualche significato associato al periodo rappresentato (il cammello per l’Esodo, per esempio).
Le immagini sovrapposte in primo piano, più piccole, rappresentavano invece episodi e personaggi storici centrali di ciascuna epoca: l’astronomo Tolomeo mentre osserva il cielo, per esempio, o il terzo figlio di Adamo ed Eva, Seth, che regge due pilastri simbolo della conoscenza. Vicino a ciascuna figura una specie di rebus semplificava la memorizzazione dell’identità del personaggio: due anguille che si divoravano a vicenda vicino ad Alessandro Magno, per esempio (Die Ahle essen ‘nander, “le anguille si mangiano a vicenda”).
Il filosofo e matematico tedesco Leibniz, che fu uno tra i più noti critici del libro di Buno, contestò di quell’approccio l’associazione arbitraria tra le immagini e gli eventi, e la negazione della linearità che qualsiasi cronologia avrebbe invece dovuto implicare. La proliferazione di modelli grafici basati sulle figure allegoriche, secondo Leibniz, non aveva reso migliori le cronologie ma ne aveva anzi sminuito il valore. Storici, insegnanti e intellettuali in gran parte d’accordo con lui, tra i quali il giurista italiano Giambattista Vico, autore del libro del 1725 Scienza nuova, continuarono quindi a preferire modelli di cronologie più tradizionali, ispirati alle tabelle di Eusebio.
In quegli anni un prolifico incisore tedesco, Christoph Weigel, tentò di integrare la schematizzazione cronologica dei dati ereditata da Eusebio e la forma circolare nel suo Discus Chronologicus, pubblicato intorno al 1720. Era una volvella, cioè un disco girevole costituito da più dischi sovrapposti e fissati alla pagina tramite un perno, che permette di farli ruotare indipendentemente l’uno dall’altro. Nel Discus di Weigel i raggi indicano i secoli e gli anelli concentrici le informazioni relative ai regni, i cui nomi sono stampati su un braccio girevole.
Altri autori rifiutarono del tutto le tavole cronologiche di Eusebio in favore di approcci più sperimentali e fantasiosi. Uno dei modelli di rappresentazione del tempo più suggestivi e originali, ma anche caotici, fu proposto dal poeta e letterato milanese Girolamo Andrea Martignoni. In alcune cartine da lui incise e pubblicate nel 1721, definite «carte istoriche», istituì un’analogia molto efficace tra lo spazio geografico e il tempo storico. Non sono mappe storiche, nel senso di mappe geografiche di diverse epoche, e non sono nemmeno cronologie in senso stretto: sono diagrammi cronologici presentati nella forma di mappe geografiche.
Uno dei diagrammi di Martignoni, quello che rappresenta la storia dell’Impero romano, è formato da un ampio territorio circolare con un grande lago al centro, che racchiude due mappe del Mediterraneo, e fiumi che scorrono dal centro verso l’esterno e viceversa. Ma come è evidente a un’osservazione più attenta i fiumi e i territori non sono elementi geografici: sono metafore temporali. Gli affluenti nella parte superiore del diagramma sono le nazioni conquistate dall’Impero romano e quelli nella parte inferiore le nazioni sorte dall’Impero, che è rappresentato nella sua interezza nel centro del diagramma.
In un altro diagramma – la Carta istorica della Francia e dell’Inghilterra dalla nascita di Gesù Cristo al 1700 – emerge chiaramente anche il tentativo di Martignoni di eliminare qualsiasi testo, per quanto possibile, per favorire un’esperienza di apprendimento delle informazioni puramente visiva. Questa ambizione comportò necessariamente l’utilizzo di un certo numero di icone codificate: l’immagine di un piccolo teschio indica la morte di un sovrano quando è ancora in carica, per esempio, e quello di un anello indica l’unificazione di due troni attraverso un matrimonio. L’icona del teschio di fianco all’anello e alla corona indica invece la morte di un re a cui succede una regina.
I diagrammi storici di Martignoni chiariscono il tipo di complicazioni inevitabili in qualsiasi tentativo di integrare spazio geografico e tempo storico. Per quanto contorte, piene di contraddizione visive e difficili da interpretare, le sue carte storiche sono considerate da Rosenberg e Grafton una delle prime visualizzazioni sistematiche della metafora del tempo che scorre. I tentativi successivi semplificarono questo approccio, utilizzando in un certo senso soltanto l’immagine lineare del fiume per mostrare «i più grandi movimenti della Storia» e non i dettagli minuti.
Proprio in quel periodo, intorno alla metà del XVIII secolo, emersero i primi esempi di linee temporali orientate simili a quella implicita nella rappresentazione del tempo che oggi consideriamo più immediata e intuitiva. I diagrammi Chart of Biography e New Chart of History del chimico e filosofo inglese Joseph Priestley, pubblicati nel 1765 e nel 1769, e ispirati a un precedente diagramma del cartografo inglese Thomas Jefferys (Chart of Universal History), furono i primi grafici conosciuti a utilizzare intervalli regolari per la distribuzione delle date e orientare il diagramma in senso orizzontale – da sinistra verso destra, seguendo la direzione della lettura – per enfatizzare il flusso continuo del tempo storico.
Lunghi circa un metro e alti 60 centimetri, i diagrammi di Priestley usavano anche colori diversi per mostrare la durata degli imperi, impossibile da visualizzare in modo altrettanto immediato attraverso spazi continui. Il Chart of Biography conteneva le annotazioni di nascita e morte di duemila personaggi storici famosi lungo tremila anni e il New Chart of History i fatti di 78 regni lungo lo stesso arco di tempo. Noto per la sua intensa attività sperimentale da chimico e in particolare per la scoperta dell’ossigeno (e anche dell’acqua gassata), Priestley mantenne anche per i diagrammi un approccio da scienziato: utilizzò la stessa scala per entrambi, in modo che i dati contenuti nell’uno potessero essere teoricamente prelevati e spostati nell’altro.
Utilizzando linee astratte e misurate anziché figure allegoriche e simboli difficili da interpretare, i diagrammi di Priestley rispettavano rigorosamente le proporzioni tra spazio e tempo e funzionavano in un certo senso come strumenti di misurazione scientifica. Questa evoluzione nella rappresentazione del tempo, secondo Rosenberg e Grafton, coincise con un più ampio cambiamento nel modo di immaginare la storia, che a partire già dal XVII secolo cominciò a essere vista come un po’ più guidata dall’azione umana e un po’ meno controllata da forze estrinseche millenarie.
Priestley voleva che i diagrammi fossero una «dimostrazione oculare» dei princìpi matematici applicati dal matematico, fisico e astronomo inglese Isaac Newton nei suoi scritti postumi sulla cronologia biblica. Secondo Newton le controversie sull’interpretazione e la datazione degli eventi storici riportati in quei testi sarebbero state risolte utilizzando medie matematiche per determinare la distanza tra le generazioni.
Considerati perfetti per semplicità e sintesi delle informazioni, i diagrammi di Priestley – come vale per altre cronologie stampate su grandi fogli – sono talmente densi da rendere difficile riprodurli su un mezzo diverso da quello per cui furono pensati senza perdere qualcosa, o in termini di dettagli o in termini di veduta d’insieme. Acquistabili all’epoca della pubblicazione come manifesti o come rotoli montati su cilindri, ottennero un grande successo e furono largamente utilizzati per decenni in ambito didattico. Nel XIX secolo quel tipo di diagramma era ormai parte dell’immaginario collettivo, al punto da non essere più nemmeno attribuito a Priestley.
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All’inizio del XIX secolo, sotto l’influenza del successo dei diagrammi di Priestley, diventò sempre più comune rappresentare il tempo a intervalli storici regolari anche nelle raccolte cronologiche di mappe storiche, indipendentemente da quanto fosse pieno di eventi o meno ciascun intervallo. Nel 1830, in una crescente produzione di atlanti che cercavano di dare risalto ai cambiamenti storici, il cartografo inglese Edward Quin introdusse per il suo atlante un’ulteriore innovazione: l’uso di nuvole buie per oscurare le aree sconosciute del mondo attraverso le diverse epoche.
Per quanto la concezione lineare del tempo sia ancora oggi dominante in molti paesi del mondo, la variabilità delle rappresentazioni del tempo a seconda del contesto suggerisce – esattamente come l’evoluzione delle cronologie storiche – quanto quella rappresentazione sia influenzata da molti fattori culturali, in particolare il linguaggio.
Diverse ricerche della psicologa e scienziata cognitiva bielorussa di origini ebraiche Lera Boroditsky, per esempio, ipotizzano l’esistenza di una relazione profonda tra la rappresentazione del tempo e la scrittura. In una serie di esperimenti di Boroditsky molto citati un gruppo di parlanti anglofoni ordinò cronologicamente una serie di fotografie disponendole da sinistra verso destra, mentre un gruppo di parlanti di lingua ebraica – che leggono da destra verso sinistra, come vale per altre lingue semitiche, incluso l’arabo – le ordinò nella direzione opposta.
Altri gruppi linguistici, tra cui i parlanti di cinese mandarino, immaginano il tempo come una linea verticale, in cui la parte alta rappresenta il passato e quella bassa il futuro. In generale questa variabilità nell’immaginazione del tempo non impedisce ai parlanti di lingue diverse di interpretare facilmente grafici e diagrammi a partire da altri segni contestuali. Ma esistono anche casi estremi in cui la differenza nella percezione del tempo è tale da rendere incomprensibili espressioni come «guardare avanti» o «lasciarsi qualcosa alle spalle».
Nella lingua Kuuk Thaayorre, parlata da una comunità aborigena australiana di Pormpuraaw, in cui Boroditsky condusse altri studi, non esistono parole come “sinistra” e “destra”. Ogni cosa, incluso il tempo, è orientata secondo i punti cardinali: nord, sud, est e ovest. Alla richiesta di disporre alcune foto in ordine cronologico, alcuni membri della comunità le ordinarono da sinistra a destra quando erano seduti con lo sguardo rivolto verso sud, e da destra a sinistra quando erano rivolti verso nord. Quando invece erano seduti con lo sguardo rivolto a est, ordinavano le fotografie verso sé stessi. Per la comunità di Pormpuraaw, scrisse Boroditsky, «il tempo non è determinato dal corpo, ma dal territorio».