Alla fine molte banche non pagheranno la tassa sugli “extraprofitti”

Possono farlo mettendo da parte due volte e mezzo la somma che dovevano versare allo Stato

(ANSA/MATTEO BAZZI)
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Nelle ultime settimane diverse banche italiane hanno comunicato che non pagheranno la cosiddetta tassa sugli “extraprofitti”, introdotta ad agosto per tassare i guadagni aggiuntivi ottenuti con l’aumento generalizzato dei tassi di interesse su mutui e prestiti. Le banche hanno deciso di sfruttare una possibilità prevista espressamente dalla legge come alternativa al pagamento: useranno due volte e mezzo la somma che avrebbero dovuto versare allo Stato per aumentare le loro riserve, una pratica che in sintesi serve a rendere i loro bilanci più solidi.

Questa opzione era stata inserita al momento della conversione in parlamento del decreto-legge con cui era stata introdotta la tassa: una modifica che aveva cambiato profondamente la misura rispetto alla versione originaria, pensata proprio per raccogliere risorse da destinare a chi è in difficoltà col pagamento delle rate del mutuo e per ridurre le tasse. In questo modo non solo le risorse raccolte saranno poche, perché molte banche non pagheranno la tassa, ma gli istituti bancari rafforzeranno i loro bilanci usando i soldi che nelle iniziali intenzioni del governo sarebbero dovuti finire nelle casse dello Stato.

Il decreto-legge prevedeva che le banche avrebbero dovuto versare allo Stato il 40 per cento sulla differenza tra il margine di interesse ottenuto nel 2023 rispetto a quello del 2021. Il margine di interesse è la differenza tra i tassi di interesse che vengono pagati alla banca dai suoi clienti, come quelli sui mutui ai privati e sui prestiti alle imprese, e quelli che la banca paga a chi le presta i soldi, come i tassi sui depositi e sui conti correnti. Facciamo un esempio, semplificando molto i calcoli: una banca nel 2021 prestava denaro al 2 per cento, e pagava sui conti correnti o conti deposito lo 0,5 per cento di interessi: il suo margine era quindi dell’1,5 per cento. Nel 2023 ha chiesto il 5 per cento sui prestiti e pagava il 2 per cento sui conti correnti o conti deposito, quindi con un margine di interesse del 3 per cento. La differenza tra i due margini – 3 e 1,5 per cento – ha portato a un incremento di profitto, di cui lo stato chiedeva il 40 per cento come imposta straordinaria. La tassa comunque non poteva superare un certo limite, per non gravare troppo sul bilancio.

La norma era stata molto criticata perché ritenuta troppo onerosa per le banche, e perché c’era il rischio che queste avrebbero poi scaricato il costo sui clienti aumentando le commissioni sui propri servizi.

Il decreto-legge convertito prevede invece che le banche possano accantonare una somma pari a due volte e mezzo l’importo della tassa. Questa somma finirà nelle cosiddette “riserve indisponibili”, che le banche devono tenere in via precauzionale e che possono essere usate solo per coprire eventuali perdite. Sono un elemento importantissimo del bilancio bancario, servono per evitare che le banche vadano in crisi o che addirittura falliscano a causa di eventi che potrebbero comprometterle, come per esempio una crisi finanziaria. Dopo quella del 2008, le leggi europee hanno introdotto  vincoli sempre più rigidi per queste riserve, con un conseguente miglioramento nella solidità dei bilanci bancari.

Secondo il decreto-legge convertito, se le banche dovessero usare queste somme per fare altro, come per esempio distribuire utili ai loro azionisti, saranno costrette a versare l’imposta dovuta in origine e pagare una penale.

Secondo le stime che circolano le 12 banche italiane quotate in borsa dovevano allo Stato complessivamente 1,8 miliardi di euro. Queste banche coprono da sole circa il 75 per cento del mercato e sono quindi rappresentative del settore. Secondo una stima di Deutsche Bank la tassa dovuta da tutti gli altri istituti sarebbe di circa 300 milioni di euro, e la somma totale raccolta dalla tassa sugli “extraprofitti” sarebbe stata quindi poco più di 2 miliardi di euro.

Da inizio novembre, insieme alla pubblicazione trimestrale dei conti, molte tra le banche quotate in borsa hanno detto di non voler pagare la tassa e di preferire rafforzare le riserve: tra queste ci sono Intesa Sanpaolo, Unicredit, BPER, Banco BPM, MPS. Peraltro, secondo un’analisi pubblicata da lavoce.info, gli utili delle banche negli scorsi mesi sono stati talmente alti da permettere una distribuzione generosa dei dividendi agli azionisti, e accantonamenti più alti di quelli richiesti dalla legge. Lo Stato quindi ha di fatto rinunciato a un’entrata economica obbligando le banche a fare una cosa che molto probabilmente avrebbero fatto comunque.

Oltre a essere necessaria per reperire risorse, la tassa sugli “extraprofitti” delle banche aveva anche una valenza politica. L’aumento del costo dei mutui è un problema che ha inciso molto sulla vita delle persone, e per questo il governo aveva pubblicizzato ampiamente questo provvedimento. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni l’aveva più volte definita come una misura di equità sociale contro i «margini ingiusti» delle banche e necessaria per raccogliere risorse in modo da aiutare le persone in difficoltà coi rincari delle rate del mutuo.

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