La pazienza dei pioppicoltori
Servono dieci anni per far crescere i pioppi prima di venderli, durante i quali possono esserci imprevisti come alluvioni, infestazioni e siccità
Quando si percorrono le strade vicino al fiume Po, in pianura Padana, si incontrano di frequente boschi che sembrano disegnati con il righello. Osservandoli in auto a una certa velocità, è evidente un effetto ottico quasi ipnotico, generato dalla loro simmetria. Gli alberi utilizzati per queste coltivazioni sono i pioppi, da cui viene ricavato il legno per fare pannelli di compensato, per rivestire mobili, ma anche per fabbricare carta e imballaggi. Dopo un periodo di declino all’apparenza inevitabile, negli ultimi anni c’è stato un ritorno di investimenti e interesse nella pioppicoltura, di cui si sta discutendo molto nelle ultime settimane per via di un discusso progetto del PNRR, il piano con cui il governo italiano intende spendere i finanziamenti europei del Recovery Fund.
Una caratteristica peculiare di questa coltivazione è il tempo che richiede: servono almeno dieci anni per far crescere il tronco dei pioppi fino a una misura competitiva per il mercato. I pioppicoltori devono avere molta pazienza e lungimiranza perché sanno di dover affrontare dieci anni di spese prima di poter guadagnare qualcosa. «Chi semina mais o pianta insalata ha un tempo di rientro di 6 mesi, c’è una bella differenza», dice Fabio Boccalari, presidente dell’Associazione italiana pioppicoltori. Qualsiasi intervento sulle coltivazioni è quindi un’operazione delicata, che rischia di rovinare il lavoro di anni.
Boccalari ha un centinaio di ettari di pioppeti, circa un chilometro quadrato. Dice con un pizzico di ironia di coltivarli da «qualche anno»: la tenuta ha origini quattrocentesche e la sua famiglia la coltiva da secoli. All’epoca gli agricoltori seguivano l’andamento del Po, delle piene e delle alluvioni, per scegliere i terreni migliori. Rispetto a oggi c’erano meno vincoli e lo spazio non mancava. «La nostra è un’economia basata sul rispetto dell’ambiente in cui lavoriamo», dice Boccalari. «Da sempre rispettiamo l’ecosistema e sopravviviamo in un mondo che sta cambiando in modo sempre più veloce».
In Italia la pioppicoltura per come è intesa oggi si è sviluppata dagli anni Trenta del Novecento. Nel 1935 la costituzione dell’Ente nazionale per la cellulosa e la carta (ENCC) favorì le coltivazioni di pioppi per rifornire le industrie della carta: il governo fascista aveva l’esigenza di sostenere il più possibile la produzione nazionale e non importare materie prime dall’estero. Le superfici coltivate a pioppeto crebbero nei decenni successivi fino a raggiungere i 170mila ettari negli anni Settanta. Le aziende erano poco più di 60mila.
Dagli anni Ottanta molti pioppicoltori scelsero di dedicarsi a coltivazioni più redditizie. Dal 2010, quando la superficie coltivata scese sotto i 50mila ettari, c’è stata una leggera ripresa per via di una crescita dei prezzi che ha convinto diversi proprietari a tentare un investimento decennale: oggi gli ettari coltivati a pioppo sono 55mila, di cui circa il 90 per cento nella pianura Padana e nello specifico in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Le aziende di pioppicoltura sono circa 20mila.
I pioppeti vengono piantati vicino ai fiumi principalmente per sfruttare le aree golenali, cioè le zone libere tra la riva e l’argine, e per soddisfare la necessità di acqua. Prima di piantare gli alberelli bisogna lavorare a fondo il terreno. Possono essere piantate dalle 200 alle 300 piante per ogni ettaro, a seconda dello sfruttamento più o meno intensivo del terreno. La disposizione geometrica dei pioppeti si ottiene grazie all’utilizzo di trattori guidati dal GPS, il sistema che fa funzionare i sistemi di navigazione geografica dei dispositivi elettronici. Gli alberelli vengono piantati nel periodo invernale fino a poco prima della primavera per favorirne la crescita fin dal primo anno.
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Nei primi anni il pioppeto ha bisogno di concimazione una volta all’anno, trattamento ridotto via via che le piante si sviluppano, e servono anche potature e interventi contro i parassiti per favorire una crescita rapida e senza problemi. Quando il tronco della pianta raggiunge un metro di circonferenza, cioè al decimo o in alcuni casi all’undicesimo anno, gli alberi vengono tagliati e venduti alle aziende che utilizzano il legno dei pioppi. Solitamente si fanno vendite in blocco, cioè di più ettari, con una quantità minima di mille piante.
Ogni pioppicoltore, spiega Boccalari, deve organizzare le coltivazioni con attenzione per sfruttare lo spazio nel modo migliore e assicurarsi guadagni di anno in anno. Dividere i terreni e distribuire nella piantagione alberi di età diverse consente di avere piante mature, e quindi una certa quantità di legname, ogni anno. «Rimane il problema che chi inizia da zero deve comunque aspettare dieci anni. La pazienza è la nostra caratteristica più importante», dice Boccalari. «In dieci anni può succedere di tutto: trombe d’aria, infestazioni di insetti, gravi siccità. Bisogna tenere conto degli imprevisti».
Il prezzo dei pioppi è cresciuto molto. Prima della pandemia era sceso fino a poco meno di 60 euro ad albero, nel 2022 ha superato i 100 euro. La grandezza e la qualità delle piante sono le caratteristiche con cui si valuta il prezzo di un pioppeto da tagliare. Le quotazioni in aumento stanno assicurando buoni guadagni a chi aveva piantato gli alberi 10 anni fa: molti pioppicoltori sono riusciti a prevedere la crescita dei prezzi, per molti altri i guadagni sono stati inaspettati.
Negli ultimi due anni, tuttavia, la routine decennale di molti pioppicoltori è stata scombinata da un progetto proposto nel PNRR per la cosiddetta “rinaturazione” del Po. Rinaturare significa limitare lo sfruttamento delle aree golenali, come il prelievo di ghiaia, favorire la diffusione di specie autoctone, piantare nuovi alberi e far sviluppare boschi naturali. L’obiettivo è ripristinare l’habitat originario del Po in diverse zone: sono coinvolte 11 province e 106 comuni. Per farlo sono stati messi a disposizione 357 milioni di euro gestiti dall’Agenzia interregionale per il fiume Po (AIPO).
Come tutti i progetti del PNRR, anche la rinaturazione del Po ha scadenze serrate, ma negli ultimi mesi è andato tutto molto a rilento. Come ha raccontato un’inchiesta di IrpiMedia, all’inizio del 2022 c’è stata una novità importante: WWF e ANEPLA, l’Associazione nazionale estrattori lapidei ed affini, che avevano proposto insieme il progetto in un’alleanza inedita, sono state escluse dal gruppo di lavoro senza spiegazioni. La gestione è rimasta all’AIPO e secondo diverse associazioni da quel momento è mancato il confronto su come attuare la rinaturazione. Oltre a Confagricoltura e Coldiretti, anche l’Associazione italiana pioppicoltori si è espressa contro il progetto.
L’associazione ha stimato che gli interventi di rinaturazione toglieranno circa 7.000 ettari di pioppeti agli agricoltori, un danno considerevole per il settore. «Non siamo del tutto contrari alla rinaturazione, siamo i primi a voler gestire i fiumi in modo corretto», dice Boccalari. «Il problema è che non siamo stati coinvolti. Ci sono diversi modi per favorire il ritorno dell’habitat naturale senza sconvolgere la pioppicoltura, di cui tra l’altro è dimostrata la sostenibilità sia per l’assorbimento della CO2 che per il mantenimento delle falde e dei terreni vicino ai fiumi. Limitare la pioppicoltura non porterà vantaggi».
Secondo il WWF, invece, le associazioni agricole da tempo ostacolano il recupero delle aree vicine ai fiumi per interessi economici. «Pur di piantare pioppi fin sulla sponda del fiume, stanno mettendo a rischio la loro stabilità e con essa le case e le vite di chi abita in quei luoghi», si legge in un comunicato dell’organizzazione. «I pioppi coltivati nella fascia di deflusso della piena, infatti, a differenza ad esempio dei salici, vengono facilmente scalzati dal fiume, andando anche ad incrementare il materiale che poi tende ad accumularsi pericolosamente alla base dei piloni dei ponti».
Le associazioni ambientaliste, tra le altre cose, considerano infondate le preoccupazioni degli agricoltori. Gli interventi previsti dal progetto, ha scritto il Centro italiano per la riqualificazione fluviale (CIRF), riguardano il ripristino di vegetazioni forestali e di forme fluviali per poco più di 1.700 ettari – non quindi per 7.000 – ma di questi solo il 10 per cento, meno di 200 ettari, è costituito da terreni coltivati. Finora i rallentamenti e la mancanza di confronto hanno impedito di approfondire i dettagli e le conseguenze dei singoli interventi, e quindi capire meglio i termini della questione.
Le posizioni sembrano inconciliabili. «Di fronte alla devastazione del territorio, c’è la necessità di rivedere le politiche di gestione del suolo e promuovere progetti di adattamento ai cambiamenti climatici, come questo della rinaturazione del Po, volti a garantire il nostro futuro e a non privilegiare solo alcune lobby che hanno sfruttato il fiume contribuendo all’attuale vulnerabilità a cui è esposto», ha scritto il WWF.
L’AIPO ha sospeso il progetto, almeno per ora, sostenendo che ci siano troppe «criticità di ordine generale sugli obiettivi, sul rapporto tra l’interesse contrastante di uso del territorio, in particolare nei confronti dell’agricoltura e della pioppicoltura». Al momento non è chiaro che fine faranno i soldi messi a disposizione dal PNRR, se si riuscirà comunque a concretizzare alcuni interventi singoli attraverso un compromesso tra ambientalisti e agricoltori, oppure se è troppo tardi.